Il Caffè Greco

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AL MARCHESE GIUSEPPE VITELLESCHI.

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Il Caffè Greco, o per dir meglio l'«Antico Caffè Greco», come si legge sulla insegna in cima alla sua porta d'entrata, la quale non disdegna di esercitare a tempo e luogo anche il modesto ufficio di porta d'uscita, abita in Roma nel suo domicilio legale in via Condotti numero ottantasei, ove vive agiatamente con la mobilia inalterata, come le vecchie abitudini, in tre stanze e mezza: dico tre stanze e mezza perchè se la prima, la seconda e la terza hanno su per giù cinque metri di larghezza ed altrettanti di lunghezza, l'ultima, denominata per la sua forma l'omnibus, è larga appena due metri e lunga otto metri all'incirca.

La prima camera non è molto ricca di luce; tuttavia quella che riceve dalla strada la divide con la seconda: a illuminare la terza ci pensa l'omnibus, il quale ha per soffitto una invetriata su cui sovente i gatti del vicinato amano di andare a passeggiare con le loro innamorate.

Tre specchi, quattro quadri raffiguranti alcune vedute di Venezia, opera di Ippolito Caffi, e un orologio, che potrebbe gareggiare in precisione col più esatto cronometro ginevrino se disgraziatamente oltre al tic e tac non avesse di quando in quando anche il [306] tic di suonare il mezzogiorno verso le cinque pomeridiane, adornano la prima stanza; due specchi e sei quadri decorano le pareti della seconda; la terza invece si accontenta di avere per suo abbellimento un solo specchio ed un busto di gesso, il quale, poveretto, non è mai riuscito a sapere chi egli sia.

Una ridente veste di esilaranti pitture ricopre per tutta la lunghezza le mura dell'omnibus. A chi le guarda dovrebbero far credere, anche nelle più rigide serate dell'inverno più crudo, di trovarsi in un delizioso giardino fra il cui verde fogliame illuminato e riscaldato dal sole primaverile s'aprano, imbalsamando l'aria coi loro profumi inebrianti, centinaia e centinaia di rose di ogni forma e colore; ma, purtroppo, nessuno fra quanti ora si siedono nello stanzino presta più fede alla finzione. E non vi crede più nemmeno il padrone del negozio: difatti egli ha ficcato un chiodo nel cielo azzurro sopra al roseto e vi ha impiccato un orologio, che in tutte le sue ore è sempre in lite con quello della prima stanza. Ma alla discordia dei due orologi i frequentatori della bottega ci badano poco, perchè per essi il tempo non ha valore. Dice una antica massima inglese: il tempo è moneta. Se la massima oltre all'essere antica ed inglese fosse anche vera, Dio mio! chi mai saprebbe calcolarlo il numero dei milioni che si sciupa in capo all'anno nell'«Antico Caffè Greco»?

Dietro all'omnibus sta il bancone del negozio, e sul bancone, chiuse in una specie di gabbia, vi sono le paste. Esse si distinguono in due categorie: semplici e composte. Le semplici valgono un soldo l'una, e se il loro aspetto è alquanto modesto non sono per ciò meno buone di quelle composte, le quali costano due soldi, e spesso hanno le loro forme esuberanti [307] rivestite di un manto di colori così vivaci da vincere al paragone il più variopinto pappagallo che abbia mai passeggiato e chiacchierato su le lontane rive dell'immenso Orenoco. Del resto tanto le une quanto le altre passano la vita, non breve, lungi da qualunque umano contatto nella loro dolce prigione dalla quale non desiderano di allontanarsi: difatti, se talvolta, per caso, la gabbia ove sono rinchiuse rimane aperta, esse non si muovono, perchè sanno, per dolorosa esperienza, che se ne uscissero vi tornerebbero indubbiamente con l'epidermide graffiata, con le carni ferite, con le ossa rotte.

Un giovane scultore tutte le volte che entrava nella bottega soleva chiedere al cameriere caffè e paste, e questi, secondo il costume del locale, glie ne portava tre in un piattino. L'alunno di Fidia, appena il cameriere si allontanava, con una operazione rapidissima, in cui egli sapeva mettere tutta la sua abilità di modellatore eccellente, dalle tre paste faceva uscire una quarta e se la mangiava; beveva il caffè che qualche volta pagava, e le paste con un pretesto o con l'altro le rimandava sempre indietro.

Non dico poi che cosa accadesse di solito a certe paste le quali, per loro disgrazia, avevano la pancia rigonfia di crema. Come uscivano dalla gabbia vi rientravano sempre con la pancia vuota: e il loro padrone, prima di andarsene a letto, doveva nuovamente e pietosamente tornare a riempirle di panna. Stanco alfine di compiere ogni sera cotesto delicato lavoro sospese la fabbricazione delle così dette bombe alla vainiglia. Pure, bisogna dirlo a sua lode, benchè all'onest'uomo il fabbricar dolciumi abbia ognora fruttato molte amarezze egli continuò sempre a stampar paste, seguendo in tutto e per [308] tutto, per la forma e il peso, per le dimensioni e i colori, i semplici, leali e diritti procedimenti dei suoi antecessori; al punto che se oggi, nell'anno di grazia mille ottocentonovanta, le vaghe e imbellettate dame di qualità, seguite dai vezzi dei cicisbei e dai madrigali degli abati, potessero tornare nella bottega di via Condotti, io credo che oggi, come allora, vi troverebbero le stesse paste.

Vi meravigliate forse nel sentirmi parlare di dame di qualità, di cicisbei, di madrigali e di abati? Ma il Caffè Greco non è venuto al mondo oggi; e tutti sanno come in sui primi anni della seconda metà del settecento abitasse già in via Condotti. Questo lo sanno tutti; ma, purtroppo, la data esatta della sua nascita, come quella della fondazione di Ninive, di Babilonia e di Memfi, non la conosce nessuno: però, come fortunatamente ognuno sa che Memfi, Babilonia e Ninive furono fondate da Nino, da Belo e da Menete, così tutti noi possiamo andare orgogliosi di sapere che il Caffè Greco fu messo al mondo da un greco, il quale, a quanto si legge nelle pagine di un vecchio registro della parrocchia di S. Lorenzo in Lucina, si chiamava Nicola della Maddalena.

L'infanzia del Caffè non fu troppo lieta, e il suo babbo dopo di averlo tenuto parecchi anni, ricavandone non grandi utili, lo cedette a un tal Carnesecchi, il quale, anche lui, dopo di averci speso molto e guadagnato poco, lo diede a un certo Salvioni.

Venuto nelle mani del Salvioni il Caffè, passando da un padrone all'altro, era anche passato dall'infanzia all'adolescenza: le vecchie vesti non s'addicevano più al suo nuovo stato, e il buon uomo lo [309] fece ricoprire di pitture da un certo Maderno, e lo corredò di nuova mobilia. Tutto bene; ma il povero Caffè, anche così rinnovato e abbellito, seguitò a tirare innanzi la vita stentatamente come il suo padrone. Questi però non pensò mai di abbandonarlo. E di non averlo abbandonato non ebbe davvero a pentirsi; poichè coll'avanzar degli anni la bottega fondata dall'uomo di Levante, uscendo finalmente dall'adolescenza debole e malsicura ed entrando in una virilità gagliarda e prosperosa, seppe così ben ricompensare il suo padrone di Ponente da assicurargli, se non la ricchezza, un'agiatezza invidiabile.

La gratitudine, questa dolcissima catena i cui anelli una volta arrivavano perfino a stringere con legami di benevolenza un Caffè che riceveva un benefizio al padrone che glielo aveva fatto, chi me lo sa dire dove si trova più ai giorni nostri?

La cosa da cui il Caffè Greco trasse i mezzi per poter rimunerare con buona moneta sonante il suo benefattore fu giusto appunto quella da cui tutta l'Europa ebbe tanti dolori: il Blocco continentale.

Le strade nelle quali si diletta di camminare la Provvidenza per assettare i cosi ed i casi di questo mondo, facendo quasi sempre il bene degli uni col male degli altri e viceversa, sono davvero incalcolabili! Chi mai lo avrebbe pensato che essa per favorire l'umile bottega di via Condotti si sarebbe servita di Napoleone, dettandogli a Berlino, nel novembre del 1806, quel decreto dal quale egli doveva poi esser messo sulla via di Sant'Elena? Eppure fu così. Il decreto famoso, vietando ogni commercio ed ogni corrispondenza fra il Continente e le Isole Britanniche, fece salire i prezzi dei così detti generi coloniali a tale altezza che gli uomini più alti, anche [310] rizzandosi sulle punte dei piedi, non arrivavano a toccarli: il caffè, quando se ne trovava, valeva uno scudo alla libbra, e i caffettieri romani non sapendo più quali cose mettere a bollire nelle cogome, invece dei semi della coffea arabica, ci mettevano i ceci, i fagiuoli e le castagne di Ciociaria.

Il Salvioni ebbe una idea felicissima da cui derivò la sua fortuna: rimpicciolì di un terzo la misura delle tazze che, ricolme della aromatica bevanda, nella sua bottega valevano allora due baiocchi e mezzo, e per cinque le offrì ai suoi avventori ripiene di vero caffè. Più tardi, cessato il Blocco, il galantuomo tornò a riempire, sempre di caffè eccellente, per due baiocchi e mezzo le antiche tazze; gli avventori vecchi non si mossero; i nuovi, chiamati in gran numero dalla sua idea felicissima, non se ne andarono, e la fama del Caffè Greco fu assicurata. E via via arricchitosi di nuove stanze, ornatosi di altre pitture e confortato da sempre maggior numero di frequentatori procedette sicuro e tranquillo per la sua strada gloriosa senza mai più incontrare ostacoli sul suo cammino; e pur vedendo intorno a sè mutarsi e rimutarsi tante e tante parti della terra, salire e discendere dalla cattedra di S. Pietro tanti pontefici, apparire e sparire dalla scena del mondo tanti re e imperatori, sorgere e tramontare tante rinomanze e nascere e morire tanti suoi colleghi, il vecchio Caffè romano, in mezzo a così immenso, tumultuoso, tragico e comico avvicendarsi di uomini e di cose, se pur talvolta fu obbligato a cangiar padrone, non cangiò mai bandiera e rimase ognora un Caffè onesto e morale.

Onesto? Eh, il caffè col quale conforta lo stomaco dei suoi frequentatori odierni... e notturni costa [311] tre soldi alla tazza, nè più nè meno di quanto costava ai bei tempi in cui ebbe l'alto onore di essere visitato da Ippolito Taine, il quale, nel suo Voyage en Italie così scrive, rammentandolo: C'est une longue pièce, basse, enfumée; point du tout brillante ni coquette, mais commode. Il est vrai que presque tout y est bon et à bas prix; le café, qui est excellent, coute trois sous la tasse.

Dal 1864 molte cose son cambiate su tutti e sette i Colli; ma nella bottega di via Condotti il prezzo del caffè è rimasto inalterato a tre soldi la tazza.

E come nè il desiderio smodato di maggiori guadagni nè l'avidità di laute ricchezze ebbero mai la potenza di far alzare al Caffè Greco quei bassi prezzi di cui parla il Taine, così nessuna cosa al mondo ebbe mai la forza di farlo uscire da quel diritto sentiero di moralità austera nel quale camminò sempre, sorretto e seguìto dalla sua virtuosa clientela. Altri Caffè sursero a centinaia intorno a lui e cercarono coi lenocinii delle forme, con gli splendori abbaglianti delle lumiere e con gli adescamenti lascivi delle cantatrici e dei mimi, di attrarre nelle loro sale un numero sempre maggiore di frequentatori; ma il Caffè Greco, ah no, mai si abbassò a tanto, e rimase ognora, mi è caro il ripeterlo, un Caffè onesto, morale e a tre soldi.

Ma a queste tre qualità, già più che sufficienti da sole ad assicurargli la stima e il rispetto di ogni uomo dabbene, esso ne può aggiungere un'altra onorevolissima: quella di essere stato anche un Caffè liberale e della vigilia, difatti i sentimenti del suo amore per la libertà, se pure non si vuol tener conto delle prediche che, a quanto afferma l'Ojetti, Ennio Quirino Visconti vi faceva fra il 1797 e il 1799, [312] risalgono, almeno a quanto io ne so, al 1831; poichè fu appunto in uno di quei moti scoppiati qui in Roma in quell'anno, i quali se furono non tutti belli nè di grande importanza, servirono tuttavia ad educare gli animi alla virilità dei sacrifici, fu proprio in uno di quei moti che il Caffè Greco manifestò coraggiosamente la sua fede nell'idea liberale.

La rivoluzione dei Ducati s'era già propagata nello Stato Pontificio, e già durante i pontificati di Leone XII e di Pio VIII, erano avvenute qui fra il Vaticano e il Quirinale sollevazioni e ribellioni, più o meno sanguinosamente represse dalla polizia, quando parecchi artisti romani, alcuni pensionati dell'Accademia di Francia e qualche medico dell'ospedale di S. Spirito, per reagire contro le inquisizioni, gli arresti, le condanne, le delazioni, le proscrizioni e i supplizi che rendevano la vita intollerabile, decisero di assaltare una caserma di granatieri, in piazza Colonna, precisamente nel piano terreno di un vasto edificio ove era l'archivio pubblico e dove fu poi costruito il portico di Vejo. Per mettere in esecuzione il loro ardito disegno essi scelsero una sera di carnevale: una sera in cui nel palazzo Piombino si festeggiava il matrimonio di Costanza Boncompagni col Duca di Fiano.

All'ora stabilita, quei pensionati dell'Accademia francese che avevano giurato di pigliar parte alla non facile impresa, scesero al Caffè Greco e vi trovarono i romani ai quali all'ultimo momento s'erano uniti taluni romagnoli: quivi, secondo quanto io appresi da un vecchio frequentatore della bottega, il quale mi raccontava di essersi trovato presente al momento solenne, i francesi, i romani e i romagnoli prima si abbracciarono e baciarono ripetutamente a [313] vicenda e poi usciti dal Caffè, in silenzio, si diressero verso piazza Colonna, dove altri congiurati, quasi tutti popolani, stavano ad aspettarli.

Uno scultore, un certo Lupi, figlio di un medico di Santo Spirito, guidava gli artisti. Egli, sempre a quanto mi narrava il mio vecchio amico, ci vedeva poco e camminava appoggiandosi a un suo compagno; e quando arrivò in piazza Colonna disse alla sua guida di condurlo quanto più potesse accosto alla sentinella di piantone sulla porta del quartiere, e appena questa ve l'ebbe condotto, il Lupi tirò un colpo di pistola al soldato. Altri colpi di pistola risuonarono qua e là nella piazza; e mentre la gente radunata sotto alle finestre illuminate del palazzo ove celebravasi la festa nuziale fuggiva in preda allo spavento, un gruppo di congiurati balzò fuori dalla penombra che velava il vicolo Cacciabove, e gridando: Viva Filippo Primo! corse verso la caserma esortando i granatieri a non pigliare i fucili; ma questi li presero, li spianarono contro i ribelli, e spararono.

Il Lupi sanguinante per una ferita non grave fu arrestato subito; la maggior parte degli altri riescì a salvarsi con la fuga, e due soldati rientrarono nel quartiere feriti leggermente. Chi pagò per tutti fu il povero portiere di casa Piombino, il quale mentre si affrettava a chiudere il portone del palazzo fu colpito da una palla, stramazzò in terra, e non si alzò più.

Nei giorni seguenti la polizia essendo venuta a sapere qual parte avessero avuto gli artisti nella zuffa, ne mandò qualcuno a villeggiare in Castel S. Angelo, e ordinò ai carabinieri di sorvegliare la bottega di via Condotti. Ma non per questo i liberali smisero di [314] frequentarla. In quei giorni i pensionati dell'Accademia francese s'univano spesso ai confratelli italiani, massime con quelli di fede liberale, e questi li accoglievano sempre a braccia aperte, anche perchè, qualora ce ne fosse stato bisogno, sapevano di poter trovare presso di loro aiuti e protezioni contro le insidie poliziesche: l'Accademia di Francia allora godeva del diritto di asilo, ed era vicina al Caffè Greco.

L'entente cordiale fra gli artisti nostri e quelli francesi continuò strettissima per molti anni, poi venne a poco a poco allentandosi finchè nel 1849 si spezzò violentemente. Mentre le bombe dell'Oudinot piovevano su Roma, un pensionato dell'Accademia commise la grande imprudenza di entrare nella bottega di via Condotti, e quella anche più grande di entrare in una discussione che alcuni tenevano sugli avvenimenti del giorno, e, poveraccio, finì con l'uscire dalla discussione e dal Caffè portandosi via due solennissimi schiaffi datigli da un certo Casciani, un pittore romano, il quale sapeva adoperare le mani meglio dei pennelli.

Ristabilita la dominazione pontificia, di quando in quando, qualcuno dei pensionati francesi rientrò nelle stanze del Greco, è vero; ma ormai il legame che univa l'Accademia di Francia alla bottega di via Condotti s'era spezzato, e un po' per le vicende politiche e un po' per altre ragioni bene bene non si riallacciò più mai. Invece i legami fra la bottega famosa e i liberali nostri divennero sempre più stretti, poichè con l'avanzar degli anni la maggior parte di coloro che venivano in Roma dalle diverse provincie, o per scopo di propaganda o per altri motivi, preferì sempre agli altri luoghi di ritrovo il Caffè Greco. Si [315] capisce facilmente come a costoro, che di solito giustificavano la verità dei loro nomi falsi con passaporti americani, inglesi, maltesi o di altre parti del mondo, tornasse comodo di darsi per artisti e di intrufolarsi fra i frequentatori di un luogo il cui pubblico in massima parte era composto di stranieri. Gli sbirri, è vero, talvolta visitavano la bottega nonchè le tasche degli avventori, ma prima di andare più in là ci pensavano due volte e anche quattro, perchè temevano, in caso di un errore, di dover poi fare i conti con le diverse ambasciate, i quali conti, dopo somme non indifferenti di rimostranze e di rabuffi, finivano sempre, dopo procedimenti lunghi e fastidiosi, con un totale di scuse umilianti che la polizia pontificia era costretta a fare ai rappresentanti dei governi esteri. Per questo dunque la bottega del Greco divenne uno dei ritrovi più favoriti dei liberali; e negli anni vicini al 1870 servì spessissimo come luogo di riunione per cospirazioni o per la preparazione di moti e di imprese patriottiche di ogni genere.

Giuseppe Monti, quando fu invitato ad unirsi a Gaetano Tognetti per esplorare i sotterranei della caserma Serristori e poi collocarvi i barili di polvere necessari a far crollare una parte dell'edificio, alle esortazioni assidue di chi lo istigava ad assumersi la difficile e perigliosa fatica rispondeva sempre: — Ma io ho moglie! Ho un figlio che non ha ancora due anni! Questo lavoro che mi chiedete di fare non potrebbe esser fatto da un altro? — Per sua disgrazia era scritto che il lavoro funesto dovesse farlo proprio lui! E una sera, alcuni ideatori di quel programma d'insurrezione; il quale, se doveva dare alla storia del nostro Risorgimento i due gloriosissimi episodi di Villa Glori e del Lanificio [316] Ajani, doveva anche, purtroppo, interamente fallire, per indurre il Monti ad unirsi al Tognetti, lo condussero nel Caffè di via Condotti, dove, fra le molte persone ivi raccolte, gli indicarono un signore (Leone Vicchi vuole che fosse il Castellazzo) seduto incontro a loro a un tavolino presso il quale era altra gente, e poscia che glie lo ebbero qualificato come un personaggio di grande importanza, mandato qui dal Rattazzi per dirigere la ribellione destinata ad aprire all'Italia le porte di Roma, gli dissero: — Vedi, se tu accetti di fare quanto ti si chiede, comunque vadano le cose, puoi essere sicuro di non avere niente da temere, perchè il governo italiano non ti abbandonerà mai, e quel signore ti darà sempre tutto quello di cui avrai bisogno per sistemare stabilmente l'avvenire tuo, della tua moglie e del tuo figliuoletto. — Il Monti che era un povero muratore e sosteneva la sua famiglia lavorando a tanto la giornata in una delle prime case che sorgevano in via Nazionale, tracciata allora allora dal De Merode, prima di impegnarsi tentennò ancora; ma alfine, soppraffatto dalle molte parole e forse ammaliato dalle promesse lusinghiere, uscì dalla bottega accettando di unirsi al Tognetti e di eseguire insieme con lui quanto gli domandavano.

L'indomani, lo portarono con molta cautela in una casa in via del Pantheon ove ritrovò il gran personaggio da lui visto la sera innanzi al Caffè Greco, e glielo fecero giurare solennemente. Povero Monti! Superando ostacoli e difficoltà inenarrabili, egli quanto aveva giurato di fare, lo fece, e finì col lasciare, unitamente al suo compagno, la gioventù e là vita su le tavole insanguinate di un patibolo.

Ma la bottega di via Condotti, negli anni vicini al [317] 1870, fu per i liberali qualcosa di più di un luogo di riunione; poichè essi ogni qualvolta ne avessero avuto bisogno erano sicuri di trovarvi in tutte le ore qualcuno pronto, dietro certi segnali di riconoscimento stabiliti, a ricevere notizie urgenti, a dar loro ordini e consigli o, se fosse necessario, a metterli in contatto coi capi del «Comitato di azione».

Fra le molte testimonianze da me raccolte, le quali confermano la verità di quanto io dico, mi basta riferirne una sola.

Anni addietro, trovandomi in Udine, ebbi la fortuna di conoscere colà Giusto Muratti, uno dei Settanta di Villa Glori; e spesso nelle mie escursioni nel Friuli mi rallegrai di averlo compagno caro, indimenticabile, e guida preziosissima. Quasi sempre, mentre trottavamo lungo le strade e i sentieri della dolce campagna friulana, io desiderando vivamente di sentire narrare da lui qualcuno degli episodi gloriosi del nostro Risorgimento, a cui egli aveva dato tanta parte della giovinezza, gli rivolgevo qualche dimanda; ma per quella repugnanza che han sempre gli uomini d'azione, quando hanno veramente e disinteressatamente agito, a parlare di se stessi, schivava di rispondermi: e se talvolta si piegava alle mie insistenze vi si piegava in modo così breve da farmi perdere la voglia di più dimandare.

Nondimeno, durante le nostre gite, io le tentavo tutte per indurlo a discorrere e talora riuscivo a metterlo sulla buona via; ma dopo poche parole una cosa qualunque su cui mettesse gli occhi era per lui un eccellente pretesto per non andare più innanzi: una contadina curva sotto il carico di una grossa gerla ricolma di foglie; un vecchio, che, seduto davanti all'uscio di una casa rustica, tenendo sulle ginocchia [318] un bambino e fumando la pipa si godeva gli ultimi raggi del sole cadente; due ragazzi che ruzzavano con un cane; qualche cascina, col tetto pieno di voli festosi e canori di passeri, dalla cui porta spalancata usciva, insieme con qualche mugghio, un acre e pur piacevole odore di stabbio; un gruppetto pittoresco di alberi annosi; la forma slava e il colore ferrigno di un campanile coronato di colombi; una macchia di lichene sopra una pietra antica; un fiore che si piegava sotto il peso di un'ape; una linea di montagne azzurre, in cima alle quali s'eran fermate alcune nuvolette rosee, come se avessero voluto riposarsi un poco prima di rimettersi a camminare per le vie del firmamento; insomma, una cosa qualunque bastava a sviarlo dal soggetto dove io l'avevo portato con tanta pazienza, ed era più che sufficiente a fargli rompere il filo del discorso in modo tale da non poterlo più riannodare. E come se tutte coteste cose e coteste case, non fossero state già bastanti a farmi disperare, non di rado a render vani i miei tentativi ci si mescolavano anche Giulio Cesare con la decima legione, Attila con gli unni, Paolo Diacono e Gisulfo coi longobardi, e Napoleone con Campoformio! Se a costoro riesciva di penetrare, ospiti da me non desiderati nè graditi, nei nostri ragionamenti non c'era più verso di mandarli via. Un giorno, ricordo, in un discorso, provocato da una delle mie solite domande, vi entrarono i patriarchi d'Aquileja, e il disastro fu irreparabile.

Ma una volta, proprio quando meno me lo sarei creduto, il mio caro amico, che avevo tante volte importunato invano, potei finalmente sentirlo parlare come io desideravo.

La cosa andò così. In una delle nostre gite, attirati [319] da un lieto verzicare di alcune collinette lontane, avevamo abbandonata la strada che porta a Cividale, e per raggiungerle ci eravamo messi a camminare nei campi; quando, non so come, ci trovammo in una vallicella in mezzo a un labirinto di piccoli fossi legati fra loro da un intrico di ruscelletti allegri e sonori, i quali indorati dal sole prossimo a tramontare, come se fossero impauriti dalla nostra presenza, luccicavano per qualche istante e correvano a rimpiattarsi nel folto dell'erba densa, grassa e giallognola. Dopo di esserci impantanati più volte, un sentiero molle e appiccicoso coperto di foglie morte ci fece la carità di riportarci sulla via maestra.

Il sole era scomparso. Un po' di luce violacea agonizzava ancora nell'aria e mandava un debole riflesso sulla campagna grigia ove incominciava a sbocciar qualche lume. Faceva freddo e noi dopo di aver pestato più volte coi piedi il terreno solido e asciutto ci avviammo in fretta verso un chiarore lontano che sorgendo dietro a una prominenza bruna si diffondeva dolcemente sul cielo stellato.

— Udine! — disse il Muratti accennando il chiarore. E dopo di aver percorso in silenzio un breve tratto di strada mi chiese: — E tu a Roma dove passi le serate?

Io in quel tempo ero solito di andare quasi ogni sera nella bottega di via Condotti, e però gli risposi: — Al Caffè Greco.

— Al Caffè Greco? — esclamò il mio amico fermandosi di botto.

— Al Caffè Greco. — Replicai io fermandomi a mia volta e sorpreso della sua sorpresa.

— Vicino a piazza di Spagna?

— Precisamente.

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— Ah! — seguitò il Muratti — lo conosco bene. Quando fui a Roma prima del settanta vi andai sovente insieme al Cucchi, al Guerzoni, all'Adamoli e ad altri. — E dopo una breve pausa, abbassando il capo e la voce, soggiunse: — L'ultima volta che ci sono stato fu quando Enrico Cairoli mi ci mandò da Villa Glori.

— Ti ci mandò Enrico Cairoli? — gli chiesi subito io. — E perchè?

— Perchè? — ripetè il mio amico, macchinalmente; e per tutta risposta fece un gesto brusco, agitò nell'aria scura le mani aperte e, scrollando le spalle, riprese a camminare.

Ma questa volta io non lasciai cadere l'occasione di sentirlo discorrere. L'argomento mi interessava troppo; e perciò messo da parte ogni riguardo ed abusando magari della sua pazienza tante glie ne feci e tante glie ne dissi che egli alfine impietosito dalle mie preghiere, o forse anche per liberarsi dalle mie domande insistenti, rallentò un poco il passo; fissò un momento gli occhi nel chiarore che veniva via via crescendo in fondo alla strada, e masticando le parole incominciò a parlare lentamente così: — La ragione per cui, invece di sbarcare alla Passeggiata di Ripetta, noi dovemmo fermarci poco prima di Ponte Milvio la conosci: l'hai scritta così bene in poesia, dunque è inutile di starla a ripetere, perchè la tua poesia...

— Ma lascia stare la mia poesia! Racconta!

— Ecco. Dunque, come sai, dopo di aver passato la notte in un canneto sulla riva sinistra del fiume, non sapendo quale esito avesse avuto l'insurrezione di Roma, che noi volevamo aiutare, nella speranza di vedere arrivare qualcuno con qualche ordine, all'alba, salimmo a Villa Glori. Lassù in alto, in ogni caso, [321] ci saremmo sempre potuti difendere meglio di quanto avremmo potuto farlo giù in basso sulla sponda del Tevere. È chiaro?

— Chiarissimo. E allora?

— Eh, allora le cose non si mettevano bene. La necessità di avere notizie da Roma per noi si faceva sempre più urgente, ma le ore passavano e da Roma non veniva nessuno. Enrico Cairoli, prima di salire a Villa Glori, aveva mandato a Roma uno dei nostri, un romano, un certo Candida; ma non tornò più. Allora Enrico mi chiamò e mi disse: — Senti, Giusto, quassù non possiamo rimanerci troppo a lungo: occorre di pigliare una decisione; ma prima di pigliarla, è necessario di sapere che diamine è successo a Roma. Su Candida oramai non ci si può più contare. Bisogna che vai tu.

A sentirmi dare quest'ordine io feci un gesto di sorpresa; e non potei fare a meno di pronunziare qualche parola di rammarico.

Enrico Cairoli, come sai, era di carattere impulsivo; e, appena vide il mio turbamento, aggrottò le ciglia e guardandomi in faccia esclamò: «Ah! Non vuoi andare?», e, senza darmi il tempo di rispondere, seguitò: «Va bene! Allora vado io». Mi voltò le spalle e si mise a camminare con passo risoluto verso il cancello della Villa. Io gli corsi subito dietro, lo fermai e gli dissi: «No, guarda, Enrico, delle mie parole non tenerne conto; mi sono state suggerite dal dolore che provo nel dovermi allontanare da te, da Giovannino e dai compagni: del resto, se tu credi che a Roma ci debbo andare proprio io, comandami». «Sì, devi andar tu», mi rispose Enrico con voce ferma. E dopo un istante di silenzio continuò: «Dispiace anche a me di doverti chiedere [322] questo sacrificio; ma non si può fare altrimenti. Tu a Roma ci sei già stato; a Roma conosci molti dei nostri amici; sai in quale strada si trova il luogo dove ti debbo mandare; dunque bisogna che vai tu». Io chinai la testa in silenzio, ed Enrico, dopo di essersi guardato intorno, mi si avvicinò, abbassò la voce e mi disse: «Ecco, Giusto, quello che devi fare: appena sarai a Roma vai in via Condotti; entra nel Caffè Greco; siediti a un tavolino e fai i nostri gesti d'intesa. Certamente qualcuno ti verrà vicino, ti saluterà con le parole che sai; ti stenderà la destra e risponderà ai tuoi cenni coi cenni relativi: quando ti sarai assicurato bene di tutto, fagli conoscere la nostra posizione, digli quanti siamo e domandagli come ci dobbiamo regolare: sentilo e cerca di ritornare più presto che puoi. Vai!»

Io, come forse non ignori, ero il furiere dei Settanta; avevo nel mio sacco una cartella comperata a Terni; la presi, ci misi dentro due o tre fogli di carta pulita e mi avviai verso il cancello della Villa.

— Perchè pigliasti la cartella? — gli chiesi.

— Ma, ti dirò, io sapevo quanti studi di pittura e di scultura vi fossero lungo la via Flaminia: dovevo entrare a Roma per la Porta del Popolo: se mai mi avessero fermato mi sarei dato per pittore tedesco — rispose. E seguitò: — Dunque, come ti dicevo, mi avviai verso il cancello. Passando davanti alla casetta del guardiano incontrai un ragazzetto di circa otto o nove anni. Carino! Aveva una faccetta intelligente quanto mai! Appena lo vidi, mi venne subito l'idea di portarlo con me. Se sarò costretto a fingermi pittore, lo farò passare per un mio modellino, pensai; e pensai ancora che forse avrebbe potuto indicarmi qualche scorciatoia. Insomma, me gli avvicinai [323] e gli dissi: — Vuoi venire a Roma? — Il caro ragazzo si mise a ridere e acconsentì prontamente. Io gli diedi la cartella e scendemmo insieme a Porta del Popolo.

La Porta la trovammo barricata. Una sentinella ci fermò. Venne un graduato, ci rivolse qualche domanda, si persuase della verità di quanto gli rispondemmo e ci lasciò passare; ma appena io entrai in Piazza del Popolo alcuni carabinieri mi fermarono di nuovo e mi portarono in una caserma, che era lì presso alla Porta. C'è ancora?

— Si — gli risposi sorridendo — sì, la caserma c'è ancora; ma i carabinieri pontifici non ci sono più. Adesso, grazie a Dio, ci sono i nostri.

Il Muratti sorrise anche lui, e dopo un istante di silenzio riprese: — Nella caserma fui interrogato lungamente da un ufficiale che poi m'ingiunse di seguire uno dei suoi uomini. Costui mi fece entrare in una stanza; chiuse le finestre e mi ordinò di spogliarmi. M'ero appena levata la camicia quando all'improvviso dal di fuori venne un rumore confuso. Tesi le orecchie e nel rumore distinsi uno scalpitare di cavalli. Il carabiniere buttò subito sopra a una sedia la mia giacca che aveva incominciato a esaminare minuziosamente, corse verso la porta e scomparve; ed io rimasi lì, solo, a passeggiare in su e in giù nella camera come il padre Adamo nel paradiso terrestre. Di lì a poco il calpestìo dei cavalli risuonò più forte; diminuì come se si allontanasse e si spense. Udii ancora qualche grido e poi non sentii più nulla. Avvicinai pianino pianino la testa ai vetri di una finestra e vidi un soldato che correva, qualche cavallo e cinque o sei uomini intorno a un ufficiale che parlava facendo gesti energici e concitati. — Deve [324] esser successo qualche cosa di grave —, dissi fra me, e un pensiero orribile incominciò a ficcarmisi nel cervello. Per non lasciarmi andar giù, ripresi a passeggiare per la camera.

Dopo un quarto d'ora, lungo come un quarto di secolo, l'uscio della stanza s'aprì e apparve un altro carabiniere: rimase un momento sorpreso nel vedermi e mi chiese con mala grazia: «Che cosa state a fare qua dentro?». Gli risposi in tedesco: «Aspetto la visita». Capisse o no, alzò le spalle bruscamente, mi guardò con gli occhi torvi e additando la porta grugnì: «Andate via!». Figurati! Mi rivestii in un attimo, uscii dalla caserma, chiamai con un cenno il ragazzo che stava ad aspettarmi, seduto con la cartella sulle ginocchia su la scalinata di una chiesa, e mi diressi verso il Babuino. Naturalmente io cercai di conoscere quale fosse stata la cagione di tutto quel chiasso da me udito poco prima, e seppi che mentre io mi trovavo coi carabinieri una pattuglia di dragoni era arrivata da Ponte Milvio; s'era fermata davanti al quartiere annunciando l'entrata di Garibaldi a Villa Glori, e aveva proseguito al trotto giù per il Corso. I nostri, dunque, erano stati scoperti. Mi si gelò il cuore! Affrettai il passo; attraversai volando la piazza di Spagna ed entrai nel Caffè Greco.

La bottega era quasi deserta. Mi sedetti a un tavolino, chiesi un caffè e feci i nostri gesti. Un giovanotto mi si avvicinò sorridendo e salutandomi come doveva; mi diede la mano; rispose puntualmente a qualche parola che gli dissi e mi invitò con un cenno della testa ad uscire. Appena fummo in istrada egli si fermò davanti alla vetrina di un negozio di oreficeria e indicando gli oggetti esposti [325] bisbigliò: «Dobbiamo andare da Piatti in Via Panico». E senz'altro s'incamminò verso il Corso. Io lo lasciai allontanare di un centinaio di passi e poi gli andai appresso, avendo sempre a lato il mio ragazzetto con la cartella sotto al braccio.

In via Panico non ci si arrivava mai!

Finalmente il giovanotto dopo di essersi fermato un momento davanti a un portoncino di una vecchia casa e di essersi voltato a guardarmi vi entrò. Lo raggiunsi per le scale: salimmo insieme fino all'ultimo piano e trovammo il Piatti. Senza aspettare di essere interrogato, gli dissi subito chi ero, da dove venivo e chi mi mandava. Il Piatti si turbò, strinse le pugna, e con voce sommessa, accostando le sue labbra al mio orecchio, balbettò: «La rivoluzione è fallita. Non c'è più niente da fare. Bisogna tornare immediatamente a Villa Glori e dire ai Cairoli che si ritirino. Non c'è un minuto da perdere!».

Atterrito dalle sue parole gli stesi la mano per licenziarmi; ma lui mi fece cenno di aspettare. Prese un foglietto di carta velina, vi scrisse sopra qualche parola col lapis; piegò e ripiegò più volte il foglietto e lo fece diventare una pallottola della grossezza di un cece, rivestì la pallottola con un involucro di stagnola e me la diede ripetendo ancora: «Bisogna far presto! Non c'è un minuto da perdere. Fra poco i papalini saranno a Villa Glori!». Mi misi in bocca la pallottola; scesi giù per le scale a precipizio, e col mio fedele ragazzetto che avevo lasciato in istrada, corsi a Porta del Popolo. «Non si passa!». Parlando un po' in tedesco e un po' in italiano pregai un ufficiale di permettermi di ritornare nel mio studio di pittura a Papagiulio, dove gli dissi che abitavo; ma non ottenni nulla. Le [326] provai tutte e tutte inutilmente. Figurati! Arrivai perfino a proporgli di farmi accompagnare da un milite!

— Caspita! — interruppi io — Se l'ufficiale avesse acconsentito, ti saresti trovato in un bell'impiccio! Che avresti fatto?

— Ah! — rispose il Muratti, calmo calmo — Se l'ufficiale avesse accettato di farmi accompagnare da un carabiniere, io sarei uscito; ma puoi esser certo che il carabiniere nella città eterna non ci sarebbe più entrato.

Non stentai a crederlo. Qual forza il Muratti avesse nelle mani lo sapevo. Pochi giorni innanzi me ne aveva offerto un piccolo saggio. Passando vicino ad una venditrice di frutta che aveva accanto un canestro ricolmo di mele, egli ne aveva presa una, se l'era messa fra l'indice e il medio della sua destra, e con la sola pressione delle due dita l'aveva spaccata come se fosse stata di burro.

— Dunque non potesti uscire? — ripresi io, affrettandomi a riallacciare il racconto spezzato dalla mia interruzione.

— Non fu possibile. — rispose seccamente il mio amico; e dopo qualche istante di silenzio, spintovi da un'altra mia domanda, seguitò: — Che volevi che facessi? Quando fui persuaso della inutilità di ogni insistenza tornai indietro; feci un lungo giro e andai a Porta Salaria; anche lì non potei far nulla. Provai a Porta Pia: tutti i miei tentativi furono vani. Allora, perduta assolutamente ogni speranza di poter passare, guardando il ragazzetto che m'era venuto sempre appresso e mi stava davanti con la cartella sotto al braccio, mi venne in mente che quello che non riusciva a me avrebbe potuto riuscire [327] a lui. Ci pensai sù qualche minuto, e mi decisi. D'altronde non si rischiava niente. Lo portai in un punto di un vicolo dove non potevamo essere osservati e gli dissi: «Dimmi un po', tu saresti buono di ritornare a Villa Glori, solo?». «Sicuro!», rispose prontamente il ragazzo. «Bravo!» esclamai io subito; e mostrandogli la pallottola che racchiudeva il biglietto del Piatti, continuai: «Vedi questo 'confetto'? Se tu riesci a portarlo a quei signori che stanno a Villa Glori, quei signori ti faranno un gran regalo. Vuoi andare?». «Sicuro!», tornò a rispondere il ragazzo, tendendo il braccio verso il 'confetto'. «No, guarda», gli dissi io, allora «questo 'confetto' non lo devi portare in mano e nemmeno in saccoccia, perchè potresti perderlo: l'hai da tenere come l'ho tenuto io fino ad ora: apri la bocca!». Il caro figlietto, ridendo, mi guardò con gli occhietti intelligenti e aprì la boccuccia. Io, raccomandandogli di stare bene attento a non inghiottirlo, gli ci misi dentro il 'confetto'; poi lo accarezzai, gli diedi un bacetto, gli raccomandai ancora di non inghiottire il 'confetto', e lo lasciai partire.

Dopo di aver fatto una cinquantina di passi egli si voltò sorridendo e mi disse addio con la manina. Gli risposi. Mi si inumidirono gli occhi e non lo vidi più.

— E gliela fece a passare?

— Gliela fece! — esclamò il Muratti, battendo una su l'altra le palme delle mani: poi, aprendo le braccia, soggiunse: — Come e dove riuscisse a passare non lo so e non lo saprò mai; ma passò: tornò a Villa Glori e diede il 'confetto' a Enrico. Ma ormai Enrico aveva già risoluto di non indietreggiare.

Quello che avvenne poco dopo lo sai.

[328]

Appena egli ebbe finito di parlare rimase un istante con gli occhi fissi nel chiarore della città vicina, divenuto ormai più vivido sotto il cielo stellato; poi abbassò la testa sul petto, diede un calcio a una pietra, mandandola a ruzzolare sulla proda della via, e allungò il passo quasi che si volesse allontanare in fretta dalle ultime parole con le quali aveva chiuso il racconto!

Percorremmo, senza dire più nulla, un brutto borgo oscuro, fermandoci di quando in quando per lasciar passare qualche carretto; traversammo un lungo portico scarsamente illuminato da pochi fanali, e rientrammo in Udine.

Trascorso appena un anno dalla sera memorabile in cui egli, cedendo alle mie reiterate preghiere, mi aveva narrato il commovente episodio dell'animosa sua giovinezza, il Muratti venne a Roma: vi rimase parecchi giorni, ed io ebbi la gioia di poter salire con lui a Villa Glori.

Nella luce sfolgorante del dolce pomeriggio primaverile il cielo sereno inchinandosi sui monti rosei della Sabina e del Lazio pigliava nel toccarli la trasparenza e il colore dell'ambra. Al di là delle siepi, sulle quali accanto a qualche bacca lucida e rossa fioriva già il biancospino, le biade alte e verdi ondeggiavano lentamente; e gli ulivi, movendo le foglie brillavano sul fondo luminoso della campagna come se fossero stati d'argento. Ovunque, sotto alle ficaje, fra gli olmi e i gelsi, tra i ciliegi e i peri, fra i mandorli e i peschi, insieme al continuo ronzìo delle pecchie, delle vespe, dei calabroni e delle cantaridi rilucenti di fiore in fiore, nel sole, risuonava un fischiettare giulivo di capinere, di cardellini, di fringuelli [329] e un cinguettìo prolungato e vivace di cingallegre e di passeri. Di tempo in tempo una lucertoletta ci guizzava fra i piedi; si fermava a guardarci con la testina alzata, e spariva in una fenditura del terreno cosparso di margheritine e di anemoni, o fra le pietre e i tufi d'una vecchia macèra; e qualche calandra balzando fuori all'improvviso da una zolla rossastra s'alzava rapida a volo, cantando: saliva in alto, più in alto ancora, e sempre cantando si perdeva nello spazio.

Superata una breve viottola erta e sassosa arrivammo alfine davanti all'‘albero dei Cairoli’, fra i cui rami fioriti, mossi lievemente da un'auretta soave, e risplendenti nell'azzurro, scorgevasi lo scheletro di una corona votiva dalla quale pendeva, tremolando, un nastro mortuario consunto dal tempo.

Il Muratti, passandosi di tratto in tratto le mani sugli occhi, rimase per qualche tempo in silenzio col capo chinato sul petto, dinanzi al mandorlo sacro; poi sempre in silenzio si avviò a passo lento verso la villa. Quando vi giunse si avvicinò alle vecchie mura; e dopo di averle osservate con molta attenzione, alzando la destra, m'indicò alcuni buchi che apparivano chiaramente nell'intonaco.

— I papalini? — gli domandai.

Egli abbassò più volte il capo; e avvicinatosi a un cespo di rose bengaline, ne colse una appena sbocciata; guardò un momento il suo colore sanguigno e me la diede; poi, come se si destasse da un sogno, mi chiese: — Dov'è il Tevere?

— Qui sotto — gli risposi accennandogli un piccolo bosco verzicante, dove qua e là sui rami ignudi delle querce accanto alle gemme pronte ad aprirsi c'era ancora qualche foglia ingiallita.

[330]

— Andiamoci! — ripigliò subito il mio amico. — Vorrei rivedere il luogo dove siamo sbarcati.

Dopo di aver rotto coi bastoni un impaccio inestricabile di pruni rigidi e feroci che s'attaccavano ai panni, e di esserci liberati da una sterpaglia di ramoscelli sfrondati stretti insieme tenacemente dall'edera, penetrammo in un boschetto di querciole, di acacie, d'elci, di allori e d'ailanti, e affondando i piedi in un viluppo d'erbacce umide che ad ogni passo ci mandava sul viso ora una tanfata di fracidume e di muffa, ora un delicato e delizioso profumo di violette, lo traversammo e scendemmo in un canneto sulla riva melmosa del fiume.

Il Muratti esitò alquanto prima di riconoscere il punto preciso dove egli era sbarcato coi Settanta; ma alfine, dopo di aver girato più volte gli occhi intorno attentamente e lentamente, aguzzando le ciglia, additandomi un vetrice gobbo e rugoso che si specchiava nell'acqua immota di una piccola insenatura della sponda, esclamò con voce risonante: — Là, là sbarcammo! Proprio là! — e lasciandosi dietro sulla creta le impronte dei passi frettolosi si avvicinò al vecchio albero e ne accarezzò con la mano aperta e leggera il tronco deforme, e, mentre un ramoscello da lui appena toccato si rialzava oscillando, rimase a guardare all'oriente verso Mentana.

Una rondine strisciò col petto bianco sull'acqua gialla, si posò per un attimo sulla riva assolata e s'allontanò stridendo.

Lungo la via del ritorno egli mi rivolse appena qualche breve parola; ma quando rientrammo in piazza del Popolo, dopo essersi fermato davanti alla caserma dei carabinieri e di averla guardata a parte a parte, prima di ritornare a muoversi mi [331] disse: — Vedi, se tu mi porti in via Panico, io son sicuro di ritrovare quella casa dove andai con quel giovanotto che conobbi al Caffè Greco. — E, toccandosi la fronte, aggiunse: — Ho la certezza di ritrovarla perchè la sua immagine ce l'ho stampata qui dentro.

Il sole illuminava ancora la più alta balaustrata del Pincio, l'obelisco e le cupole. Andammo in via Panico e colà, verso Monte Giordano, egli riconobbe facilmente la casa del Piatti.

— E dimmi un po' — gli chiesi poi sorridendo — al Caffè Greco non ci vuoi ritornare?

— Sì! — mi rispose subito — Sì, andiamoci, e così avrò rivisto tutto. Però — soggiunse, mentre imboccavamo l'antica e pittoresca via dei Coronari, — però non lo riconoscerò più.

— Non dubitare; chè lo riconoscerai perfettamente. — gli risposi. Difatti, appena egli vi entrò, non seppe nascondermi il suo stupore e, prima di mettersi a sedere, aprendo le braccia in atto di maraviglia, esclamò: — Hai ragione, è proprio tale e quale. Non v'è nulla di cambiato. Nulla. D'altronde io credevo che dopo tanti anni...

— Ah! — lo interruppi io ridendo — gli anni per il Caffè Greco non contano; forse i secoli.

Nella bottega, tutta immersa in una penombra deliziosa non v'era nessuno, e noi vi rimanemmo fino a quando accesero i lumi. Allora ci alzammo, e dopo di esserci fermati qualche momento nella prima stanza per ammirare ancora una volta le pitture di Ippolito Caffi, morto gloriosamente a Lissa, sulla Palestro al fianco di Alfredo Cappellini, uscimmo.

[332]

* * *

Forse la prima descrizione che sia stata fatta del Caffè Greco è quella che Giacomo Casanova ci ha lasciato di quel 'Caffè di strada Condotta' ove egli, chiamatovi dall'abate Gama, entrò nell'ottobre del 1743, trovandovi quella eletta radunanza di maldicenti, di ruffiani, di castrati e di abati che ci descrive con tanta vivezza: dico forse, perchè l'avventurier farabutto, allora al servizio del cardinale Acquaviva, il nome del 'Caffè di strada Condotta' non lo dice. Chi lo dice in tutte lettere è Pierre Prudhon, il quale essendovisi recato qualche volta insieme col suo amico Bertrand ne disegna la fisonomia artistica con queste precise parole: — Là tous les maitres sont passés en revue et ne sont point épargnés. On critique celui-ci, on dechire celui-là. Tous ceux qui ne peuvent entrer en comparaison avec Raphäel sont proscrits. Raphäel lui-mème est blàmé de ne s'ètre pas assez servi de l'antique. Le mieux de tout cela, c'est que tous ces messieurs les beaux parleurs n'étudient ni l'antique ni Raphäel et s'amusent chez eux à ne rien faire qui vaille.

Qualche mese dopo che il dolce e malinconico pittore borgognone scriveva al suo amico Fauconnier queste parole, Wolfango Goethe era in Roma. Vi andò forse egli mai, il gran pagano, nella bottega fondata dal greco? Non saprei dirlo: ma se, come è certo, il Tischbein ed il Moritz, suoi intimi amici, la frequentarono, è probabile che qualche volta vi sia andato anche lui; tanto più che non soltanto da una lettera del Moritz, ma da alcuni scritti dello [333] scultore Schaeffer e da qualche pagina del romanziere Gian Giacomo Guglielmo Heinse impariamo come fin dal 1780 il Caffè Greco fosse già, per i tedeschi residenti o di passaggio in Roma, un luogo di ritrovo. Difatti più tardi vi si radunarono i «nazareni»: quegli artisti i quali, venuti qui dalle varie provincie della Germania e aggruppatisi intorno a Federigo Overbeck, essendo rimasti profondamente impressionati dalla suntuosità delle chiese romane, dalla magnificenza delle funzioni papali, dai Miserere della cappella Sistina e dalla bontà del vino de li Castelli, si fecero cattolici, iniziando in sul principio del secolo nostro quel periodo di conversioni che per lunghi anni nella colonia tedesca di Roma fu una specie di contagio.

Per loro l'arte era una preghiera, e i quadri e le statue non avevano altra ragione di essere se non quella di recare lustro e decoro alla religione: si erano radunati nel piccolo convento di S. Isidoro, abbandonato allora allora dai francescani irlandesi, e ci vivevano tutt'insieme. Al primo apparire del giorno, chiamati da una campana, si riunivano tutti in una cappella, e dopo aver cantato in coro il Veni creator spiritus, se ne tornavano nelle celle a lavorare. Niente ignudi, s'intende; niente donne, niente anatomia e sopratutto niente mitologia. Degli Dei pagani non se ne doveva parlare nemmeno per burla. Agli abitatori ed alle abitatrici dell'Olimpo, gente immorale quant'altra mai, non si aveva da chieder nulla: per qualunque cosa occorresse, San Luca bastava e avanzava.

Cotesti «nazareni» (così li chiamò per derisione la mala lingua dello scultore Wagner), allorchè l'ombra della sera scendeva sul cenobio, avevano l'abitudine [334] di scendere a loro volta al Caffè Greco e di trattenervisi per qualche ora. Lo Schopenhauer, quando venne a Roma, ve li trovò ancora quasi tutti, e non è difficile immaginare come e quanto li punzecchiasse col suo sarcasmo, esortandoli a dipingere ed a scolpire gli Dei di Omero: li punse tanto che alfine i poveretti, non ne potendo più, gli fecero dire che avrebbe fatto bene ad andarsene con la sua filosofia e a non più ritornare a intorbidare con le sue bestemmie i loro caffè e latte e le loro coscienze.

Una sera il filosofo di Danzica, seguìto come al solito dal suo cane barbone bianco, a cui aveva dato il modesto nome di Alma, che voleva dire 'anima del mondo', entrò nel Caffè; e arrivato nella stanza ove erano i «nazareni», dopo di averli salutati, disse loro: — Vedete: la nazione tedesca è la più stupida delle nazioni della terra; tuttavia in un punto è superiore a tutte le altre: cioè nel poter fare a meno della religione, e voi... — Uno scoppio formidabile di urli e di contumelie coprì le parole del filosofo; e tutti, levatisi di scatto dai loro posti, alzando i bastoni e le ombrelle, lo spinsero verso la porta della bottega; ed egli sempre seguìto dal suo cane barbone, ovverosia dall'anima del mondo, se ne andò mormorando: — La patria tedesca in me non s'è allevato un patriota! — Se ne andò, e nel Caffè Greco non mise più il piede.

Ma neppur loro, i «nazareni», durarono ancora molto a radunarvisi, poichè il Cornelius fu chiamato a Monaco per dirigervi l'Accademia di belle arti, e colà, chiusa la Bibbia dalla quale da buon «nazareno» ei traeva i soggetti dei suoi quadri, prese a dipingere gli episodi più celebri delle leggende germaniche; Schadow, eletto direttore della Scuola d'arte a Düsseldorf, [335] prese la via dell'insegnamento; il Woghel, lasciati i temi chiesastici, si mise ad illustrare il Dante; Weit andò a Francoforte: e così lo Schnoor, il Pför, i due Müller, Colombo e gli altri lasciarono via via la bella Roma, ove Dio pensa a tutto, e se ne tornarono ai loro paesi. Soltanto l'Overbeck non si mosse: e qualche anno dopo scriveva al Weit: «Io mi aggiro solitario fra le rovine di Roma e mi pare che io stesso sia diventato una rovina».

Presso a poco nello stesso tempo in cui il Caffè Greco veniva abbandonato dai «nazareni», esso ebbe l'onore di accogliere lo Stendhal, il quale vi capitò spintovi da una circostanza che vale la pena di essere riferita.

L'autore della Chartreuse de Parme era andato a vedere la Cascata delle Marmore; e, dopo averla ammirata dal basso e dall'alto, se ne scendeva a Papigno, quando s'imbattè in una contadina che gli andò incontro salutandolo come una vecchia conoscenza. Sorpreso dalle parole e dagli atti della donna egli rivolge qualche domanda a un giovinetto che lo accompagnava, e questi gli risponde, guardandolo furbescamente: — Eh, ho capito; voi, signor Stefano, non volete essere riconosciuto. — Mentre alcune altre donne gli vanno incontro manifestandogli il piacere che provano nel rivederlo, egli torna ad interrogare il giovinetto, e dalle sue risposte arriva finalmente a sapere che tutti lo pigliavano per il signor Stefano Forby, un pittore francese il quale pochi mesi innanzi aveva dimorato in Papigno per dipingere i diversi punti di vista della Cascata famosa. Rallegrato dalla comicità dello scambio, lo Stendhal lasciò correre; ma quando arrivato alle prime case del paese si trovò in mezzo a una folla giubilante di uomini, di donne [336] e di bambini, cercò di mettere le cose a posto. Tutto fu inutile. Più lui si sgolava a dimostrare di non essere il Forby, e più tutti gli dicevano ridendo: — Ah, signor Stefano, ma voi volete scherzare! — Insomma, giacchè non c'era altro da fare, l'autore della Chartreuse accettò di buon grado le role del pittore; rispose come meglio potè alle dimostrazioni di affetto di quanti gli si stringevano addosso; li portò tutti da un 'salamiere'; offrì a tutti da mangiare e da bere; rimase con loro allegramente fino al cadere del giorno e se ne scese a Terni seguìto dalle loro benedizioni.

Ritornato a Roma lo Stendhal seppe che il Forby frequentava il Caffè Greco: vi andò subito e, ohimè!, fu choqué di trovare nel pittore a cui egli somigliava tanto un uomo sans doute fort bien au moral mais si peu beau!... — La qual cosa fa chiudere all'illustre psicologo il racconto della sua comica avventura con questa malinconica osservazione: — Il est singulier combien l'homme le moins fat pervient encore à se faire illusion sur sa taille et sa figure!

Fra l'autunno del 1830 e l'inverno del 1831 la bottega di via Condotti, arrivata all'apogeo della sua fama, ebbe, fra gli altri molti, due illustri visitatori; forse sarebbe meglio dire due illustri denigratori: il Berlioz e Felice Mendelssohn-Bartholdi. Difatti il Mendelssohn, in una lettera al suo babbo, del povero Caffè Greco ne parla così: «L'una stanza piccola e buia, larga circa otto passi, e da un lato di quello stambugio si può fumar tabacco, dall'altro no. Tutti siedono all'intorno sui banchi con in testa larghi cappelli e con tutto il viso e il collo coperto dai capelli; fanno un fumo orribile e denso e si dicono reciprocamente delle volgarità: hanno accanto grossi [337] cani da macellaio, i quali sono incaricati della diffusione degl'insetti. Ciò che sul loro volto è libero dalla barba è coperto dagli occhiali; un fazzoletto da collo e un frack sarebbero novità; ingoiano caffè e parlano di Tiziano e di Pordenone come se questi sedessero accanto a loro». Non c'è male! Ma anche il Berlioz, che vi andò subito appena arrivò a Roma, la sera stessa del suo ingresso all'Accademia di Francia, non scherza: ecco con quali graziose parole egli ne tesse l'elogio: — Le fameux Café Greco c'est bien la plus detestable taverne qu'on puisse trouver: sale, obscure et humide, rien ne peut justifier la préférence que lui accordent les artistes de toutes le nations fixés a Rome.

Povero Caffè Greco! Nondimeno se tutti ne dicono male, tutti ci vanno, e lo stesso Berlioz deve confessare che la plus detestable taverne qu'on puisse trouver quando egli vi andò era talmente frequentata dagli artisti stranieri che la maggior parte di essi vi si faceva indirizzare la corrispondenza, e deve dire che gli artisti, arrivando a Roma, se volevano trovare i loro compatrioti dovevano cercarli al Caffè Greco. Difatti non mai come allora la bottega di via Condotti fu onorata da un così gran numero di avventori illustri; non mai come allora, quando i due celebri alunni di Euterpe ne parlavano con tanto dispregio.

Per ricordare soltanto gli stranieri che la frequentarono in quei giorni, o poco più tardi, basta nominare fra gli altri e su gli altri lo scultore danese Alberto Thorwaldsen, Mickiewicz, Orazio Vernet, Ampère, che visitando i nostri monumenti e osservando i nostri costumi raccoglieva già gli elementi per la sua Histoire Romaine a Rome, Thomas il futuro autore dell'«Amleto» e della «Mignon», Barbier il poeta della Curée, dell'Idole e del Pianto, [338] Delaroche, Corot, Dupré, il mistico Orsel, lo Schnetz, che doveva poi essere eletto per due volte direttore dell'Accademia di Francia, e Leopold Robert il pittore dei Moissonneurs e di quegli altri molti quadri raffiguranti i vari episodi della vita dei briganti; i quali quadri e i quali briganti diedero a lui la gloria e a noi quella tal rinomanza da cui non ci siamo ancora liberati. Ma però la verità bisogna dirla tutta: s'egli è certo che cotesta non davvero invidiabile rinomanza il Robert fu il primo a procurarcela non è nemmeno dubbio che gli artisti nostri fecero quanto poterono perchè ci venisse conservata!

Il Raggi in un opuscolo da lui stampato nel 1836 intorno alla vita e alle opere di Bartolomeo Pinelli, dopo di aver ammonito gli artisti di astenersi dal dipingere e dallo scolpire «gli orridi fatti di quei malandrini che in sulle vie assalivano lo infelice viaggiatore che spesse fiate per le scellerate mani di quegli empi rinveniva la morte» e dopo di averci detto che il Pinelli «tali spettacoli orrendi, che sono un'onta per l'umanità, li ritraeva sì al vero che glie ne venivano commessi moltissimi», ci fa sapere come il conte Gourieffe, oltre a cinque quadri, allogasse all'artista trasteverino anche ventiquattro incisioni (i cui rami poi vennero portati in Russia) nelle quali dovevano essere rappresentate «le principali azioni di una mano di perfida gente che infestava le vicinanze di Frascati».

Del resto quando si pensa con quale insaziabile brama gli «orrendi spettacoli» dei quali parla il Raggi, effigiati sulle tele o scolpiti nel marmo, venissero allora ricercati, ammirati e, quel che più importa, comperati da tanti e tanti amatori, fra i quali erano in prima linea il re del Belgio, il re di Prussia, il [339] re d'Olanda, i Bonaparte, i Demidoff, i Souwaroff, i Rothschild, i Fitz-James, i Basilewski, i Metternich e gli Schoenbrunn, non può davvero recar maraviglia se gli artisti nostri invece di fermarsi ad ascoltare il Raggi si mettessero a camminare per la strada brigantesca aperta dal Robert. Che se poi si volesse dimostrare fino a qual punto essi desiderassero di percorrerla cotesta via, basterebbe solamente ricordare come il Robert per soddisfare le richieste insistenti di coloro che volevano acquistare uno dei suoi quadri intitolato: Femme de brigand veillant sur le sommeil de son mari, fosse costretto a doverne dipingere in poco tempo quattordici repliche! E basterebbe dire che molti, quando perdettero la speranza di avere il quadro, pur di ottenere dal pittore qualche cosa dipinta da lui, lo supplicarono ad accontentarli dicendogli: — Mon cher monsieur Robert, un petit brigand, S. V. P.!

Ma la causa che spinse il Robert ad illustrare col suo pennello la vita dei malandrini fu abbastanza curiosa. Egli non era certamente venuto a Roma dal Canton di Neufchatel per questo! Tanto è vero che quando arrivò qui, benchè il brigantaggio infierisse da per tutto nello Stato Pontificio, agli avvenimenti briganteschi ei non chiese alcun soggetto per i suoi quadri, e mentre le bande del famigerato Gasperone assalivano le strade fin presso alle porte dell'Urbe, e le numerose squadre dei carabinieri facevano inutilmente del loro meglio e del loro peggio per disperderle, riproduceva nelle sue tele interni di chiese e di sacrestie, scorci di vie e di cortili e prospettive di chiostri: e, forse, da cotesto genere di pittura non si sarebbe allontanato se la polizia, fra le tante cose che in quei giorni pensava [340] e metteva in opera per distruggere i banditi, non ne avesse pensata una la quale non distrusse niente e diede al modesto pittore di interni non solo il modo di diventare un grande artista, ma anche i mezzi per poter divulgare con la sua arte le gesta dei masnadieri e renderle popolari in tutto il mondo.

La bella pensata della polizia fu questa: arrestare l'intero paese di Sonnino, ove essa riteneva che si formassero le bande dei malviventi, e portarlo a Roma! Difatti un bel giorno (Veramente per i sonninesi il giorno dovette esser brutto!), una formidabile armata di carabinieri salì dalle paludi Pontine verso il paese, lo circondò, incatenò quasi tutti i suoi abitanti e li portò trionfalmente a Roma, dove uomini, donne e bambini, vennero chiusi parte in Castel S. Angelo e parte in un vasto edificio a Termini, accanto alle Terme di Diocleziano.

Il Robert andò a vederli e rimase profondamente colpito dall'energia e dalla purezza delle loro fisonomie, dalla linea statuaria delle loro persone, dalla eleganza e fierezza dei loro gesti, e specialmente dalla originalità dei colori e delle forme dei costumi che indossavano. Tornò ancora a visitarli e ammaliato dalla bellezza superba di due donne, una certa Teresina e una tal Maria-Grazia, le quali poi rimasero in Roma e divennero due modelle famose fece chiedere a Monsignor Governatore, il Bernetti, un permesso per poterle andare a disegnare: l'ottenne e dopo qualche mese di lavoro assiduo espose nel suo studio, con i ritratti delle due belle sonninesi, alcuni quadri di soggetto brigantesco, i quali sì per la novità del genere come per la maestria con cui eran composti, disegnati e dipinti ebbero un successo straordinario, e furono l'origine di quella [341] enorme quantità di pitture, sculture, disegni, incisioni e litografie di scene e rappresentazioni della vita dei banditi, che spargendosi per il mondo ci procurò, come dissi dianzi, quella fama, non del tutto immeritata, del resto, in grazia della quale chiunque veniva fra noi vedeva briganti da per tutto. Perfino nel Caffè Greco! Par credibile? Eppure è così.

In un volumetto pubblicato a Parigi nel 1869, un certo Auguste Villemot incomincia un suo scritto, intitolato Brigands et Voleurs, precisamente con queste parole: — En 1847 j'étais à Rome. J'y frequentais le Café Grec, établissement très pittoresque... e lo prosegue dicendoci come proprio in cotesto établissement egli avesse il piacere di conoscere un signore sulla sessantina, con occhiali e parrucca, il quale, niente di meno, era il famoso capobrigante Carmagnola, che, ritiratosi dalla professione con quarantamila scudi, viveva in uno dei migliori alberghi di Roma e recavasi tutte le sere nella bottega di via Condotti per leggervi le gazzette e per giuocare qualche partita a dòmino, conversando piacevolmente con gli amici.

Lo scritto del Villemot non ha di certo una grande importanza nella storia della letteratura francese, ma ne ha, mi pare, una grandissima in quella del nostro Caffè, poichè ci dimostra come questo, sol che lo volesse, potrebbe onorarsi di avere ospitato nelle sue stanze, fra le tante persone celebri, anche un capobrigante. Potrebbe; ma, siatene certi, non lo farà. La bottega illustre, che pur avendo la fortuna di poter annoverare nella lunga serie dei suoi avventori un re, non se ne è mai vantata; figuriamoci un po' se vorrà farsi avanti per gloriarsi di avere accolto fra le sue oneste pareti il famoso Carmagnola!

[342]

Lasciamo stare dunque il brigante e parliamo del re.

Luigi primo di Baviera nei lunghi soggiorni che fece in Roma, per passarvi ogni anno lietamente i mesi dell'inverno, dall'alto della sua Villa Malta, in cui abitava, scese spesso nel Caffè Greco per cercarvi i suoi amici tedeschi, dai quali era adorato, e per portarli in qualche osteria romanesca. Le osterie dove, senza far torto alle altre, egli soleva più di frequente condurre gli artisti, eran due: una in riva al Tevere presso Ripagrande, sempre fornita di eccellente marsala, e un'altra all'insegna della Campanella, in piazza Montanara, ove il Goethe incontrò la bella Faustina da lui poi immortalata nelle Elegie Romane. Con quale gioia gli artisti accogliessero gli inviti del buon Luigi e con quanta prontezza abbandonassero per seguirlo il loro ritrovo abituale, non occorre dirlo; ma non occorre dire nemmeno che vi ritornavano presto.

Der Kaffée in dem Kaffé Grec

Den Katzenjammer jaget weg.

Questi due versi che ci fan sapere come il caffè del Caffè Greco fosse allora ritenuto dagli artisti tedeschi un rimedio eccellente per far svanire i fumi delle sbornie, possono servire, io credo, anche a farci intendere come, in ogni caso, la loro lontananza dalla via Condotti non dovesse certamente prolungarsi al di là dello stretto necessario! Vi tornavano dunque; ma appena Luigi veniva a rivolger loro nuovi inviti, se ne allontanavano ancora per seguire il buon re nelle sue osterie predilette, ove egli amava di mangiare e di bere allegramente ammirando, se se ne presentava l'occasione, le belle popolane di Trastevere, cantando le dolci canzoni della patria [343] lontana, e recitando fra un bicchiere e l'altro qualche epigramma composto nella giornata. Uno appunto di cotesti epigrammi del re Luigi ha per argomento la bottega di via Condotti; e lo Schiaparelli lo ha tradotto così:

D'alemanni ritrovo meglio tedesco chiamarte,

Ma noi stringe coi greci l'affinità dell'arte.

E fra gli artisti italiani quali furono quelli che più o meno assiduamente visitarono il Caffè? Tutti. O, almeno, quasi tutti; poichè si può dire, senza esagerare, che fino al 1870 il Circolo artistico internazionale di Roma fu il Caffè Greco.

Negli anni oramai lontani, quando incominciai a frequentare la bottega di via Condotti, al vecchio Frezza, che precedette nell'esercizio del locale l'attuale proprietario, io solevo chiedere spesso notizie sulla preistoria del negozio allora suo, e ricordo che dopo di avermele date egli mi diceva sempre di averle apprese sfogliando un grosso libro posseduto da un certo Raffaele, un vecchio cameriere da lui trovato nella bottega e conservato per qualche tempo al suo servizio. Il libro, a quanto affermava il Frezza, era «un museo», e conteneva firme, indirizzi, poesie, pezzi di musica, disegni, caricature e motti di coloro che avevano frequentato o visitato il Caffè.

Dove sarà andato a finire il cimelio prezioso? E chi lo sa!

Un giorno che il Frezza mi parlava lungamente del libro, dicendomi, fra l'altro, di averci vista una pagina scritta da un famoso romanziere russo, il quale abitava in via Sistina ed era assiduo frequentatore della bottega (doveva essere certamente il Gogol), io gli chiesi se ricordasse di averci visto [344] anche qualche cosa del Pinelli e del Leopardi; ma non mi seppe rispondere.

Il Leopardi durante la sua permanenza in Roma, ove corse il pericolo di vestirsi da prelato e di andare con l'abito paonazzo a governare una provincia, dimorò precisamente nella casa vicina a quella dove abitava, ed abita ancora, il Caffè Greco; dunque può darsi che il poeta della Ginestra, se non altro per rapporto di buon vicinato, almeno una visita alla bottega famosa gliel'abbia fatta; ma il Pinelli io credo che non vi sia mai andato. L'amaro e reo caffè al sor Meo piaceva poco. Al caffè di Portorico e di Moka egli preferiva il caffè de li Castelli, e specialmente quello che matura e s'indora nell'autunno sui dolci colli tuscolani. Per ciò tutto, non si rischia di correr troppo pensando che se pure il bizzarro artista romanesco vi è entrato qualche volta, nelle stanze del Greco, vi sia entrato per sbaglio.

Al Frezza un'altra volta io ricordo di aver dimandato se fra i disegni conservati nel libro, di cui s'è discorso, rammentasse di averne visto qualcuno di Massimo d'Azeglio, ed ei mi rispose affermativamente e mi parlò di un «guerriero a cavallo». Del resto il buon uomo, quando io lo invitavo a darmi qualche notizia sugli artisti che avevano frequentata la bottega prima che questa fosse divenuta sua, dopo di avermene discorso brevemente a voce bassa e solenne, come se si trattasse dei suoi antenati, forse temendo di non ricordar bene, taceva; ma se invece io gli chiedevo quali persone illustri egli potesse dire di aver visto coi suoi occhi entrare e trattenersi nel suo Caffè, allora il caro vecchio si animava tutto, sorrideva, si accarezzava con la piccola mano aperta la bella barbetta argentea, alzava un pochetto la [345] voce e vinto da una commozione profonda in cui si sentiva un po' d'orgoglio mi nominava Wagner, Liszt, Gounod e Bizet, Gregorovius, Gibson e la sua allieva Enrichetta Hossmer, che, fuggita a sedici anni dalla famiglia, venne qui, sola, dall'America per studiare scultura; Barrias, Wurzinger, Harpignies, Hamon, Rosales e Mariano Fortuny, il Riedel, Regnault, Hébert, Celentano, Morelli, il Catel, il Mayer, che morì di un colpo apopletico proprio nella bottega, il Pollak, Carlo Coleman e Federigo Faruffini; poi, dopo di avermi indicato il posto ove alcuni di costoro erano soliti di mettersi a sedere, finiva quasi sempre col mostrarmi una vecchia fotografia di un quadro dipinto nel 1845 dal Passini: un quadro in cui è effigiata la prima stanza del Caffè, ove allora era il banco, che adesso invece sta nell'ultima, e mostrandomela mi faceva osservare fra le figure quella del cameriere che è appunto il ritratto di quel tal Raffaele, il proprietario del libro ove era, si può dire, la storia del Caffè Greco.

Ma dove sarà andato a finire il cimelio prezioso? E chi lo sa?!

* * *

Da quanto può vedersi nel quadro del Passini, parrebbe che quando ei lo dipinse nella bottega di Via Condotti di cameriere ve ne fosse uno solo; ora invece ve ne son due, i quali rispondono, ma non con troppa premura, ai nomi di Nunzio e Salvatore.

Nunzio e Salvatore pur essendo abbastanza vecchi vengono comunemente chiamati «i due giovani», e tanto l'uno quanto l'altro dal continuo contatto con [346] gli artisti hanno appreso un certo disprezzo per le forme esteriori, massime per ciò che riguarda il rispetto verso gli avventori, e un'aria di indipendenza indomabile che molto li onora. Ambedue servono, è vero; però quando vanno attorno per le stanze sorreggendo i vassoi scintillanti sui quali tintinnano e fumigano urtandosi insieme i bricchi, le tazze e i bicchieri, il loro passo, come direbbe la buon'anima di Francesco Domenico Guerrazzi, è quello di servi liberi in Caffè libero. Del resto tutti e due dalla lunga permanenza nella bottega e dal diuturno esercizio delle loro funzioni hanno imparata una certa tal qual filosofia, non senza una discreta dose di pessimismo bonario, che li porta a pigliare il mondo come viene e l'avventore come Dio lo manda. E questo di solito per i gusti e per le abitudini differisce assai dal maggior numero dei suoi simili i quali popolano ordinariamente tutti i Caffè dell'orbe terracqueo. Una delle sue caratteristiche, se non la prima, è quella di preferire l'acqua a tutte le bevande multicolori più o meno dolci ed amare. Difatti il numero dei bicchieri d'acqua che giornalmente e seralmente si consuma nelle pittoresche sale del Greco è inaudito. Chi di cotesti bicchieri volesse farne in capo all'anno un computo, anche approssimativo, dovrebbe, io credo, prima di mettersi al lavoro, inventare molti numeri nuovi! Ma a proposito di acqua mi torna a mente una graziosa storiella.

Un giovanotto, assiduo frequentatore del Caffè, oltre all'aver molto ingegno, aveva, cosa molto naturale, un picciol debito col padrone del negozio e, cosa più naturale ancora, cotesto debito non lo pagava mai. Rebus sic stantibus il suo nome, che più tardi doveva esser scritto a lettere d'oro nel libro [347] glorioso dell'arte, per allora rimaneva, purtroppo, vergato col nero inchiostro in un vile scartafaccio ove erano annotati i nomi di coloro che dovevano denaro alla bottega.

Il giovanotto, ogni giorno, giuocava or con questo or con quello qualche partita a scacchi e, abilissimo com'era, vinceva quasi sempre la posta: il prezzo di una tazza di caffè. Una volta i suoi amici furono sorpresi di sentirgli chiedere al cameriere, invece dell'abituale «tazza nera», un bicchierino di un liquore bianco ferocissimo, fabbricato, Dio ce ne scampi e liberi tutti!, coi nòccioli delle ciliegie.

— Non pigli il caffè? — gli chiesero.

— No — rispose il giovanotto, vuotando in fretta il bicchierino — no. Il caffè m'urta troppo i nervi.

La risposta era persuasiva: gli amici non gli domandarono più nulla e lui seguitò ad annaffiare le sue vittorie con l'infernale mistura: non gli domandarono più nulla; ma ogni volta che veniva pronunciato il suo nome, non sapevano trattenersi dall'esclamare: — Che peccato! Buono, bravo, giovane... Rovinarsi così! — E se qualcuno chiedeva qual cosa facesse egli mai per rovinarsi così, gli rispondevano con voce accorata: — S'è dato ai liquori. — E soggiungevano: — Li beve come noi beviamo l'acqua.

Proprio vero!, poichè la bottiglia del famoso liquore bianco, fabbricato coi nòccioli delle ciliegie, conteneva soltanto acqua pura.

In conclusione egli beveva bicchierini di acqua; gli altri li pagavano come se fossero pieni di liquore, e il cameriere, che sapeva tutto, portava il danaro al suo padrone. E fu così che il bravo giovanotto si fece, è vero, la fama di un indurito ubriacone, ma pagò il suo debito fino all'ultimo centesimo.

[348]

Ma oltre al grande amore ch'ei nutre per l'acqua l'avventore del Caffè Greco si differenzia non di rado dai frequentatori degli altri Caffè per il conto in cui tiene la negra infusione arabica; poichè, mentre ovunque cotesta infusione si suol berla per digerire il desinare che s'è mangiato, nella bottega di via Condotti invece la si beve sovente per digerire il pranzo che non si mangerà. Gli artisti, è risaputo, più di ogni altra classe di persone, vanno soggetti a distrarsi, e perciò come talora si dimenticano di pagare la pigione dello studio, così qualche volta si scordano di desinare. Io di artisti afflitti da cotesti fastidiosi svagamenti dello spirito ne ho visti parecchi. Ne ricordo uno fra gli altri, che mi venne presentato da un mio conoscente, il quale, avendo con lui una certa affinità di temperamento si onorava di essergli discepolo.

Era un francese; parlava poco e male il nostro linguaggio; e benchè sapesse lavorare discretamente, un po' per colpa sua e un po' per colpa degli altri, quando arrivava alla fine della giornata gli ci mancavano sempre venti soldi a mettere insieme una lira. Poveretto! Aveva continuato per varii anni a combattere contro l'avversa fortuna, e dalla lotta terribile alfine era uscito così malconcio che, forse per consolarsi, s'era messo a studiare astronomia. Quando io ebbi il piacere di stringergli la mano, egli nella scienza degli astri aveva già fatto progressi spaventosi: tali, quali Ipparco, Tolomeo, Copernico, Keplero, Galileo, Newton e Laplace non glieli avrebbero sicuramente invidiati. La volta del cielo era, si può dire, per lui la volta della sua camera da letto. Le stelle le conosceva tutte e di ciascuna sapeva il nome, il cognome, la patria e la [349] condizione: nessuna delle loro abitudini gli era ignota, e poteva descrivere esattamente le più segrete caratteristiche della loro fisonomia.

Il suo discepolo, trovandosi senza dubbio in condizioni tali da poterlo affermare senza correr pericolo di essere smentito, una sera mi assicurò che il suo maestro se lo avesse voluto avrebbe potuto anche parlarci, con le stelle, perchè ne conosceva la lingua. Veramente di questo io ho sempre un po' dubitato; quello però di cui non sono mai stato dubbioso è che il francese spesso nelle notti serene s'inoltrava nella campagna con una lanternina e una cartella per andare a ritrattare una stella della quale s'era invaghito. Quando la trovava già alta nel cielo si metteva subito a disegnarla; se invece al cader della notte non era ancor sorta, l'aspettava; e appena la vedeva brillare fra le nebbie del lontano e sconsolato orizzonte accendeva la lanternina, vi accostava un foglio di carta e incominciava a lavorare; e al primo apparire del giorno spegneva il lumicino, e mentre intorno a lui si alzavano a volo trillando festosamente le allodole, se ne tornava a Roma, voltandosi di tanto in tanto per salutare la sua stella che vaniva tremolando nella luce fredda dell'alba.

Il discepolo io lo vedevo spesso, perchè, avendo saputo che io scrivevo nel «Capitan Fracassa», nella speranza di potermi indurre a stampare sui giornali qualche poesia in onore del suo maestro, godeva a intrattenersi con me per raccontarmene le gesta; e io a dire la verità godevo non poco a sentirlo parlare. Una volta gli chiesi se alle gite notturne, delle quali mi discorreva sovente, prendesse parte, e mi rispose, turbandosi, di sentirsi troppo piccolo [350] per poter andare in campagna di notte con un uomo tanto grande. La risposta non mi parve molto chiara: gli rivolsi altre domande e mi riuscì di fargli confessare come una notte certi brutti cani, attirati dal chiarore della lanterna del maestro, lo avessero assalito e quasi divorato.

— Sicchè da quella notte...

— Non ci sono più andato. — mi rispose subito; e, dopo di aver fatto un gesto di terrore, alzò una gamba, si toccò il polpaccio e riprese con grande sincerità: — Non ci sono più andato perchè, sebbene la mia venerazione per il mio maestro e per la sua arte astronomica sia eccezionale, io la vita umana la ritengo una cosa troppo sacra per essere data in pasto ai cani. Dico male?

— Benissimo! Però il vostro maestro ci va sempre in campagna, di notte?

— Sempre. Del resto — aggiunse, crollando il capo — per tutto quello che riguarda la vita non abbiamo, purtroppo!, le stesse idee. Le nostre opinioni sono molto diverse.

— Cioè?

— Ma, per esempio: lui non porta mai la camicia perchè la crede inutile, io invece la trovo necessaria; lui dice che meno si mangia e meglio si sta, io invece questo non lo posso ammettere; lui mi raccomanda sempre nel caso trovassi uno che mi offrisse un milione, di buttarglielo in faccia, e io questa raccomandazione la trovo...

— Superflua?

— No, ingiusta. E per quale ragione io dovrei rispondere con una villania a chi mi vuol fare una gentilezza? Ma niente affatto! Se domani uno viene da me e mi dice: «Giovannino, eccovi un milione», [351] io lo ringrazio, mi piglio il milione, e me lo metto nel portafoglio. Ma non basta. Lui, per esempio, vorrebbe anche persuadermi che se mi abituassi a mangiare il carbon fossile io potrei correre e fischiare come una locomotiva, e questa sua idea, a dire la verità, io la credo molto discutibile. Insomma, se lui mi ragiona sull'arte astronomica, io, secondo le mie forze, sono sempre disposto ad andargli appresso con gli occhi chiusi; ma se invece mi parla delle cose che riguardano la vita, io non lo posso seguire.

— Ma l'andare in campagna, di notte, a disegnare le stelle mi pare che sia una cosa che riguarda l'arte.

— Ah! mille perdoni! È una cosa che riguarda l'arte, sì; ma anche la vita, perchè ci sono i cani. — mi rispose; e ripetendo quel gesto di terrore, già fatto poco prima, e tornando a toccarsi il polpaccio, seguitò: — Del resto lui è lui, e certe cose se le può permettere. E poi se non se le permettesse, non potrebbe fare quello che fa.

— Ma che cosa fa? — gli domandai: ed egli, felice di potersi allontanare dai cani, il cui ricordo gli faceva ancora vedere le stelle, s'aggrappò immediatamente alla mia domanda e incominciò a discorrere con grande enfasi cercando di spiegarmi quale e quanta fosse la grandezza fisica e morale dell'opera sublime del suo maestro incomparabile. Non ci potei capir nulla. Ma appunto per questo fui assillato dalla curiosità di vedere che diamine di roba il maestro incomparabile mettesse sulla carta nelle sue gite notturne; e qualche giorno dopo avendolo incontrato nel Caffè Greco, me gli avvicinai e gli chiesi se mi permetteva di visitare il suo studio.

Impossibil! — mi rispose subito, e alzando lentamente l'indice della destra verso il soffitto della stanza, [352] proseguì; — Il mio atelier non rimane sulla terra; mais si trova in cielo, e si apre seulement quand vous dormez.

Rimasi male. Allora egli, che in fondo era buono e gentile, avvistosi della impressione sgradevole cagionatami dalle sue parole, mi disse, sorridendo: — Mais pourtant non vi dispiacete: si vous non potete pas venir da me, j'aurais le plaisir di venir io a cercare voi chez vous. — Il giorno dopo, difatti, mantenne la promessa e mi portò a far vedere una cartella piena zeppa di fogli di carta di tutti i colori, sui quali tra un inferno di linee c'erano disegnate centinaia e centinaia di figure geometriche contornate da migliaia di punti, di virgole e di parole incomprensibili. Rimasi sbalordito; e non sapendo dir altro gli domandai a qual cosa avrebbe mai potuto servirgli tutta quella roba: e lui, dopo di avermi detto più volte, ridendo, che gli astronomi erano des fous, absolument des fous, divenne istantaneamente serio, e, abbassando la voce, come se mi svelasse un gran secreto, mi disse che ne avrebbe ricavato una serie di disegni astronomici per riordinare da cima a fondo tutto il sistema planetario dell'universo.

Purtroppo l'impresa formidabile lo sciagurato non potè condurla a termine; poichè dopo qualche settimana ch'egli m'avea palesato il suo arcano, due caprari lo trovarono morto poco lungi dalle mura aureliane in un campo d'erbe selvatiche rilucenti di rugiada al primo bacio del sole.

Il suo discepolo inconsolabile ce ne portò l'annuncio al Caffè Greco dicendoci fra le altre cose come il poveretto dovesse certamente esser morto di fame perchè erano tre giorni che non mangiava.

— Tre giorni! — esclamò con voce incredula un [353] bell'uomo panciuto; e avvicinata alle sue tumide labbra una tazza fumante colma di buon caffè la rimise in fretta sul piattino; vi gittò dentro due pezzetti di zucchero e dopo qualche istante di silenzio dimandò: — Ma come si fa a rimanere tre giorni senza mangiare? — Fissò con gli occhietti lustri il vuoto quasi per cercarvi la risposta, poi, rimescolò il caffè, guardò i suoi vicini e, facendo spallucce, soggiunse: — Eh, già! Sempre originali gli artisti.

Proprio vero! Sempre originali gli artisti. Ma del resto tale originalità nelle stanze del Greco è più comune di quanto si crede; poichè, come osservava giustamente il mio amico Angelo Conti, è scritto nel libro del Fato che i pazzi più strani, quelli che noi potremmo chiamare l'aristocrazia della demenza, siano essi romani, italiani o dei più remoti paesi, debbono lasciare un segno della loro esistenza nella bottega di via Condotti.

Una sera, rammento, entrò nel Caffè un vecchietto macro, rosso in volto e vestito di nero. Nessuno di noi l'aveva mai visto, ma egli ci strinse a tutti la mano; poi, dopo un inchino solenne, ci disse che egli era Donato Sacchetta, albergatore in Bomba, un piccolo paese dell'Abruzzo, ed ex professore di filologia comparata; e, con nostra grande meraviglia, ci comunicò di esser venuto apposta a Roma per esporre agli amici del Caffè Greco il suo sistema di cosmologia. Chiese un caffè, se lo bevve, e poi, mentre noi non ci eravamo ancora rimessi dalla sorpresa, incominciò a dire a voce alta: — Illustri signori! Il vero mezzo per scoprire la ragione delle cose è offerto dal linguaggio. Ogni parola racchiude la rivelazione di un mistero dell'esistenza universale. In [354] questa maniera io ho potuto tuffarmi nel gran mare dell'Essere fra l'eterno flusso e l'eterno riflusso. Ora, se lo permettete, lo farò vedere a voi tutti. Io sono il mistico cignale che trionferà sul carro del possibile contro l'impossibile, io sostituirò alla matematica la filologia, io...

A questo punto, mentre tutti tacevano guardandolo esterrefatti, e qualcuno si allontanava prudentemente, si fece avanti il professore Spetrino, autore di un saggio critico e inedito, su Jean-Baptiste Racine e libero docente di lingue vive e morte nella nostra Università. Allora fra i due professori si accese una disputa furibonda, tanto furibonda che per farla cessare dovettero intervenire altri tre interlocutori: il barbuto e placido proprietario del Caffè e due guardie di pubblica sicurezza. E forse non fu il sistema di Donato Sacchetta che, pochi giorni dopo, spinse lo Spetrino ad entrare nella caserma dell'artiglieria al Macao ove prese a bastonare i cannoni, gridando che era giunta l'ora di distruggere tutte quelle orribili macchine da guerra? Povero Spetrino! Lo fermarono, lo legarono e, mentre egli urlava: — Portatemi nel tempio della Fratellanza e della Pace! — lo portarono al manicomio.

Un altro ne ricordo: un pittore milanese caduto rapidamente da una gloriosa giovinezza in una oscura e precoce vecchiaia. Lo riveggo ancora, vestito d'estate e d'inverno con un soprabitone di colore giallognolo non fatto certo per le sue spalle, entrare nella bottega, traversarla a piccoli passi e andarsi a mettere a sedere in un angolo quasi buio. Non parlava mai con nessuno. Il suo volto scarno aveva l'impassibilità di una maschera. Se mai qualcuno gli rivolgeva la parola, rispondeva con un lento movimento del capo [355] e ritornava subito immobile. Un giorno lo trovarono insanguinato e morente sopra uno dei gradini dell'obelisco del Popolo. S'era tagliate con un pezzo di vetro le vene dei polsi, e dopo di avere scritto sul travertino col proprio sangue: «Siate onesti», era caduto. Il disgraziato, fra i commenti della folla, venne condotto all'ospedale, e le due parole formidabili furono cancellate subito con l'acqua di Trevi delle vicine fontane. Ma prima che le cancellassero, mentre illuminate dal sole spiccavano ancora fosche su la pietra gialla, un signore le lesse e domandò chi le avesse scritte. Tutti gli risposero: — Un pazzo.

Non sempre però il sanguigno e lugubre ammanto della tragedia ricopre le persone di coloro che nelle stanze del Greco rappresentano la follìa artistica internazionale. Fra cotesti illustri rappresentanti me ne torna alla memoria uno il quale sapeva travestire con tale sottile ironia e con tanta volgare buffoneria il suo nero pessimismo, inasprito continuamente dai disinganni e dalla fame, che al vederlo e all'udirlo non si poteva fare a meno di ridere. Di quanto gli era accaduto o gli accadeva realmente, non parlava quasi mai: lo lasciava raccontare alle rughe numerose e profonde del suo volto, al suo abito sbrandellato ove erano più asole che bottoni, ed a tutta la sua figura macra ed ossuta. I suoi discorsi, spesso illuminati da lampi inaspettati di comicità irresistibile e da stravaganze inaudite, si aggiravano ognora intorno a invenzioni meravigliose o sopra a visioni fantastiche di mondi strani e sconosciuti, e finivano quasi sempre con motti feroci che stroncavano una reputazione scroccata o frantumavano un'opera, così detta, d'arte, o frustavano a sangue un artista mediocre favorito dalla fortuna.

[356]

Un giorno entrò nel Caffè e ci disse di aver trovato finalmente dopo molte prove e riprove il modo di fare l'oro. Qualcuno sorrise; e un pittore, noto a tutti per i favori ottenuti umiliandosi dinanzi ai potenti, volendolo canzonare gli disse: — Fai l'oro? Ciò mi fa piacere, ma non mi sorprende. Io faccio l'argento. — Già! Come le lumache: strisciando. — gli rispose il pazzo; e per quel giorno di oro e di argento non si parlò più.

Un'altra volta ci fece un lungo discorso sul noto proverbio: Impara l'arte e mettila da parte; e, dopo di averci dimostrato come per lui fosse giunto il momento di mettere da parte l'arte e di darsi all'industria, ci comunicò di avere impiantato un opificio per fabbricare i pennelli con le code dei pesci. Ma l'industria non gli riuscì. Allora si diede a fabbricar colori, e ne inventò uno giallo che aveva la densità delle terre, e, sia detto senza malizia, la trasparenza delle lacche, e, non so perchè, gli diede il nome di «capitone». Era buono. Lo vendeva a una lira il tubetto e molti lo comperarono; ma adoperandolo, turbati da qualche sospetto, furono assillati dal desiderio di voler sapere con quali sostanze venisse fabbricato. Ohimè! un giorno strinsero il suo inventore con molte dimande, gli nominarono la materia prima con la quale essi temevano che il «capitone» fosse composto e si sentirono da lui rispondere: — Può essere!

La rivelazione del segreto rovinò interamente l'industria del «capitone»; quei che ne avevano ancora si affrettarono a buttarlo via, e il suo inventore per passare in più spirabil aere si mise a scrivere un «opuscolo di estetica» intitolato: Viaggio patologico nella clinica dell'arte moderna in Italia, nel quale dissertava [357] sui premi di incoraggiamento istituiti dal Governo a vantaggio degli artisti. Egli ragionava così: — I premi per qual fine sono stati decretati? Per comprare col danaro del pubblico le opere degli artisti. Benissimo! Ma quando un'opera d'arte è veramente buona, chi la compera lo si trova sempre. Colui, dunque, che vende il suo lavoro non ha bisogno di essere incoraggiato da nessuno: si incoraggia da sè. Coloro i quali non vendono i loro quadri e le loro statue, coloro che producono pessime opere d'arte, questi debbono essere incoraggiati perchè, se a costoro non pensa il Governo ad aiutarli, chi mai ci penserà?

Dopo qualche mese che io avevo viaggiato patologicamente con lui in una stanza del Caffè Greco, mentre una luce tenue e dorata entrava dalla porta socchiusa e spargevasi dolcemente nelle camere silenziose, ove i camerieri dormicchiavano sdraiati su le panche vedove di avventori, lo incontrai per istrada, precisamente in via Nazionale, ove allora allora s'era chiusa una esposizione di belle arti. Appena egli mi vide da lontano, mi venne subito incontro agitando un giornale aperto e mi disse: — Ha visto? Ha inteso? Ha letto quali quadri sono stati comperati dalla Giunta Superiore per adornarne la Galleria di arte moderna? Si ricorda? Se la rammenta la mia lettura? Lo vede come la mia idea si fa strada? Lo capisce ora come il mio modo di pensare s'impone? — E, senza darmi il tempo di poter aprire la bocca, scoppiò in una risata fragorosa che fece fermare i passanti, mi voltò le spalle e agitando ripetutamente il giornale si allontanò.

[358]

* * *

Il pubblico del Caffè Greco non è più adesso simile a quello che io vi trovai quando incominciai a frequentarlo. Oggi molti di coloro che vi conobbi allora o son savi o son sepolti; tuttavia la massima parte di quanti vi si recano al presente è data dagli artisti; e nelle serate in cui la pioggia è vicina, mentre i barometri romani inclinano gl'indici verso il segno della tempesta, vi si accendono ancora discussioni furibonde su argomenti più o meno artistici, le quali non si spengono se non quando la pioggia principia a cadere fragorosamente sul soffitto di vetri dell'ultima stanza. Non sempre però la pioggia arriva in tempo a pacificare gli animi inacerbiti.

Una sera due giovinotti, dopo di aver sorbito i loro caffè e di averli trovati semplicemente borgiani, non avendo altro di meglio da fare, impresero ad esaminare quale delle due arti sorelle fosse più difficile ad essere esercitata, se la pittura o la scultura. I due contendevano già da un pezzo su l'arduo argomento quando un loro vicino, buttando via un mozzicone di sigaro, da lui dichiarato assolutamente infumabile, entrò buon terzo nella discussione: poco dopo, lagnandosi delle scarpe che glieli stringevano troppo, vi mise i piedi un altro; poi un altro ancora, e la controversia si ingigantì talmente che la stanza dove essa era nata non bastando più a contenerla, si sparse a poco a poco nelle altre camere della bottega. Allora tutto il Caffè si divise in due schiere di combattenti: una guidata dagli scultori e l'altra dai pittori. La lotta ardeva furiosa e gli urli, le [359] contumelie, le risate e gli applausi coprivano a volta a volta le voci squillanti degli oratori, quando un signore, senza riflettere a quanto avrebbe per avventura potuto capitargli fra capo e collo, ebbe il fegato di farsi avanti ad affermare che, secondo Spencer, la scultura era un'arte inferiore. All'udire il nome del filosofo gli scultori rimasero per qualche istante silenziosi, ma riavutisi subito dalla sorpresa chiusero la discussione con tali argomenti che il pover'uomo, se ancora campa, se li deve ancora ricordare.

Quietato il baccano, mentre le prime gocce di pioggia incominciavano a battere sui vetri del soffitto dell'ultima stanza, uno chiese: — E chi è questo Spencer?

— E chi vuoi che sia? — gli risposero in parecchi. — Sarà uno dei soliti giornalisti.

Perchè queste parole siano intese nel loro giusto valore, è bene avvertire che per la maggior parte dei frequentatori della bottega di via Condotti, il vocabolo giornalista, massime se viene pronunciato atteggiando le labbra a una smorfia di disprezzo, non serve mai a designare chi scrive in un giornale, ma colui che in un giornale scrive di 'cose d'arte' in genere e di quadri e di statue in specie. Del resto giornalisti veri e proprii io nel Caffè Greco non ce ne ho mai visti. Qualcuno forse può esserci capitato; ma se mai sarà stato un giornalista senza giornale, e allora sarà andato a confondersi fra quei frequentatori, dirò così, sporadici della bottega, fra i quali non è difficile di incontrare maestri di musica che non conoscono altre note all'infuori di quelle del trattore e del sarto, professori di pittura in qualche ospizio di ciechi, architetti senza archi e, [360] quel ch'è peggio, senza tetto, ingegneri privi oltre a tante altre cose anche d'ingegno, medici che non esercitano più la professione, forse per filantropia, vecchi impiegati giubilati i quali non hanno altro giubilo tranne quello, come sogliono dire, di avere un'anima di artista, negozianti senza negozi, avvocati senza cause e quindi senza effetti, poeti in cerca di una lira, e talvolta qualche modello.

Fra questi, nei primi anni che io frequentai la bottega, ne conobbi uno che non ho mai più scordato.

Era un moro. Alcuni missionarii ritornando in Italia dall'Africa, dove avevano predicato la verità evangelica agli infedeli, se l'erano portato appresso, e lo avevano battezzato imponendogli il nome lietissimo di Natale: ma, purtroppo, il nostro buon Dio del povero Natale non si era curato tanto quanto forse, se l'avessero lasciato stare a casa sua, se ne sarebbe curato il suo Allah; difatti, quando io lo incontrai in un angolo del Caffè Greco, il povero africano moriva di fame peggio di un europeo, e passava le sue giornate cercando inutilmente un'ora di lavoro, masticando qualche pezzo di sigaro, tossendo di tanto in tanto convulsivamente e bevendo a sorsettini lentissimamente, se poteva procurarselo, qualche bicchierino di rum di cui era ghiottissimo. Non era bello, no; ma le forme caratteristiche della sua persona, le sue movenze svelte e sempre eleganti e il modo singolare con cui soleva manifestare i suoi pochi pensieri e le sue molte sensazioni me lo rendevano simpatico, e se entrando nel Caffè mi avveniva di vederlo da lontano, rannicchiato dietro il marmo bianco di un tavolino, me gli avvicinavo e dopo di avergli stretta la mano lunga, [361] ossuta, scimmiesca, provando l'impressione di toccare un tessuto di seta, gli sedevo accanto.

Quasi sempre io gli offrivo un bicchierino di rum, ed egli avvicinandovi le labbra grosse e guardandomi di sotto in sù con gli occhietti socchiusi, mi ringraziava mandando fuori dalla gola un suono roco e tremolante simile a quello che fanno i gatti quando si accarezza loro la nuca. Parlava poco e alle mie domande rispondeva sempre con monosillabi; ma la povertà del suo dizionario sapeva compensare con gesti efficacissimi. I suoi discorsi li finiva sempre con le mani. Talvolta sorrideva mostrando i denti forti e bianchi, ma non rideva mai. Poveretto! Dove ei fosse nato non sapeva dirlo: quelli che lo avevano messo al mondo non li aveva conosciuti; e se gli chiedevo di raccontarmi qualche cosa della sua infanzia, alzava le spalle e le riabbassava dicendomi: — Non so. — Le sue rimembranze non andavano al di là della sua adolescenza, ed erano tutte assai più nere della sua epidermide. Quei tali che l'avevano lavato dal peccato originale, stimando forse con cotesta operazione idraulica di essersi liberati da qualsiasi altro obbligo verso di lui, lo avevano abbandonato, ed egli, discesi ad uno ad uno i gradini dolorosi della più obbrobriosa miseria aveva finito a trovarsi in mezzo a certi saltimbanchi girovaghi, i quali, dopo di averlo incatenato e rinchiuso in una gabbia di ferro, lo andavano mostrando come un ferocissimo antropofago vivente e proveniente dalle foreste vergini della Patagonia: e, come se questo non bastasse, ogni sera, affinchè il rispettabile pubblico potesse avere una piccola idea del modo col quale il povero Natale divorava il suo simile, gli gittavano nella gabbia una gallina, ed egli, urlando [362] e contorcendosi come un ossesso e scuotendo orribilmente le catene, la ghermiva, la spennava e la strangolava dinanzi agli spettatori inorriditi.

Dopo di averne fatte più di Carlo in Francia, capitato in Roma, senz'arte nè parte, si incontrò con un pittore il quale cercava un nero per effigiarlo, non so veramente con quanta esattezza storica, in un quadro rappresentante lo sbarco di Cristoforo Colombo in America, e da allora incominciò a frequentare gli studi ove trovò una certa Rosina, la figliuola di un ubriacone, che girava per le strade suonando un organetto a manovella, e se ne innamorò. Non la lasciava mai, e quando essa era a posare in qualche studio, se non poteva esserle vicino, l'aspettava in istrada pazientemente per poi accompagnarla fino all'uscio sgangherato di una casupola miserabile in un vicoletto nei pressi di Santa Maria Maggiore, ove ella abitava col padre e con l'organetto a manovella.

Un mio amico che li conobbe al tempo dei dolci sospiri, un giorno mi diceva sorridendo, come ogni volta che li aveva visti salire, tenendosi stretti per la mano, su per la scalinata della Trinità dei Monti, ove morivano i rintocchi dell'avemaria, e ogni volta che li aveva incontrati in via Sistina, mentre nella luce azzurra del crepuscolo tremolavano le fiamme gialle dei lampioni, non avesse mai potuto fare a meno di pensare allo Shakespeare. E, forse, chi sa? Chi sa se la povera Rosina non si fosse veramente innamorata dell'africano udendolo narrare le sue sventure? E chi sa se egli, il moro, non la ripagasse di amore per la pietà che n'ebbe?

Erano arrivati al punto di volersi sposare; ma questa volta Brabanzio giunse in tempo per impedire [363] alla natura di cadere in tanto errore. Non valsero nè pianti, nè preghiere. Se la disgraziata osava di nominargli il suo Natale, la risposta del birbaccione era sempre una: — Nun vojo turchi a casa mia. — E se la poveretta, pur avendo di lui un terrore indicibile, gli faceva osservare che Natale era un cristiano, egli ribatteva prontamente: — Io a li cristiani neri nun ce credo. — Viveva alle spalle della sua figliuola e non voleva che gliela portassero via: ecco la verità. Non si sposarono dunque; ma seguitarono sempre a volersi bene, e si può dire che l'africano la sua Rosina non la lasciò se non quando, vinto da una tisi galoppante, fu obbligato di ritornarsene nel grembo del nostro Dio o forse in quello del suo Allah. La poveretta lo pianse con molte lacrime e poi passò ad altri amori meno neri, ma non meno disgraziati e, perduto il padre, cadde sotto le ugne di un brutto tipo: un formatore, il quale impadronitosi dell'organetto a manovella prese a suonarlo per le strade e più spesso sotto gli olmi, i ligustri e le acacie delle varie osterie suburbane; ma poi, annoiato dal dover sempre sentire la stessa musica, vi incollò sopra un foglio di carta con questa iscrizione: — Da vendersi o da affittare. Per le trattative diriggersi a me. — E quando in seguito a trattative laboriosissime gli riescì di disfarsene, dopo di essersi mangiato, giocato, e bevuto quel poco che ne aveva ritratto, ritornò a sporcarsi le mani col gesso, e, cavate le impronte di quasi tutte le parti del corpo della misera Rosina, che egli soleva chiamare ghignando «la mia signora» le andava offrendo per pochi baiocchi ai signori pittori di via Margutta.

Tutti e due finirono male. Lui, dopo di averne fatte tante, una meno legale dell'altra, non sapendo [364] che cosa fare di peggio, essendosi messo a riempire con un metallo bianco di sua invenzione, molto simile all'argento, le forme cave di certe monetine da due lire, un giorno fu visto in mezzo a due guardie di pubblica sicurezza e non se ne sentì più parlare; lei, povera figlia!, una sera uscendo da una bettola si trovò trascinata, senza volerlo, in una rissa e fu raccolta morente per una grave ferita di coltello. La portarono in un ospedale e colà, dopo qualche ora di tormenti atroci, quella pace che ella aveva cercato tante e tante volte invano nella vita la trovò nella morte.

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Ed ora, giacchè è necessario di concludere, permettimi, o amico lettore, che io chiuda questo mio «Caffè» più o meno «Greco», il quale conclude questo volume, rivolgendoti una domanda.

Dimmi la verità, ti ho annoiato?

Senti: una sera io mi trovavo nella vecchia bottega fra le cui storiche pareti ho cercato di intrattenerti come meglio ho potuto, quando un signore venne a sedersi a un tavolino accanto a me; chiese un caffè e se lo bevve in fretta; poi torcendo le labbra in segno di disgusto, chiamò con voce alterata il cameriere, e, dopo di avergli accennato con un'occhiata bieca il vassojo, gli disse: — Non vi vergognate di avvelenare il prossimo con questi intrugli?... Non vi vergognate?...

Il cameriere lo lasciò sfogare; guardò la tazza ove di caffè non ce n'era rimasta neppure una goccia, e gli rispose: — Caro signore, che cosa vuol farci? Oramai l'ha bevuto!

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