Carciofolata

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Su l'angolo del vicolo solitario, ove non s'ode altro romore se non il gorgòglio di una fonte invisibile, un lumicino rischiara fiocamente una madonnina. Intorno a lei, fra mazzetti di fiori appassiti, luccica qualche cuore d'argento. Le casupole una appoggiata all'altra come le pecorelle nelle reti, dormono quasi nascoste da molte file di panni di tutte le forme, risciacquati nella giornata e appesi a canne e a corde perchè il vento della notte gli asciughi. Sui parapetti delle finestre i ramoscelli dei garofani e delle viole a ciocche si aggrovigliano intorno ai vasetti di matricaria, di ruta, di persa e di basilico e scendono addosso ai muri umidi e scuri, ove fra i mattoni rotti o corrosi dai secoli, s'intravvedono nell'ombra tronconi di colonne, pezzi di capitelli e frammenti di sculture antiche. Qua e là, tra le inferriate, le scalette e le loggette di legno, ingombrate da oggetti inutili, qualche condotto di latta arrugginita serpeggia nel buio e sale a congiungersi con le gronde da cui pendono ciuffi d'erbacce nere. Giù in fondo su la miseria dei tetti bruni, ove tra le tegole e i docci sorgono innumerevoli cappe di camino, [290] sul cielo palpitante di stelle, campeggia una cupola enorme, coi vetri della lanterna inargentati dalla luna.

* * *

Nel silenzio viene da lontano un trillare leggiero di mandolini e le ultime case del vicolo si veggono colorire a poco a poco da una pallida luce giallognola. Due gatti balzan fuori da un mondezzaio e spariscono nella feritoia d'una cantina, e un cane «lupetto» si mette a correre verso il chiarore, abbaiando.

I trilli dei mandolini si avvicinano; il chiarore cresce e all'improvviso una festa di luce e di colori, una allegrezza di suoni e di canti invade la stradicciuola. Le finestrelle, le loggette e i mignani s'empiono subito di ragazze dai begli occhi neri e curiosi e i portoncini e le scalette si affollano di giovinotti e di vecchi che allungano il collo verso il fondo del vicolo, da dove rischiarato con fiaccole e bengala s'avanza un gruppo numeroso e pittoresco di suonatori strimpellando mandolini e chitarre. Essi hanno in capo grandi tube ornate di fiori e son tutti vestiti con abiti vistosi di forme disusate, i quali fan ridere i giovani e ricordano ai vecchi gli anni lontani della loro adolescenza. Le esclamazioni di sorpresa e le dimande si incrociano fra i portoncini e le finestrelle: — Che è successo?... — Che d'è?... — È ritornato carnevale?... — Chi so'? E una voce, superando il frastuono delle voci, degli strumenti e delle risate di cui ormai il vicolo è pieno, risponde: — So' li pittori che vanno a magnà' li carciofoli, in Ghetto. — All'udire tali parole gli uomini battono le [291] mani e le donne sorridono. Forse qualche giovinetta ripensa alla Fornarina e qualche vecchio, rammenta Bartolomeo Pinelli.

Li pittori intanto, mentre fiori e foglie di erbette odorose cadono sui loro cappelli, seguendo i suonatori, passano, tenendosi a braccetto, ridendo, cantando e rispondendo ai saluti ed ai sorrisi con un arguto scoppiettare di motti; penetrano in altri vicoletti, sboccano in una piazzetta, la traversano fra una folla di gente che è là da qualche ora ad aspettarli per vederli passare, ed entrano nell'osteria di Pacifico, dalla cui porta pacificamente spalancata esce un odore acuto e appetitoso di carciofi fritti nell'olio.

In tutte le stanze dell'osteria sul candore delle tovaglie di bucato sotto il tremolare delle fiammelle innumerevoli delle lumiere i piatti e i bicchieri luccicano; le forchette e i coltelli brillano e le lunghe file di bottiglie, piene di un vino che ha il colore dell'ambra mandano qua e là su le salviette, ornate di rose sprazzi di luce gialla. Le tavole vengon prese d'assalto e ciascuno, come può, si conquista il suo posto. Gli attaccapanni inchiodati alle pareti, ove sono dipinti varii paesaggi che fan ripensare a Claudio di Lorena e al Pussino, spariscono in un attimo sotto a cumuli di giacche, di tabarri, di fasce e di cappelli, sui quali vengon posati in pittoresco disordine mandolini, chitarre e tamburelli; e comincia subito un rumore infernale di stoviglie percosse. A questo chiasso se ne aggiunge un altro; quello che fa la folla fuori dell'osteria.

Molti vogliono entrare per forza. Il sor Pacifico, un bell'uomo panciuto e prosperoso, rubicondo e ricciuto, un po' con le buone e un po' con le cattive, cerca di persuaderli ad andarsene, dicendo loro: — Me [292] dispiace, signori: ma stasera nun se pò!... Stasera el locale è tutto preso da li pittori... Stasera chi nun è pittore nun magna. — Poi, quando vede che le sue ragioni non vengono ascoltate, chiude la porta in faccia a tutti mandandoli tutti all'inferno. Ma quelli sempre più ostinati a voler entrare, non ci vanno e seguitano a far baccano. Un vetro va in frantumi. Bisogna sbarrare l'entrata dell'osteria con un tavolino. Durante il lavoro dello sbarramento il rumore delle stoviglie percosse si attenua e un bel tipo ne approfitta subito per alzarsi e per mettersi a parlare: — Signori! — egli dice seriamente — Prima di mettervi a mangiare sarà bene che voi sappiate come il carciofo appartenga alla famiglia delle composte ed alla singenesia di Linneo. Coltivasi negli orti... — Un urlo formidabile costringe lo sconsigliato oratore a smettere e non appena egli si siede, ricomincia più che mai violento un fracasso di mille strepiti insieme, in mezzo al quale si sentono squillar cento voci che chieggono i carciofi con cento favelle: — Volemo li carciofoli... Les artichauts... Los alcachofas... Die artischochen... The artichokes...

Il sor Pacifico si fa innanzi, accolto da una tramontanata di fischi, di urli, di applausi e di risate, sale sur una sedia e con le mani alzate fa cenni per implorare un po' di pazienza; poi scende ed apre la porta di un meschino cortiletto, dove alcuni omini vestiti di bianco, fra nuvole di fumo azzurro, si affaccendano intorno a caldaie nere, piene d'olio bollente, per estrarne i carciofi, che sembrano d'oro, e gittarli entro a canestre coperte da candidi tovaglioli.

Appena il sor Pacifico apre la porta della cucina ne esce subito uno degli uomini bianchi, sorreggendo con le braccia robuste una di coteste canestre. Dopo [293] qualche istante è vuota! Altre canestre colme di carciofi vengono recate sulle tavole, altre e poi altre, e non appena vi sono posate mostrano il fondo.

Tutti mangiano ghiottamente e bevono. I carciofi, si sa, prosciugano la gola e il vino per bagnarla non è mai troppo. I litri si vuotano senza contarli. E il vino dà un dolce calore alle vene, arrossa i volti, rinforza i corpi e intenerisce gli animi. I «filetti di baccalà», una specialità del locale!, vengono dopo i carciofi ad accrescere in tutti la voglia di bere; e quando una enorme zuppa inglese, scortata da qualche bottiglia di liquore, segue i «filetti», i ricordi gli aneddoti le rimembranze e le memorie si propagano da una tavola all'altra, recandovi ora una sincera allegrezza ora una soave mestizia.

Un vecchio parla, e i suoi vicini coi gomiti sulla tovaglia lo ascoltano assaporando le parole.

— Se l'ho conosciuto?! — dice il vecchio staccando le labbra dall'orlo di un bicchierino di alchèrmes e rispondendo a una domanda che gli viene rivolta — Se l'ho conosciuto?! Ma fin dai primi giorni che venne a Roma. Aveva lo studio fuori della Porta del Popolo, a Papagiulio. Quanto lavorava! Sempre! Ricordo ancora quale impressione noi provavamo la domenica tutte le volte che andavamo a cercarlo; quando, dopo di aver percorso la via Flaminia, piena di gente allegra e spensierata, che si recava a Ponte Molle a far bisboccia, lo trovavamo nel suo studio, davanti al suo cavalletto. Solo! Quanto lavorava!

— Povero Fortuny! — esclama qualcuno.

Altri rammentano un altro pittore spagnuolo: Eduardo Rosales.

E pensare — osserva uno battendo col pugno la tavola su cui una rosa accartoccia i petali, manifestando [294] il dolore che prova nel trovarsi in mezzo a scorze di arance, a foglie di finocchi e a croste di pane! — E pensare che quando egli morì, qui in Roma, si dovette ricorrere alla pietà degli amici per le piccole spese, occorrenti ai modesti funerali!

Le pipe cominciano a mandare verso il cielo delle stanze qualche nuvoletta azzurra di fumo e le bottiglie seguitano a vuotarsi. E a riempirsi.

Alcuni giovani parlano di un quadro del Faruffini. Uno di loro allontana con un gesto rapido bicchieri e bottiglie e con l'unghia traccia poche linee sulla tovaglia. Cinque o sei teste si chinano a guardarle. E intorno alle linee divampa un violento dibattito, al quale piglian parte dieci o dodici, parlando tutti in una volta. Gridano, strepitano e, come avviene sempre quando quelli che disputano, sono parecchi, e i bicchieri vuotati sono anche di più, così passano rapidamente da un argomento all'altro, con una facilità che pare fino impossibile.

Più in là, tra il fumo del tabacco e del caffè, sorge un'altra discussione. L'accende un giovanetto, rammentando Salvator Rosa e recitando qualche verso delle sue satire; l'attizza uno scultore, dicendo, fra l'altro, che il Thorwaldsen una volta, essendo stato invitato a una festa dal re di Danimarca, vi andò col petto ornato dalla sola commenda dell'ordine del bajocco, che egli aveva ricevuta nelle grotte di Cervara; e la spegne un bel vecchio con una lunga barba bianca, che gli scende sul petto, il quale, dopo di aver raccontato come lui si ricordasse di aver visto in gioventù l'Overbeck scendere in ciabatte dal suo studio e percorrere così un lungo tratto della via Sistina per entrare in una modesta bottega, ove egli aveva l'abitudine di andare ogni giorno a sorbire il [295] caffè, conclude con l'affermare gravemente che una volta la vita dell'artista era più semplice.

Mentre tutti convengono in questa affermazione rampollata dal caffè e dalle ciabatte dell'Overbeck, due giovinotti pigliano due chitarre, ne risvegliano, pizzicandole, le corde indormentate; ne cavano alcuni accordi, ai quali s'unisce subito il trillare di un mandolino e si mettono a suonare il passagallo: quelle poche note lunghe, insistenti, strascicate penosamente in un ritmo lento e monotono, che talvolta i popolani, obliandosi, amano di cantare, allorquando il sole indora i selciati delle piazzette trasteverine o il plenilunio inargenta le acque del Tevere, popolando di fantasmi le rive deserte. Tutti ascoltano in silenzio e più d'uno, con la sensibilità propria dell'artista, acuita dall'eccitazione del vino, negli accordi gravi e solenni delle chitarre, ritrova lo squallore tragico e sublime della nostra campagna, il tardo e paziente incedere dei buoi che trascinano gli aratri e il roteare maestoso delle pojane su le vaste solitudini fra il Tevere e l'Aniene; e nei trilli rapidi e argentini del mandolino rivede in fantasia le mozzatore che tornano danzando dalla vendemmia con le chiome nere ornate di pampini, i salterelli ballati sotto le pergole e fra i roseti nei giardini del Monte Testaccio e i cocchi infiorati e veloci, pieni di minenti e di fanciulle che, sonando gnacchere e tamburelli, gittano alla luce infocata dei tramonti d'ottobre gli appassionati stornelli d'amore.

Quando il passagallo finisce e gli ultimi arpeggi delle chitarre si dileguano nell'aria, oramai tutta annebbiata dal fumo delle pipe, le stanze dell'osteria si vuotano a poco a poco, e appena gli ultimi ne sono usciti, sorreggendosi alle sedie, vi entrano varie donne [296] coi capelli crespi e negletti le quali, mentre il sor Pacifico si mette a segnare col gesso qualche numero sur una piccola lavagna, aprono le finestre; raccolgono le salviette biancheggianti qua e là sotto le tavole; rialzano le sedie rovesciate; gittano in terra insieme ai bicchieri rotti, i rimasugli delle vivande che imbrattano le tovaglie; sparecchiano e di tanto in tanto si avvicinano alla porta e rimangono a guardare ridendo li pittori che adunati accanto a una fontana vivamente colorata dai bengala, gridano: — Al Colosseo!... Al Colosseo!...

— Al Colosseo? La via è lunga! — osserva qualcuno. Ma i suonatori, dopo di avere accordati gli strumenti, principiano a strimpellare la marcia del Carlo il Guastatore, s'avviano verso un vicolo e vi entrano. Il vicolo muore oscuramente davanti a un voltone enorme, sorretto da alcune colonne scannellate. Tutti vi passan sotto cantando e rammentando il Piranesi; poi traversano in silenzio la piazza Montanara, ove qua e là, sul selciato, dormono gruppi di contadini, aspettando che l'alba li svegli; girano in un labirinto di stradicciuole deserte e, lasciandosi dietro un grande e vecchio palazzo nero e disabitato, il quale per non morire di inedia s'è dovuto mettere a fare il magazzino di legname, proseguono verso una torre così rovinata e desolata che par che mediti il suicidio, e sboccano alfine in un largo sterrato, dirimpetto una strada lunga diritta e solitaria in fondo a cui, sul cielo scintillante di stelle, sorge un colle, coronato di cipressi: il Palatino.

— Qui, una volta, si tagliavano le teste! — dice un vecchio. Nessuno aggiunge niente, e tutti seguitano a camminare finchè un altro, fermandosi davanti ad alcuni ruderi, esclama: — Ecco tutto [297] quello che rimane del Circo Massimo! — E dopo una breve pausa, alzando le braccia, soggiunge:

Muoiono le città, muoiono i regni:

Copre i fasti e le pompe arena ed erba.

Nell'aria fresca, che incomincia a odorare di erbette aromatiche, viene da lungi l'uggiolare di un cane.

— Avanti!... Camminate!... — gridano diverse voci, e uno che già sente la lunghezza della strada, polverosa, dimanda: — Ma dove andiamo? A Frascati?

Le abitazioni cedono via via il posto alle siepi di pruni e di sterpi, interrotte di tempo in tempo da qualche albero annoso, da qualche casolare abbandonato o da viottole che si perdono nel buio. Indicandomi una di coteste viottole, un pittore un po' innanzi negli anni mi dice: — Guarda! Qui ci nascondemmo per salvarci dai gendarmi pontifici.

— Quando? — dimandano parecchi.

— Nel sessantasette.

— Tombola! — esclama subito uno, che sorretto pietosamente da altri due, gli cammina alle spalle.

Il pittore si volta, lo guarda, sorride e continua: — Ci avevano detto di andare ad assaltare la caserma di San Paolo. — Ma le armi? — Andate a villa Matteini — ci risposero — e le troverete. Andammo a villa Matteini e laggiù, invece di trovarci le armi, ci trovammo i gendarmi. Mi pare ieri! Mi par proprio di risentire lo scalpitare dei cavalli dei dragoni sulla terra dura e i passi spietati delle pattuglie che ci davano la caccia.

— Ma camminate! — gridano ancora altre voci lontane — Vi pesano le gambe? Muovetevi! — E noi ci muoviamo ed entriamo in uno stradone fiancheggiato [298] da vecchi olmi che non finiscono mai; raggiungiamo un arco gigantesco e, finalmente, dinanzi a noi, appare il Colosseo.

Le chitarre e i mandolini ripigliano a suonare; e mentre faci e bengala ci avvolgono in un puzzo di zolfo insoffribile, passiamo sotto ad arcate maestose su le cui pietre antiche le nostre ombre moderne si allungano e si accorciano bizzarramente, ed entriamo nell'arena. Una civetta ci vola sul capo, stridendo, e alcuni pipistrelli, spaventati dal chiarore insolito, ci svolazzano intorno.

Prima che le faci e i bengala si spengano uno si arrampica sopra a un rudero e accompagnandola col suono della chitarra canta con voce stanca una canzone; e non appena l'ha finita, un altro prende subito a dire: — Signori! In questo luogo, ove i cristiani divoravano le belve... — Seguita per un po' a infilzare scemenze; ma poi le parole gli muoiono sulle labbra e s'azzitta. La grandezza tragica del luogo non vuole scherzi. Difatti a poco a poco ognuno sentendosi oppresso dal peso delle memorie, finisce col tacere e incomincia a sentire il desiderio di andarsene. E appena uno guardando l'orologio mormora: — È tardi! Mi pare che sarebbe ora di ritornare... a Roma! — e s'avvia verso l'uscita dell'arena tutti lo seguono a piccoli passi, in silenzio, quasi temessero di svegliare la Storia che dorme nelle rovine auguste.

* * *

Quando tutti son fuori dell'anfiteatro un mandolino, a cui è rimasta la metà delle corde, aiutato da una chitarra scordata, intona una marcia e tutti si allontanano in fretta.

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Due che camminano barellando, rimangono indietro. All'improvviso uno di loro piega le ginocchia e si ferma: guarda qua e là in terra, come se cercasse qualche cosa, poi, levando lentamente l'indice della mano destra verso il cielo stellato, si volge all'amico che lo sostiene e gli dice: — Vedi: il Colosseo, non si può negarlo, è una gran cosa antica; è una grandissima cosa storica; però tu puoi esser certo che se domani, al mondo, non ci fosse più il Colosseo, il mondo seguiterebbe a camminare lo stesso; ma se, invece, domani, al mondo non ci fosse più il vino, tu devi convenire, con me, che il mondo non potrebbe più camminare. Ne convieni?

— Ne convengo. — gli risponde l'altro, ridendo e sorreggendolo. E mentre lo sorregge e ride, pensa che il mondo non cammina più, anche quando ne ha bevuto troppo.

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