Il Manichino

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A ONORATO CARLANDI.

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Mio caro Onorato,

Se un anno addietro mi avessero detto che io sarei entrato a far parte di quei tali seccatori del prossimo, conosciuti volgarmente sotto il nome di conferenzieri, avrei scommesso chi sa qual somma strepitando il contrario. Ma è purtroppo vero che a questo mondo si sa come si nasce e non come si muore! Un anno è passato, ed eccomi qua battezzato conferenziere e per di più conferenziere stampato.

Del resto, caro Onorato, se l'Italia conta ora un seccatore di più il merito mi par che sia tuo.

Ti ricordi? Eravamo in dieci o dodici nella taverna del nostro Circolo artistico e parlavamo delle conferenze che allora si tenevano nella sua sala maggiore: ed io ricordo di aver detto, che le conferenze, quando non divertono, annoiano. Poi il discorso seguitò fra il giocondo tintinnìo dei bicchieri e ci dividemmo in due campi. Tu per fare con la voce squillante l'elogio delle conferenze: io invece per dimostrare come l'uomo a questo mondo fosse già troppo infelice per infliggergli anche cotesto martirio.

Non potendoci mettere d'accordo, si passò a discutere se le conferenze si dovessero dire o leggere.

Si devono leggere.dicevi tu.

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— No. Si debbono dire. — ripigliavo io.

— Non si debbono nè leggere nè dire. — ammonivano gli altri pestando i piedi.

Mentre il dibattito era più acuto, con uno di quegli scatti nervosi che ti sono abituali, tendendo le mani verso di me gridasti: — Tu dici che le conferenze non si debbono leggere? Ebbene, provalo, dinne una tu.

Io mi schermii osservando come le mie convinzioni politiche non mi permettessero di tenere conferenze artistiche. E tu allora ripigliasti: — Dunque sei buono solo a far ciarle! — E soggiungesti: — Guarda! Se tu fai una conferenza io scommetto duecento lire...

Quelle duecento lire ipotetiche, che riluccicarono all'improvviso fra il fumo delle pipe, fecero cessare il baccano. Io mi alzai e accettai la scommessa.

Ci stringemmo la mano, e, dinanzi a quattro amici come testimoni, furono stabiliti i patti.

La conferenza doveva durare non meno di tre quarti d'ora: nel dirla non dovevo avere nessun foglietto scritto sotto gli occhi e dovevo tenerla nella maggior sala del nostro Circolo artistico durante la stagione invernale.

Rimaneva da cercare il titolo.

— Dev'essere una conferenza artistica. — dissero tutti in coro.

— Benissimo. Il tema della conferenza l'ho già trovato.

— Quale è? — dimandarono molti.

— Il manichino! — risposi io.

Il vino sprizzò su la tavola dai vetri urtati festosamente. Passò qualche mese ed io, l'avversario accanito delle conferenze, il motteggiatore dei conferenzieri, divenni conferenziere a mia volta: e per un'ora e mezza parlai innanzi ad una folla di signore e di artisti, alla cui bontà dovetti il successo che ne riportai.

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Ora, caro Onorato, la conferenza a cui tu hai dato origine con l'idea della scommessa, è data alle stampe, e voglio che il tuo nome vada unito al mio nella pubblicazione.

Convieni con me che in quest'affare della conferenza, non ti potevano capitare fastidi maggiori. Perduta la scommessa ora devi sopportare perfino la dedica di questa farragine di scioccherie.

Le disgrazie non capitano mai sole.

Sta' bene e ricevi una affettuosissima stretta di mano dal tuo

1º gennaio 1885.

Cesare Pascarella.

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Signore e Signori,

Sapete? C'è stato un momento, un'ora fa, quando ho posto il piede in queste sale, che spaventato da un esercito interminabile di sedie vuote (Non potete immaginare quale effetto disastroso producano nell'animo di un conferenziere le sedie vuote!) spaurito da tutto questo apparecchio di tappeti verdi, e di bottiglie piene d'acqua inzuccherata ho avuto improvvisamente l'idea di ripigliarmi lo scialletto e il cappello, e d'andarmene.

Voi sorridete, Signora? Capisco ciò che significa il vostro sorriso. Voi pensate che se io me ne fossi andato, a quest'ora a voi sarebbe risparmiata la noia di ascoltarmi e a me lo scorno di stare quassù impacciato davanti a questo tavolino. Ma ora, o Signora, il rammaricarsi è vano; perchè io ci sono, voi, eh! voi ci siete; insomma noi ci siamo; e conviene, bene o male, a me di parlare e a voi di ascoltarmi.

Non potete immaginare quanto mi dispiaccia di non essere un valido e forte conferenziere! Eh, se lo fossi a quest'ora avrei già abbozzato una diecina di righe di preambolo, me ne sarei scivolato giù nell'argomento, e una volta nell'argomento felicissima notte! Poichè è proprio vero, che il difficile sta nel cominciare. Una volta incominciato, in fondo ci si [62] arriva. Le idee son come le ciliege; una ne tira un'altra. Di ciliegia in ciliegia si arriva in fondo al piatto, come, bene o male, di idea in idea si arriva in fondo alla conferenza. Ma io, purtroppo! non sono un valido conferenziere. Io sono venuto quassù impacciato con la testa fra le nuvole; tanto che se io avessi bisogno di un bicchier d'acqua dovrei stare bene attento a non far accadere una inondazione su questo tavolino.

E giacchè sono in vena di fare delle confessioni, ci metto anche questa. Cinque minuti fa, quando sono sceso da quella stanza che mi parve l'anticamera dei sospiri, per venir qui, attraversando la sala ho gittato timidamente uno sguardo tra la folla ed ho visto tanti amici che mi guardavano ridendo e tante belle signore che mi osservavano curiosamente attraverso alle lenti degli occhialetti. I primi mi hanno rammentato la folla pigiata sotto ai funamboli che salgono sul soffitto del teatro per eseguire i loro difficili esperimenti, e mi è balzata alla memoria la considerazione che fa il popolano al vedere la vita dei poveri acrobati esposta al pericolo. Ricordate?

Quer che te dà piacere, poi, è l'artezza

Indove stanno a lavorà' 'sti giochi:

Si quarcuno viè' giù nu' la rippezza!

E a dirvi la verità, non vorrei davvero proprio io, stasera, venir giù dal soffitto di questa conferenza!

Le seconde, le signore, oh! le signore mi hanno ricordato la folla elegante che si stringe attorno alla fiala di vetro, ove nuota nello spirito un mostricino presentato dal Barnum in abito nero e cravatta bianca, come un fenomeno très intéressant.

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Forse, a cercarlo bene, il mostricino c'è; ma se c'è il mostricino, manca lo spirito.

Difatti...

(Il conferenziere ad un signore che, sbuffando, si dimena fastidiosamente su la sedia):

Come? Che cosa dice? Ah! Il manichino? Scusi tanto. Chiacchierando lo avevo dimenticato. Ma, prego, non s'impazienti! Guardi, incomincio subito.

(Qui l'oratore fa un passo indietro, si inchina e con voce solenne incomincia):

Quand'è, o signori, che è comparso sulla scena del mondo il manichino? Quand'è? Quand'è? Curiosa davvero! Sento di essermi dimenticato di qualche cosa e non riesco a capire di che. Ah, per bacco! scusate tanto, nientemeno che m'ero dimenticato di bere il bicchier d'acqua di rito.

Io veramente non ho sete; ma siccome ho visto come tutti i conferenzieri prima di entrare nell'argomento bevano un bicchier d'acqua, io, ripeto, non ho sete, ma per non infrangere la consuetudine, giacchè lo bevono tutti, lo bevo anch'io.

(L'oratore vuota un bicchiere, poi manda un sospiro di contentezza e sorride).

Ah! ora capisco perchè si beve il bicchier d'acqua. Ma davvero che questo bicchiere d'acqua mi ha dato una larghezza di vedute, una lucidità di mente tale, che incomincio a credere sul serio di arrivare fino in fondo senza fermarmi mai più. Dunque dicevamo? Ah! dicevamo: quand'è, o signori, che è comparso sulla superficie della terra il manichino? Per rispondere a questa dimanda sento il bisogno di ricorrere ad una frase fatta. L'origine del manichino, o signori, si perde, pur troppo, nella notte dei tempi. Ed ora, giacchè ci sono, [64] sèguito. Accendiamo dunque il lanternino della storia, o per dir meglio, delle induzioni; e ricerchiamo questa origine.

Ci sono molti i quali affermano che il manichino c'era già prima che il mondo esistesse; e costoro aggiungono che basta gittare lo sguardo su tanti quadri, per vedere come su quelle pitture colui che si affanna con le braccia spalancate a creare tutto questo po' po' di mondaccio birbone, non sia altri che un manichino rivestito di stoffe aranciate e azzurre, campeggiante in una bella aureola di giallo di Napoli: ma questa può sembrare un pochino sballata, e così pare anche a me. Non teniamone conto. Scartiamola, e procediamo diritti per la nostra via. Però prima di addentrarci nella selva selvaggia delle induzioni, stabiliamo bene una cosa. Si conoscono o non si conoscono manichini preistorici? Qualcuno di voi potrebbe dirmi che i manichini preistorici esistono, e sono posseduti dal signor Dovizielli ma questo sarebbe uno scherzo e la gravità della mia conferenza ne andrebbe perduta. No, i manichini preistorici fino ad ora non si conoscono. Forse fra qualche mese, fra qualche anno, la scienza, che progredisce sempre nelle scoperte utili, inventerà anche il manichino fossile; ed allora sarà il caso di riparlarne: allora Temistocle Gradi ci farà sù un bel racconto. Paolo Lioy ci scriverà sopra un articolo per il Fanfulla della domenica e un Pascarella dell'avvenire lo illustrerà con una nuova conferenza. Auguro a quel Pascarella [65] dell'avvenire la fortuna di avere innanzi a lui un pubblico così colto, numeroso, e gentile come questo che ora mi ascolta. Assodato, adunque, come i manichini preistorici non esistano, io mi risparmio di sciorinarvi le teorie darwiniane, e vado innanzi.

Assolutamente è chiaro, o signori, che il manichino ha dovuto comparire sulla superficie della terra subito dopo che l'uomo nella sua qualità di essere ragionevole, e di principe della natura, ha sentito il desiderio di possedere qualche cosa di falso somigliante al vero, ma che però cotesto vero non riuscisse a raggiungerlo mai. Mi spiego. Per ricercare l'origine del manichino, o signori, è necessario, logicamente parlando, di ricercare la origine dell'arte. Quando, o signori, è nata l'arte nel mondo?

Belle dimande direte, voi. Ma che sul serio, dico, vogliamo credere alla storiella dei due amanti di Sidone? All'amante maschio che parte proiettando nettamente sul muro l'ombra della sua persona, e all'amante femmina che resta, e che vedendo sul muro l'ombra del suo innamorato corre a graffiarne il contorno con un chiodo o con una lisca? Scioccherie. L'arte è nata con l'uomo, e l'uomo non appena è comparso su la scena del mondo, ha inteso la necessità, il bisogno ineluttabile dell'arte. E io me lo figuro, quest'uomo primitivo, che, aperti gli occhi alla luce, appena ha cominciato a passeggiare per le vie del mondo, invece di fabbricarsi un paio di brache per ripararsi dal freddo, un ombrello, magari da pochi soldi, per difendersi dalle piogge torrenziali, io me lo figuro, reggendosi con una mano la foglia di fico — l'unico tout de même allora di moda — segnare con l'altra, su di una pietra non ancora ricoperta di muschi, con una silice dura il [66] ritratto del suo babbo, della sua mamma e della sua innamorata; me lo figuro e lo compiango. Badate bene però, che non mi arrischio di metterlo fuori qui questo compianto, perchè qui troppi pittori mi ascoltano. Anzi io qui dirò come l'arte sia prepotente bisogno nell'uomo e qualche volta anche nella donna, e sosterrò come l'uomo perfetto sia colui che dipinge quadri. Solamente io spero che lor signori vorranno essere tanto ragionevoli da lasciarmi aggiungere all'uomo perfetto che dipinge quadri, l'uomo perfettissimo: quello che li compra!

Accertata adunque l'esistenza del pittore nelle prime epoche mondiali, è appunto a quelle epoche che risale l'origine del manichino. Difatti, ammesso una volta il pittore, bisognerà logicamente ammettere la differenza d'ingegno di codesti pittori. E, se ci sono pittori a corto di moneta, ora che governi, comuni e Provincie Dio solo sa quanto spendono e spandono per proteggere l'arte e gli artisti; se vi sono pittori con le tasche vuote ora che si pagano migliaia e migliaia di lire pochi palmi quadrati di tela dipinta; ma figuratevi quali eserciti interminabili di pittori affamati han dovuto passeggiare sulla superficie della terra quando non esistevano nè governi, nè comuni, nè provincie; quando non c'erano Accademie entro le cui pareti si raccogliessero le speranze migliori dell'arte; quando non c'erano mecenati; quando ancora non eran nate quelle famose lotterie per vendere i rimasugli delle Esposizioni; quando non c'erano negozianti di belle arti; quando, o signori, non esistevano neanche gli americani, poichè a quell'epoca l'America ancora non era stata inventata.

Concludiamo. Ammesso il pittore, abbiam dovuto [67] logicamente ammettere il pittore affamato. Ammesso il pittore affamato, il problema dell'origine del manichino è risoluto.

A me par di vederlo cotesto sventurato inventore. Un giovinotto alto e largo quattro volte me, con una folta capigliatura nera, spiovente sulle sue spalle quadrate con una barbettina a pizzo sul mento. A me par di vederlo, cotesto pittore allupato dell'antichità, con le mani strette nervosamente su la pancia vuota, passeggiare a passi concitati innanzi alla porta del suo studio. Figuratevi che studio! Una capanna immensa costruita coi rami di quegli alberi che ora si vedono verdeggiare soltanto negli scenari delle operette fantastiche. Mi par di vederlo passeggiare e mi par di udirlo bestemmiare in sanscrito, come un turco, perchè il modello da lui fissato non arriva ancora.

«Per gli Iddii immortali!...» è il pittore allupato che parla ed io traduco liberamente; «per gli Iddii immortali! Quel birbante di modello questa non me la doveva fare. È vero che gli son debitore di parecchie lire sanscrite; ma non gli ho io forse promesso di pagarlo ad usura quando il mio quadro otterrà il lauro della vittoria laggiù nella foresta delle sigillarie ove si terrà la prima esposizione mondiale? La stessa cosa ho promessa al padrone di studio, all'oste, al negoziante di colori, al corniciaio, che mi porterà qui fra non molto una bella cornice di felce dorata, e tutti costoro accondiscesero, e come possono si danno moto perchè il mio quadro abbia successo; e tu solo, vile ciociaro dell'Iran, birbante di un modello, tu solo, mentre tutti si danno moto perchè il mio quadro abbia successo, tu solo, mentre tutti si danno moto non [68] vuoi star fermo? Va, sciagurato, anche senza il concorso della tua persona il mio quadro sarà finito ugualmente!». Questo mi par di sentir dire al pittore sanscrita e mi par di vederlo rientrare nel suo studio; mi par di vedergli adattare intorno a un bastone gli indumenti primitivi, che doveva indossare il modello, stringerli con una fune, rannodarli, allargarli, dargli approssimativamente la parvenza di una forma umana, e cominciare poi tranquillamente il lavoro.

Non altrimenti, signori, è nato il manichino. Così.

Però codesto manichino come lo abbiam visto ora uscire dalla fantasia del pittore famelico, non era se non un germe, non era che un embrione del manichino da noi ora conosciuto. Che lungo viaggio ha dovuto egli fare, prima di acquistare quella perfezione di forme, quella gravità di movimenti che lo fa somigliare così bene all'uomo pensante! Quale lunga evoluzione dal pittore affamato che lo intuì, fino a giungere a frate Bartolomeo della Porta da cui egli ebbe l'ultimo tocco!

E, nella lunga evoluzione, nel lungo viaggio molte altre razze di manichini nacquero e si sbandarono qua e là per il mondo, abbandonando il grosso della turba che sempre, sotto ogni stella, seguì la fortuna dell'artista. Alcuni non contenti di somigliare all'uomo per le forme, vollero somigliare all'uomo anche per la parola. E abbandonarono i facili trionfi dell'immobilità, per la difficile arte di Talia, e corsero il mondo empiendo di cose strane con la loro voce ridicola, che vollero dare ad intendere di avere acquistata, le anguste e sudice scene dei teatrucoli di legno. Ma come scontarono amaramente la fregola del parlare e l'ambizione della gloria! Di grandi [69] e forti che erano, divennero piccini, mingherlini, malaticci; abituati alla luce viva dello studio furono costretti a star pigiati, al buio, entro i cassoni dei loro padroni, l'uno sull'altro, come le sardelle; avvezzi alle piene lodi e ai complimenti di quanti li riconoscevano nei quadri dipinti dai professori più illustri, furono obbligati a subire l'ignominia della folla, che gittò loro, ridendo, sul muso ammaccato dai patimenti e dalle sofferenze il nome ingrato di burattini. Altri vollero ricoprire le loro persone di abiti scintillanti d'oro e di porpora; vollero ornare le loro teste di corone gemmate; ma a qual prezzo dovettero acquistare tali ornamenti! Chiusi nelle vetrine dei musei ove non hanno accanto se non mummie, uccelli impagliati, mostri nuotanti nello spirito, oh! come debbono ripensare con dolore all'allegra dimora che abbandonarono! Altri più superbi, chiesero, oltre allo scintillìo delle vesti e al fulgore delle corone, anche l'omaggio e la venerazione, e salirono su gli altari.

Eppure, fra i manichini sbandati, ve ne sono anche dei più disgraziati di costoro. Ricordate, nelle fiere di provincia, quei poveri manichini costretti a servire da bersaglio ai tiratori novellini? Che orrore! E quelli altri che, senza averci nè colpa nè peccato, sono esposti nei gabinetti storici sotto i nomi dei più terribili malfattori, non vi hanno mai intenerito?

Avete mai visitato quei gabinetti?

Fuori, al chiarore rossiccio delle padelle di sego che fumigano, insozzando i tabelloni su cui stanno dipinte storie orribili di sangue, il povero saltimbanco passeggia gridando con la voce rauca dal sonno e dal digiuno: «Non si lascino rincrescere! Dieci centesimi non sono la rovina di una famiglia, [70] nè la morte di un individuo. Favorischino in del nostro gabinetto indovechè noi ci andiamo a mostrare venti e passa assassini uno più interessante dell'altro. Osserveranno il terribile brigante Stoppa, il terribile Falsacappa, il terribile Ninco-Nanco e in ultimo passeranno a osservare il terribile Tropmann. Quest'ultimo lo vedranno, o signori, vita natural vivente, come me, come lui, come voi. Lo vedranno doppo di avere ucciso venti e passa individui fra maschi e femmine nonchè altri delitti ferocissimi, lo vedranno quando la mano della giustizia sta per colpirlo; ma il malfattore si butta in del fiume per salvare col suo proprio noto la sua propria esistenza. Ma la mano della giustizia lo colpisce, la mano della giustizia lo rattrappa, la mano della giustizia lo piglia, lo lega come un Cristo e lo conduce in questo nostro gabinetto, ove noi, o signori, abbiamo l'onore di presentarvelo».

Qualche raro visitatore, gittando i due soldi nel bacile di stagno ammaccato, entra nel gabinetto. I poveri manichini, al chiarore fioco di pochi lumi, stanno allineati su di un tavolaccio sudicio: chi stringe una lama, chi brandisce un'accetta, chi impugna una pistola, chi si stringe al petto un fucilacelo arrugginito. Poveri manichini! costretti là dentro a rappresentare la parte del malfattore e del brigante mentre in fondo poi chi sa che bravi e che onesti manichini saranno.

Vedete: certe volte, riflettendo alle orribili torture alle quali vengono assoggettati, io non vi so dire quanto dolore provi nel pensare come ancora non si sia fondata una società di protezione per i poveri manichini. Ce ne son tante; ce ne potrebbe essere ben una anche per loro.

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Figuratevi! Voi bella e gentile signora quando andate dal vostro guantaio non vi siete mai sentita agghiacciare il sangue nelle vene, al vedere quella mano nera, quella mano rossa, che penzola su l'insegna, pensando a quel povero manichino a cui l'hanno strappata?

E quando passate innanzi alle vetrine dei parrucchieri, non vi siete mai sentita spezzare il cuore nel petto al vedere quelle povere figurine di manichini così belle, così giovani, e già così tanto infelici! costrette a girare eternamente, come un pollo infilzato allo spiedo, fra i vasetti di pomate e di balsami miracolosi? Quelle povere figurine hanno tutte, sul volto dipinto di cinabro, il sorriso; ma quel sorriso che hanno sui labbri non lo hanno nel cuore.

Ma noi abbiamo già troppo a lungo discorso dei manichini che abbandonarono lo studio. Lasciamoli ai loro rimorsi e fermiamoci a parlare del manichino rimasto ognora fedele all'artista nella fausta sorte e nella ria.

Proprio così; poichè, o gentili dame che mi ascoltate, non crediate che nello studio si rida sempre. Nello studio, purtroppo, si succedono talvolta giorni di dolore e di scoraggiamento.

Oh! in quei giorni come è triste quello stanzone che voi, dame gentili, vi figurate sempre come la sede della spensieratezza e dell'allegria! Allora, su l'ampio finestrone, batte assidua la pioggia; nell'aria non s'odono più le vibrazioni sonore della chitarra, di cotesto scacciapensieri dell'artista; sul tavolino i fiori, colti nel prato, diventano un mucchio di erbaccia fradicia; sui quadri la polvere oscura le tinte; sulla tavolozza i colori induriscono, e persino il vecchio [72] orologio si dimentica di battere l'ora del pranzo! Nello stanzone s'ode l'eco d'un picchiettare assiduo, d'un martellare nervoso. È un giovinotto che nelle stanze terrene tormenta, con la punta d'acciaio, il seno bianco di una Venere di marmo. E l'acqua cade sempre sui vetri, attraverso ai quali si disegnano languidamente i colli lontani affondati nella nebbia grigia che ricopre gli orti e i pometi.

Allora, il pittore, solo nello studio, sdraiato sopra un divano ricoperto di stoffe orientali, dai cui angoli escono bioccoli di borra, fumando nella vecchia pipa, che gorgoglia rocamente, mentre il fumo sale, come un nastro, in alto, verso la tela, tesa a celare lo sconcio rincorrersi delle travi, sulla tela ove s'allungano le macchie nerastre dell'acqua, va dietro con la fantasia alle visioni dell'avvenire. A lui appaiono i meriggi assolati e le biade mature sotto l'azzurro purissimo delle giornate di luglio; a lui appaiono le fantasime della gloria che gli porgono con le braccia ignude corone di lauri; tutto quanto v'ha di bello e di lusinghiero appare alla fantasia dell'artista: anche l'esposizione mondiale di Roma! Poi, l'incantesimo cangia, all'azzurro succede il nero e allo sguardo sbarrato del pittore appare un lungo e squallido corridoio, ove si allinea una fila di lettucci; poi un carro nero che va sulla via fangosa fra due filari di cipressi bruni mentre nell'aria muore l'ultimo rintocco dell'Angelus. Allora egli si scuote, gitta sul tavolino ingombro di libri, di versi, di tavolozze, di penne e di pennelli, la pipa spenta e gira lo sguardo in un angolo dello studio, ove il manichino sta impassibile ad osservare. Oh! allora chi mi sa dire i muti colloqui che avvengono fra il manichino e l'artista?

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Chi mi sa dire tutto ciò che egli in quei momenti confida al suo fedele compagno?

Ma il manichino non parla.

Guai se così non fosse.

E che direste voi se un manichino indiscreto e ciarliero, vi venisse a raccontare gli amori di un professore bianco per antico pelo con una gentile modella dalle trecce nere cadenti voluttuosamente sulla stoffa di un cuscino giallastro, e se venisse a raccontarvi le pose, i gesti, i corrugamenti di ciglia di un artista innanzi allo specchio, per istudiare un discorso da improvvisarsi più tardi in un Circolo artistico, in un Congresso artistico o innanzi a una bara bagnata di lagrime e ricoperta di fiori? Ma il manichino è discreto, il manichino non parla.

Ma sapete che scenette deliziose avverrebbero se il manichino parlasse!

Per esempio, incontrate per via un artista, e voi naturalmente fermandolo gli domandate: — Come va?

— Benone! — vi risponde lui tirandosi i peli radi della barbetta mefistofelica.

— Che fai?

— Lavoro.

— E il quadro?

— Quello piccolo? L'ho venduto.

— E quello grande?

— Ah, quello grande non ci penso neppure a venderlo.

— Come? Non pensi a venderlo?

— No; perchè quello grande l'ho fatto per me. Ho venduto il piccino a un americano per ventimila lire. È poco, lo so; ma glie l'ho dato perchè la galleria in cui sarà esposto è una galleria di primo ordine; ci sono Meissonier, Gérome, Laurens, Makart. Via, si [74] sta in buona compagnia. D'altronde, anche ventimila lire per un quadrettino non sono poche: capisco ciò che vuoi dirmi; ma, sai, i tempi sono cattivi...

— Davvero. Guarda, giusto ora sta per piovere, ciao!

Che direste se il manichino di quel pittore vi venisse a rivelare che il quadro venduto all'americano per ventimila lire, invece di stare esposto nella galleria di New York, sta sepolto in un armadio, nello studio, preda dei topi e delle tignuole?

E che direste se, per esempio, vedendo passare un professore serio serio, impettito nell'abito nero, superbo del suo cappello a cilindro lucente tra la folla dei cappellini a cencio, coi nastri delle commende all'occhiello; che direste se un manichino vi venisse a dire, come lui quel professore lo abbia conosciuto quando, con la camicia che gli usciva dalle maniche rotte della giacca, urlava contro le Accademie, e quando, non potendo altrimenti dileggiare quelle istituzioni, di cui ora è orgoglioso di far parte, chiamava il suo cane col titolo di professore?

Ma il manichino, signori, è discreto, il manichino non parla. Ed è per questo che, quando la porta dello studio non s'apre ai colpi reiterati delle amiche e degli amici egli sta nello studio. Sta nello studio perchè non dirà a nessuno se una macchina fotografica prese il posto della tela sul cavalletto; nè farà sapere a nessuno se un quadro sarà accarezzato da un pennello e firmato da un altro.

Però, o signori, non tutti i manichini sono manichini, e come tra gli uomini così anche fra i loro ve ne sono di quelli che disonorano la loro razza.

Costoro hanno vita dolorosissima: randagi d'indole, vanno vagando senza posa da questo a quello [75] studio; feroci e maneschi, sovente attaccano briga con l'artista, e non giovano cure e castighi per farli uscire da quella via di perdizione.

Io ne ho conosciuto uno di cotesti sciagurati. Che brutta figura! Scommetto che se l'aveste incontrato per via, gli avreste dato l'orologio e il portafogli, purchè vi avesse lasciata salva la vita. Aveva sul muso i tratti caratteristici del delitto, così bene marcati che io son certo che se il professore Lombroso lo avesse visto, non dico tastato, lo avrebbe giudicato come il prototipo del manichino delinquente. Di star fermo, non volea saperne. Vi lasciava incominciare un lavoro; poi, quando vi vedeva a lavoro inoltrato, crac, faceva un movimento brusco e addio pieghe, addio lavoro.

Lo mettevate ritto nella posa del guerriero che ritorna vincitore? Dopo cinque minuti, il guerriero vincitore si metteva a sedere. Lo atteggiavate seduto, nella posa del Tasso, che declama i suoi versi alla sorella del duca di Ferrara? Dopo aver letto appena due ottave Torquato Tasso si gettava in terra. Lo mettevate seduto in terra, nella posa dell'onesto agricoltore, che si riposa dalla fatica lunga della giornata o nella posa del gladiatore moribondo? Dopo pochi istanti, l'onesto agricoltore si stendeva lungo sul pavimento a dormire e il gladiatore moribondo era morto. Io ho visto, signori, dei pittori perdere la pazienza, afferrare un bastone e suonar giù botte da orbi. Come dire al muro!

A un pittore, che gli assestò un colpo di bastone sul cranio spelato, egli rispose gittandosi vigliaccamente per terra e allungandogli con la gamba legnosa un calcio sul volto che, se lo pigliava in pieno, lo spediva al Creatore.

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Pure, io non li odio cotesti poveri manichini degenerati, perchè penso che il loro pervertimento è causato dall'organismo loro e dalla loro costruzione, e ripeto con Seneca: Fatis agimur cedite fatis!

Del resto, se vi sono manichini delinquenti e perversi, oh! infinito è il numero di quelli buoni, fedeli, incapaci di recare il più piccolo danno ai loro padroni.

Una notte, i ladri salirono in uno studio per rubare. Al chiarore freddo della luna, che battendo sui vetri del finestrone illuminava languidamente la stanza, videro in fondo ad essa un antico romano che vegliava, e fuggirono. Signori, quell'antico romano che vegliava, era un manichino.

Potrei citare centinaia di fatti comprovanti la bontà d'animo, il coraggio e le rare doti del manichino; ma non voglio dilungarmi troppo, e ne citerò uno solo rimasto pietosamente scolpito nella memoria di quanti ne furono testimoni. Nel dicembre del milleottocentosettanta, quando il Tevere dilagando per le vie di Roma fu cagione di tante sventure, uno scultore era restato chiuso dalle acque nel suo studio.

La via Flaminia era allagata; e il fiume trasportando alberi divelti dalle lontane campagne, carogne di buoi e di pecore, e frantumi di capanne urtava schiumando su gli stipiti marmorei della Porta del Popolo.

Lo scultore, spintovi dall'incessante salire delle acque, era già salito a sua volta sopra un armadio, e stava aspettando angosciosamente la morte, quando udì venire dalla prima stanza del suo studio un rumore come di qualche persona che si avvicinasse. Gridò. Nessuno rispose. Ma quando una più forte ondata entrò nella camera, spalancando mezza imposta [77] dell'uscio, egli vide il suo manichino, nuotante placidamente, avvicinarsi a lui con le braccia levate e con le labbra sorridenti. Un urlo di gioia, come non si era mai più udito l'eguale, da quando i naufraghi della Medusa videro su l'infinito mare biancheggiare una vela, risuonò nello studio, e poco dopo le turbe invocanti il soccorso dai tetti delle case di via Flaminia, videro lo scultore e il manichino abbracciati strettamente, galleggiare sicuri su la furiosa fiumana.

Povero manichino! per opera sua lo scultore fu conservato all'onore dell'arte e alla speranza dei creditori; ma lui morì fradicio. E la sua lunga agonia non fu neanche confortata da un cenciolino di medaglia al valore civile!

Ed ora dirigo la mia parola agli artisti.

Vedete: se il manichino qualche volta non fa quanto gli domandate, non è che ci metta della cattiva volontà; è proprio perchè non può. Dovete anzi pensare che non v'ha cosa meglio maneggevole di lui; anzi, questa volta proprio si può dire che potete girarvelo come meglio vi talenta e accomodarvelo come meglio vi piace. Certo, però, che vi abbisogna un pochino di pazienza e anche un pochino d'occhio; perchè, è uno sbaglio il credere che tutti i manichini possano essere capaci delle stesse azioni.

Ve ne sono alcuni di forte e solida costruzione, che sdegnano di ornare la loro persona coi rasi e coi broccatelli del secolo scorso. Ve ne sono altri a cui si richiede invano di chiudere il loro esile torace nella corazza brunita del medio evo. Ve n'ha di quelli che amano la posa eroica e di quelli che [78] prediligono la posa umile. Ve ne sono moltissimi che non possono posare se non seduti mollemente sui morbidi cuscini dei ricchi e malinconici sedioni medioevali.

È vero, pur troppo, che esistono manichini senza carattere, sempre disposti a posare indifferentemente e per Dio e pel Diavolo, per san Michele Arcangelo e per quello che gli sta sotto. Ma se vi sono manichini di questo stampo, non sono tutti così: se ne trovano anche di quelli che hanno un carattere, una fede, una coscienza: e i secondi sono di gran lunga più numerosi dei primi.

Alle volte non potete immaginare a quali torture si assoggettino i poveri manichini, costretti dai loro padroni a raffigurare cose e persone da essi odiate, da essi non sentite. Io ho conosciuto un valente acquarellista che volle costringere il suo manichino a posargli nientemeno che da tomba di Cecilia Metella e da acquedotto della campagna romana, e il poveretto piegò la sua persona a raffigurare quei bruni ruderi della civiltà latina; ma quali spasimi, quali dolori non deve aver provato quel povero manichino?

Io non conosco pena maggiore di quella di veder soffrire un povero manichino.

Egli è là, nella posa da lui non sentita, e non amata; è là muto, con gli occhi sbarrati, con la faccia pallida, con le dita nervosamente contratte, e soffre in silenzio senza mandare un lamento; solo di tanto in tanto s'ode uno scricchiolìo. Il pittore si stizzisce ed egli sgranchite le giunture ritorna immobile. Chi sa mai quali torture affliggono quella testa di legno? Chi può dire quali tristi pensieri passino, s'affollino in quella figura all'apparenza così calma [79] e paziente? Chi sa quanti poveri manichini, malati, cagionevoli di salute... Già, poichè, non crediate, o signori, che il manichino non abbia anch'egli le sue malattie. Ne ha due fierissime: la calvizie e la debolezza.

La prima è incurabile, però non è mortale; la seconda è mortale, ma per compenso la si può curare facilmente. Il rimedio a codesto male, voglio dire alla debolezza, è il medesimo oggidì tanto in voga. Ma non crediate che il manichino se ne serva ora solo che viene indicato su le quarte pagine come la panacea universale. Quando il ferro, o signori, non era ancora conosciuto come efficacissimo rimedio, egli lo aveva già da lungo tempo nelle sue medicine. E bisogna vedere, quali effetti miracolosi produca il ferro negli organismi malati dei manichini. Io, o signori, ne ho visti alcuni infermi al punto da non reggersi sui piedi, io li ho visti, subito dopo aver ingoiato un palo di ferro, risorgere forti e robusti come per miracolo.

E bisogna vedere con quale stoicismo essi si assoggettano alle più difficili operazioni!

A un povero manichino s'era infradiciato l'omero. Rimasto abbandonato per parecchio tempo in una cantina, l'umidità gli aveva intaccato i tessuti e minacciava di incancrenirgli il torace.

Fu deciso di segargli il braccio.

Cosa incredibile! Durante la difficile e dolorosissima operazione non un lamento uscì dalla sua bocca, non uno sguardo doloroso contristò la sua faccia serena. E notate che non si era adoperato neanche il cloroformio!

[80]

Signore, Signori,

Il tempo fugge e già che, fortunatamente per voi, siamo ormai vicini al termine di questa mia chiacchierata, permettetemi di enumerarvi talune di quelle opere alle quali il manichino si gloria di aver dato origine.

Nelle arti belle, quando non sono brutte, egli ha ispirato quadri e statue in grandissimo numero, sì che sarebbe impossibile il contarle.

Nell'arte dei capperi ha ispirato al maestro Fétis «Il Manichino di Bergamo», un'opera comica di grande interesse nella storia del melodramma, perchè il suo autore scrivendola tentò per la prima volta di introdurre sul palcoscenico brani di musica scritti in note e parole. Nel campo letterario ha dato il modo a Guglielmo Teodoro Hoffmann, il simpatico narratore di istorie incredibili, di scrivere una delle sue più belle pagine raccontando l'amore ardente di uno studente di Gottinga per un manichino. Sulla scena di prosa il manichino ha avuto anche i suoi trionfi. Vi sovviene della farsa deliziosa «Il modello di legno?» Nella poesia egli ha pagine splendide e pagine sublimi e pietose ha nella forte e sana letteratura popolare. Ricordate la dolorosa e commovente istoria di quel povero pittore, il quale «per dispiaceri amorosi e anche più per l'esposizione, muore barbaramente suicidandosi con le sue proprie mani»?

Ve la dirò dal principio:

V'era un giovin di buona famiglia

Il quale, Peppino nomato

Che all'età di vent'anni arrivato

Si decise di fare il pittor.

[81]

La famiglia sua propria e i parenti

Gli dicevano no ad ogni costo;

Ma Peppino fuggì di nascosto,

Per studiare soletto da sè.

Era il tempo dell'anno passato

Quando v'era la gran discussione

Sul palazzo dell'esposizione

Che a novembre s'aveva da aprir.

Ma che invece per molte ragioni,

E anche più, perchè ancora quel sito

A novembre non era finito.

Si decise di aprirlo più in là.

E Peppino pensato il suo quadro

Ch'è la morte del conte Ugolino

Lo dipinse e al suo proprio destino

Lo mandava nell'esposizion.

Ma in quel tempo s'infiamma d'amore

D'una vaga, gentil damigella,

Che faceva il mestier di modella

E la volse per forza sposar.

Da principio fu sempre fedele

A Peppino la vaga sua sposa,

Ma più lardi poi fu un'altra cosa;

Sciagurata! Lo volse tradir.

Chè di lui un amico sincero,

Che fu poi un gran traditore,

Pria gli tolse la pace e l'onore,

Poi fu causa di gran crudeltà.

Ma intanto si apre il palazzo

Con le opere all'esposizione.

Interviene la gran commissione

Con i corpi dell'autorità.

E la morte del conte Ugolino

Vien da tutti i giornali lodato.

Il gran premio gli vien decretato,

Ma nessuno lo vole comprar.

[82]

Ma la sera in cui stava al quint'ordine

Dell'Apollo, nel mese passato,

Col biglietto d'onor d'invitato,

Viene e bussa il suo fido portier.

E gli reca un tremendo dispaccio,

Dove lui vi rompe il sigillo.

Cade in terra facendo uno strillo,

Che anche i sassi ne senton pietà.

Quando s'alza che torna in sè stesso

Corre a casa e che trova? La moglie

Che gridando fra orribili doglie

Di due figli lo fa genitor.

Lui li prende e li guarda i visetti

E li vede che sono il ritratto

Di colui che compiva il misfatto

Di quel vile del suo traditor.

E fu allora che ai gran dispiaceri

Del suo quadro, nonchè la consorte,

Lui decide di darsi la morte

Suicidando se stesso da sè.

E impugnato un tubetto di biacca.

Lo sorbiva piangendo, e tapino

Ed in braccio del suo manichino

Lui moriva fra grandi dolor.

Signore e Signori,

Nei secoli venturi molte cose nuove compariranno nel mondo, moltissime altre dilegueranno; ma il manichino, o signori, non potrà mai perire perchè sta troppo saldamente piantato su due basi, dalle quali nessuna forza umana lo potrà mai rovesciare: sull'economia e sulla morale. Sull'economia? Eh! Dio buono, finchè il mondo sarà mondo, esisteranno [83] pittori; finchè vi saranno pittori, siatene certi, vi saranno sempre pittori affamati, e fino a che vi saranno pittori affamati vi sarà il manichino. Sulla morale? Eh, lo so bene che verranno tempi in cui i procaci atteggiamenti degli ignudi dei modelli e delle modelle che non son sempre modelle di virtù, pervertiranno i popoli; e allora il manichino si allontanerà in volontario esilio; ma quando gli uomini e, forse, le donne torneranno a chiedere nei quadri e nelle statue i concetti seri e pensati e la nota classica, allora egli ricomparirà a domandare il suo posto. Allora la folla delle damine che si raccattano il gonnellino, la processione dei conti e delle contessine, l'esercito dei cavalieri della rosa e dei moschettieri che fumano la pipa, che si arricciano i mustacchi e che alzano il bicchiere, gli sciami languidi e dinoccolati degli incroyables e delle merveilleuses fuggiranno, con le loro smorfie e i loro sdilinquimenti, e il manichino avvolto nelle rigide pieghe del suo mantello ricomparirà vittorioso. E, spazzato via tutto quel ciarpame di velluti, di rasi e di sete, di nastri, di frange e di trine, sarà lui, il manichino, che si pianterà fiero e gagliardo sulle travi rotte e cadenti del ponte Sublicio a rattenere l'impeto delle orde etrusche invadenti l'antica Roma; sarà lui che si coprirà il capo ordinando che i suoi figliuoli sien tratti al supplizio; sarà lui che stenderà il braccio sui carboni ardenti, innanzi alla faccia barbuta del re Porsenna; sarà lui che, avvolgendosi nella toga bianca, cadendo trafitto a morte in Senato sotto la statua di Pompeo, esclamerà dolorosamente con l'eloquenza del gesto: — Tu quoque Brute, fili mi: sarà lui infine che, ramingo per le terre d'Italia, cieco e vecchio, andrà supplicando la pietà dei passanti, mormorando [84] col gesto triste: Date obolum Belisario! E quando sulle rovine dei bassi tempi sorgerà il gentil fiore azzurro dell'ideale, sarà lui, il manichino, che ritornerà di Terra Santa a cavallo d'un caval a riabbracciare la sua donna che lo attese per ben sette anni sul verone del maniero avito. Lui scenderà cinto di maglia nel torneo di Tolosa, e galopperà su un leardo pomellato, con la salda lancia in resta; lui, col liuto su la schiena, cacciato in bando, s'aggirerà solingo e pensoso nella selva bruna, fuggendo ogni chiaror fuor che la luna! Lui, infine, salirà trepidante, fra il fogliame verde scuro dell'edera, sopra il veron di gotica torretta, e lassù si stringerà al petto la castellana infedele, mentre la scaletta di seta oscillerà lievemente, nel bujo, baciata dalla tepida e dolce aura notturna!

E poi, o signori, dalla scimmia non dirò che ci siate venuti voi; ma io ci son venuto di certo. Chi potrà dire che cosa verrà dal manichino?

Forse nelle lontane epoche dell'avvenire, egli saprà rimediare al malanno che ora lo affligge, la calvizie, e saprà ornare di una bella barbettina bionda le sue gote pallide. Forse allora, egli avrà non più nelle vuote orbite due punti neri inanimati; ma due lucenti e mobili occhi, e nel suo corpo batterà un cuore ove pulseranno onde purissime di sangue. Sarà bene? Non lo credo.

Ah, meglio il manichino di legno che il manichino di carne e d'ossa!

Il manichino di legno non vi secca con la sua parola sciocca e vanesia, non vi annoia, per divertirvi, zufolandovi all'orecchio le ariette e le frasi udite ai concerti e nei teatri, non vi infastidisce ripetendovi le discussioni politiche da lui udite fra il fumo dei [85] sigari, su le panche dei caffè, non vi punge con gli spilli della maldicenza, non vi scaglia nella schiena la freccia avvelenata della calunnia, non viene ad ammirare i vostri quadri per poi andare a sparlare delle opere vostre, non penetra amicamente nei vostri studii a rubarvi i bozzetti. Oh, meglio, meglio il manichino di legno, credete. Pure, la trasformazione si compirà, e sarà ancora una volta provato l'assioma della dottrina darwiniana sulla evoluzione, così detta, perfettiva degli esseri. Verrà un giorno in cui anche i manichini si agiteranno a chiedere diritti e guarentigie, a vociare discorsi e a unirsi in falange compatta e ordinata per soverchiare le prepotenti forze degli umani. In quel giorno il pittore sarà costretto dal suo manichino a posargli da modello. Forse allora i manichini invaderanno i pubblici uffici, le università, il parlamento, il senato, la reggia; e andranno a scacciare dalle cattedre delle Accademie di belle arti i professori, per diventare essi professori a loro volta. Il più onestamente mite si limiterà a chiedere il grado di sottotenente nella milizia territoriale. I più irrequieti chiederanno di far parte del Circolo artistico, e uno di costoro, acclamato dal plauso unanime, seduto sul seggio presidenziale avrà l'onore di governare le legioni artistiche.

Forse uno di loro chiederà al consiglio direttivo il permesso di annoiare il prossimo suo e terrà un corso di conferenze nella maggior sala dell'Associazione. E, quel manichino riconoscente, inizierà la serie tenendo una conferenza su questo bel soggetto: «Cesare Pascarella».

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