Il Modello

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Mario, quand'io lo conobbi, era un povero vecchio tutto ossa e pelle, con una barba bianca bianca, che gli cadeva sul petto, e con una lunga zazzera che scendendogli come una pioggia di fili d'argento su le spalle, gli copriva quasi la metà d'una giacca di velluto marrone, deturpata e rosicata dagli anni.

Al Vicoletto della Scalaccia, ove andava a dormire in un cortiletto umido e nero, lo chiamavano er mago: e le comari del vicinato al vederlo gli andavano incontro ridendo e gli chiedevano tre numeri sicuri. Egli si schermiva come meglio poteva, s'afferrava con le mani scarne la barba, e scuotendo la testa si allontanava brontolando: — L'arte è ita! L'arte è ita! E qualche volta soggiungeva: — Mo Mario è vecchio! Che ve ne fate? Buttatelo a fiume!

Povero Mario! Allora l'arte nun era ita, nè egli pensava alla vecchiaja e alle bionde acque del Tevere, quando all'Accademia di belle arti, gonfiava, fra l'ammirazione degli artisti, i muscoli dell'ampio torace piegando la persona a raffigurare il Gallo moribondo o il Discobulo, l'Orazio ar ponte o il Muzio Scevola all'ara. Allora l'arte nun era ita, quando egli andava di corsa su pe' le spallette d'Acquacetosa pe' mantenesse sciorta la muscolatura, e saliva al museo del Campidoglio p'annà' a vede' come camminaveno e come se moveveno l'antichi romani. Perchè egli allora, [42] e lo diceva a voce alta, non era adatto a tenere azioni da imbecille: ma azioni da potè' dà' er movimento a la vita e a la storia. Allora! Ma quando io lo conobbi, il vecchio modello affogato sino agli occhi nella miseria, de li tempi antichi se ne ricordava soltanto se qualche volta passava sotto i finestroni della sala del nudo, dell'Accademia e se poteva avvicinare qualche studente per parlargli di amori russi e di Padreterni in gloria, d'eroi del mondo greco e romano e di tanti artisti ai quali lui, proprio lui, aveva dato il mezzo di divenir celebri. E si doveva rider di cuore a sentirgli raccontare come una volta a uno straniero che voleva farlo posare da Giuda avesse risposto: — Musiù, 'sta faccia nun è faccia da traditore! — Ed era proprio una cosa pietosa il sentir dire da quel povero vecchio affamato com'egli avesse più volte acconsentito a posar da modello a un giovanotto che non poteva pagarlo, solo contento d'aver aiutato uno che un giorno sarebbe diventato un pezzo grosso dell'arte.

* * *

Mario, quand'era ancora giovanissimo, faceva il taglialegna.

Un giorno, stanco dalla fatica lunga, s'era buttato in terra e s'era addormentato al sole. Con la testa abbandonata all'indietro, saldamente piantata su d'un collo taurino, egli sembrava in quell'atto un gladiatore che si riposasse dalle fatiche del circo.

Un pittore, che per caso si trovò a passare, rimase colpito dalla maschia beltà del dormiente; s'avvicinò a lui; lo risvegliò e gli chiese se voleva posargli da modello.

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Il giovinotto rimase un po' con gli occhi sbarrati a guardare curiosamente l'artista, senza capir nulla; ma alla fine sorrise e accettò; e l'indomani salì a via Sistina allo studio del pittore. Questi, ritto su di una scaletta, riproduceva col carbone sopra una tela ampissima e già piena di figure abbozzate, il contorno di una fanciulla, che stava in mezzo alla stanza, immobile come una statua. Ella era seminuda e i capelli neri ornati da alcuni ramoscelli d'edera le cadevano su le spalle bianche e sul seno: reggeva con la sinistra la pelle di una tigre, morta chi sa da quanto tempo, e con la destra levava in alto una tazza di legno dorato. Accanto a lei una vecchia ciociara faceva la calza.

Come il pittore vide il taglialegna, che appena entrato nello studio s'era fermato col cappello in mano, scese subito dalla scaletta, e dopo di aver detto alla fanciulla: — Vestitevi! — si avvicinò al giovinotto e gli disse: — Spogliatevi!

Mario divenne di bragia e non si mosse.

— Coraggio! — riprese, sorridendo, l'artista, e allora il giovinotto, mentre la fanciulla e la vecchia lo guardavano e ridevano, si levò lentamente di dosso la giacca; poi si tolse il corpetto; poi con un gesto energico si liberò dalla camicia e rimase col torso ignudo dinanzi al pittore.

* * *

Dopo qualche settimana lo spaccalegna non trovava il tempo per soddisfare tutti gli artisti che desideravano di disegnare, dipingere o scolpire la sua persona; e i professori dell'Accademia, quando alla fine [44] dell'anno scolastico dovettero eleggere il modello da dare agli studenti dell'ultimo corso come soggetto per lo studio del nudo, fra quanti modelli si presentarono, scelsero Mario, e gli dettero per tema della posa l'azione del Combattente; ed egli la creò fra l'ammirazione unanime e la sostenne per quattro ore di seguito senza muoversi di una linea: un miracolo! Ma un bel giorno, mentre tutti gli artisti si disputavano l'intelligente modello, questi sparì da Roma. Nelle sale dell'Accademia, negli studii di scultura e specialmente in quelli di pittura se ne dissero di ogni colore. Qualcheduno arrivò perfino a raccontare come un altro modello, ingelosito dei successi del suo collega, lo avesse strangolato e gettato in un pozzo; altri strizzando gli occhi sussurrarono il nome di una signora polacca; molti, invece, giurarono che Mario se l'era portato via un signore russo, il quale, oltre all'avere molti milioni, aveva un culto anche per le belle arti.

Quasi tutti avevano dimenticato la strana avventura quando arrivò a Roma un bell'uomo con barba grigia e le dita piene di anelli, il quale, fumando sigari dell'Avana in un enorme bocchino d'ambra, andava visitando gli studii per acquistar quadri. Alcuni affermarono, non so con quanta ragione, che quell'amatore che parlava malamente il francese, scusandosi col dire che in Russia si parlava così, fosse Mario, non altri che Mario. Anzi i più arditi osarono di chiedere direttamente a lui che veniva da Pietroburgo notizia di un certo modello che doveva laggiù menar vita da gran signore; ma il mecenate rispose di non averlo mai conosciuto. — D'altronde — aveva soggiunto alzando le spalle e sorridendo — la Russia è tanto grande!

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* * *

Ma in sul morir dell'autunno del settantasette, Mario, il vero Mario, tornò in Roma, e siccome vi fece ritorno con le tasche quasi vuote, invecchiato e pieno di malanni, nessuno s'occupò di lui.

Fino a quando potè farlo frequentò un'osteria ove i modelli andavano a giuocarsi, alle carte, i guadagni della giornata; e quando i quattrini finirono, si trascinò all'Accademia e chiese lavoro.

— Fatevi rivedere fra una settimana. — gli dissero. Egli si fece rivedere e fu fermato per una azione.

Il vecchio modello, che era stato là dentro, giovane e forte, provò come un senso di vergogna nel doversi spogliare; ma si spogliò; entrò nella sala piena di studenti, salì sul palco, incrociò le braccia sul petto ed aspettò che lo mettessero in posa.

— Provate! — gli gridarono dai banchi.

A quell'invito egli si sentì affluire il sangue in faccia; per un attimo un'onda di gioventù gli circolò nelle vene, e volle tentare l'azione del Combattente: protese il petto in avanti, strinse le pugna, e stralunando gli occhi, restò immobile. Tutti risero al vedere la figura contorta e grottesca del povero vecchio.

Mario si appoggiò al muro per riposarsi da quella fatica divenuta immane per lui, poi, col petto ansante, tornò innanzi e provò l'azione del Discobulo e poi tentò di provare anche quella del Gladiatore.

Giù nei banchi si rideva sempre e qualcuno borbottava che non era possibile di studiare con simili atteggiamenti. Alla fine un professore si fece avanti; [46] mise il vecchio ritto, stecchito, con le mani ciondoloni e se ne andò scotendo il capo.

— Signori, la posa è messa. — gridò una voce, e gli studenti cominciarono a lavorare di mala voglia.

Il disgraziato non sapeva capire perchè l'azione da cui aveva avuto la fama, ora non piacesse più, e sentiva delle vampate di fuoco salirgli su la faccia, gli girava il capo, la luce che gli pioveva ne gli occhi l'accecava, fece un passo indietro e cadde come un cencio. Lo portarono via e qualche studente, dando un frego sul disegno, del quale non era riuscito a metter giù l'insieme, disse che era un'indecenza il far posare un vecchio di quell'età: un vecchio manierato e scimunito che non sapeva nemmeno alzare le braccia.

Il giorno dopo egli tornò all'Accademia per continuare la posa; gli diedero qualche soldo e lo licenziarono, e un inserviente molto intelligente e caritatevole gli spiegò che l'arte non era più quella di una volta; che i professori antichi non c'erano più e che allora si volevano modelli veri.

Ma, dunque io so' finto? — ruggì lo sciagurato afferrandosi con le mani ossute la barba bianca.

L'inserviente rise alle parole del vecchio; ma lo accompagnò ugualmente alla porta.

Mario allora girandolò di qua e di là per gli studii a mendicare qualche ora di lavoro, ma tranne qualche breve posa, nello studio di un professore conosciuto col nomignolo d'indiano perchè mandava nelle Indie i suoi quadri raffiguranti per lo più martirii di missionari, e tranne qualche seduta nella soffitta di un giovinotto che modellava per commissione del municipio del suo paese natale un busto di Garibaldi, non trovò altro.

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* * *

Passò ancora qualche anno.

Verso la fine dell'ottantacinque, in una rigida mattina piovosa, gli studenti dell'ultimo corso dell'Accademia di belle arti, aspettando che il modello dopo il consueto riposo tornasse sul palco per continuare l'azione, avevano abbandonata la sala del nudo sparpagliandosi per i corridoi pieni di statue di gesso che mettevano freddo a guardarle. Molti s'erano già aggruppati intorno a una stufa di ghisa il cui condotto fumigante si arrampicava in mezzo a una parete bianca fra molte riproduzioni di disegni dei grandi maestri, quando alcuni studenti, i quali passeggiavano con le mani in tasca, avendo visto un loro compagno immerso nella lettura di un giornale gli si accostarono e gli chiesero che cosa stesse leggendo.

— La storia di un modello, che si butta a fiume! — rispose lo studente.

— L'hai scritta tu? — gli dimandò uno, ridendo.

L'altro non rispose; e, succhiando la cannuccia di una pipetta di radica che egli aveva fra le labbra, rimise gli occhi sul giornale.

— Leggi forte! esclamò qualcuno. E tutti quelli che gli si erano avvicinati, non ignorando come il loro compagno, oltre al sapersi sporcare le mani coi colori e talvolta con l'inchiostro, sapesse anche leggere assai bene, gli si strinsero addosso esortandolo a cominciare la lettura.

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— Ma è troppo lunga! — osservò lo studente, mostrando il giornale.

— E che importa? Lèggine un pezzo. Tira via!

— E quale?

— Quello che vuoi.

Egli allora, lusingato dalle richieste insistenti dei suoi compagni sorrise, e, prima di mettersi a fare il cantastorie ci pensò un momento; ma poi si avvicinò alla stufa, vi battè sopra leggermente la pipetta per farne uscire la cenere, narrò in succinto quanto aveva letto dianzi, chinò la testa sul giornale e cominciò con voce sonora: — «Spintovi dalla fame un giorno tornò all'Accademia...».

— Chi? — interruppe uno arrivato allora.

— Zitto! — gridarono tutti volgendosi verso l'interruttore e facendogli cenno di tacere: e uno soggiunse a voce alta: — Si tratta di un modello che si butta a fiume! Silenzio!

Il lettore tentennò il capo e, pronunciando lentamente le parole, ricominciò: — «Spintovi dalla fame un giorno tornò all'Accademia e ne fu scacciato». — E dopo una breve pausa riprese: — «Allora il povero vecchio, appoggiandosi a un bastone, si trascinò fin sulla piazza dell'Aracoeli dove egli era solito di passare gran parte delle sue dolorose giornate. Colà...».

— Silenzio! — esclamarono anche una volta tutti insieme gli studenti e, voltando le teste, videro un professore che si avvicinava parlando con un usciere.

— Che cosa state a fare? — chiese il maestro, il quale infiorando, di solito, il suo insegnamento con molte barzellette era assai stimato dai suoi scolari.

— Stiamo a sentire la storia di un disgraziato. — gli risposero.

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— Si tratta di un modello che si butta a fiume!

— tornò a dire la solita voce; ma questa volta sigillando le parole con un sospiro profondo.

— Ci si butta? Dunque vuol dire che non ci si è ancora buttato?

— Non ancora; ma siamo lì!

— Allora corro ad avvertire la Società degli asfittici! — esclamò il professore; e, allontanandosi in fretta con le mani nei capelli svolazzanti, aggiunse:

— Forse arriviamo in tempo!

Dopo una risata doverosa tutti si volsero verso il lettore dicendogli: — Vai avanti! — Ed egli aspettò che tutti si quietassero e, come vide che tutti lo guardavano in silenzio con le orecchie intente, riprese: — «Colà si sdrajò su uno dei primi gradini della grande scalinata della chiesa e s'addormentò. Quando riaperse gli occhi dall'alto della torre capitolina, dorata dagli ultimi raggi del sole cadevano sulla piazza i rintocchi di una campana. Il vecchio all'udire quel suono che prima di spegnersi ondeggiava gravemente nell'aria fredda si alzò e, scorgendo sulla cima della cordonata le statue colossali dei Dioscuri su le quali l'ombra già cominciava a salire, si ricordò di Marco Aurelio, e avvicinatosi a una delle balaustrate, dietro a cui fra il fogliame bruno dei ligustri cinguettavano i passeri, vi si appoggiò tentando di trascinarsi sulla piazza michelangiolesca; ma dopo pochi passi dovette fermarsi: le gambe gli tremavano. Tornò indietro ansimando e raccolta nel cavo delle mani un po' d'acqua gelida che dalla bocca di un leone di basalto cadeva in una conca di travertino la bebbe avidamente. Poi, dopo di aver guardato ancora la torre ormai fiammeggiante di sole soltanto nel vertice, e di aver abbassato [50] anche una volta gli occhi velati dalle lagrime sulla cordonata, su quella cordonata dove egli in gioventù era passato tante volte correndo per andare a contemplare nel museo capitolino quelle statue, delle quali egli soleva con la sua bella persona imitare gli atteggiamenti, discese adagio adagio nella via angusta e solitaria di Torre degli Specchi, ove qualche lampione già acceso mandava un po' di luce giallognola su le mura squallide di un antico monastero; attraversò la piazza Montanara, e arrivò alla discesa di Monte Savello».

«Quivi alcuni robivecchi che uscivano, cantando a squarciagola, da una osteria lo presero a dileggiare: uno di loro gli mise le mani addosso e lo spinse su le pietre nere di un portone enorme, bagnate di liquido immondo, e un altro aprendo la bocca di un sacco gli andò incontro sghignazzando e dicendogli di volercelo mettere dentro. Il vecchio lo schivò; ma non s'era chinato per raccogliere un sasso, che una ciabatta lanciatagli alle spalle da uno di quei bruti gli portò via il cappello. Allora quanto più presto egli potè farlo si allontanò e, mentre gli ubriachi gonfiando le gote barbute e ponendosi le mani sudice sulle labbra congiunte e contratte continuavano a perseguitarlo con suoni osceni e scurrili, entrò nel ponte Fabricio»...

— Cioè? — chiese uno.

— Ponte Quattro Capi!... Ignorante! — gli rispose un altro.

Tutti sorrisero; e il lettore, dopo un gesto d'impazienza, riprese: — «... entrò nel ponte Fabricio, dove stremato di forze si appoggiò a un'erma quadrifronte, e abbassato il capo ignudo e canuto rimase a guardare il Tevere giallo e melmoso. Dopo qualche [51] istante gli parve che il fiume si fermasse e il ponte incominciasse a muoversi e, sentendosi soffocato da un senso penoso di nausea, chiuse gli occhi; ma appena li riaperse gli sembrò che il moto del ponte si accelerasse e che questo, correndo sempre più veloce sulle acque immobili lo portasse verso un punto lontano lontano dell'orizzonte ove, sopra una linea di casipole brune, interrotta da qualche cupola e da qualche torre, moriva a poco a poco l'ultima luce del giorno.

Allora il povero vecchio fu vinto dalla vertigine; si aggrappò con le mani tremanti al parapetto del ponte; vi strisciò sopra e scomparve».

Gli applausi che avevano salutata la fine della dolorosa e commovente storia del vecchio modello, letta con tanto garbo dal giovine aedo, non s'erano ancora spenti, quando dal fondo del corridoio bianco, uscì fuori un bidello nero, assai grave d'anni, col berretto grave d'anni anch'esso, ma gallonato d'oro.

Al vedere il veglio onesto, degno di tanta riverenza in vista, che fermatosi sotto una delle statue di gesso aveva preso a battere le mani come se proprio volesse dire: — Qual negligenza, quale stare è questo? — gli studenti lasciarono il corridoio, rientrarono nella grande sala, ove sul palco era già risalito il modello (un giovane ignudo, alto, forte e bellissimo), ripresero i loro posti e ricominciarono a disegnare in silenzio.

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