V.

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Il sentiero che da Santopadre porta a Casalvieri, dopo di aver serpeggiato per valli umide e verdi in fondo alle quali corrono rapidi i torrenti, s'arrampica sui fianchi rocciosi di monti aspri e selvaggi e va innanzi ora scoperto su pietre aride e brulle, ora nascosto sotto paurosi boschi di querce. Seguendo il mio fido Mingaccio io avevo già percorso un lungo tratto di cotesto sentiero e salivo il monte dei Sette Dolori, un monte coronato da una chiesuolina dinanzi a cui sorgono sette croci, quando il cielo incominciò a coprirsi di nubi e gli alberi sotto la sferza di un vento caldo e fastidioso principiarono ad agitare sonoramente i loro rami carichi di ghiande.

Tócca, tócca, signoria, ca ce cuoglie gliu temporale! — grugniva di tanto in tanto Mingaccio, esortandomi ad allungare il passo; ed io, difendendomi come potevo dalle raffiche del vento, lo seguivo ansimando.

A monte Cuoccio il vento cessò e caddero le prime gocce di pioggia segnando di punti neri il terreno; poi dal cielo oscuro precipitò il diluvio universale.

Tócca, tócca! — gridava sempre Mingaccio, facendosi il segno della croce ad ogni balenare di lampi. — Tócca, tócca! — Ed io toccavo con le mani e coi piedi quanto mai fosse piacevole e divertente il salire [150] un monte sotto la furia degliu temporale. Quando Dio volle, bagnati fin nelle midolla ci potemmo rifugiare in un piccolo santuario. Colà, appena entratovi, Mingaccio trovò in una buca un leprotto morto. Ciò lo mise in grande allegria; aprì un coltelluccio e incominciò subito a scuoiarlo, e scuoiandolo, eccitato forse dal luogo che gli ricordava i giorni lontani della giovinezza, prese a raccontarmi una quantità di storie brigantesche.

Nun me fa' parlà'! — mi diceva ad ogni frase; e mentre i tuoni scoppiavano nell'aria fosca rimbombando fragorosamente sotto di noi, nelle forre dei monti Januli, seguitava a parlare, indicandomi con la punta insanguinata del suo coltelluccio i luoghi ove i fatti che mi narrava erano avvenuti.

Vedi chélla mòrra? — mi disse non appena ebbe finito di raccontarmi una storia piena di schioppettate, di morti e di feriti, accennandomi un monte velato dall'infuriare della pioggia: — Vedi chélla mòrra? Se tu sapessi quanto foco c'è ascito derèto a chelle prète! Se tu sapessi! — ripetè ancora, scotendo il capo: e poco dopo com'ebbe terminato di spellare il leprotto ne gittò le membra fuori del santuario, ne ripiegò con molta cura la pelle e se la pose in tasca; poi stringendo le pugna macchiate di sangue e guardandomi negli occhi esclamò dolorosamente: — Eh, signoria, a chélli tiempe che te dico io ce steva la gioventù e la moneta; mo simmo viecchi! Nun c'è che fa'!

La pioggia continuava sempre. Uscire non si poteva, ond'io non sapendo come passare il tempo mi misi a leggere sulle pareti del nostro ricovero le innumerevoli iscrizioni lasciatevi da coloro che vi si eran fermati. Una di coteste iscrizioni incisa con un chiodo [151] o forse con la punta di un coltello sul manto turchino di una immagine diceva così: — Onorio Rechia latitande di Casalviero di matina di pesima piogia assai sono ricoverato qui senza timore delli nemici mia. Era il documento visibile di una delle istorie narrate allora allora da Mingaccio.

Alfine la pioggia cessò e potemmo lasciare il rifugio. Un raggio di sole pallido pallido cadeva da una immensa nube cinerea sulle croci del monte dei Sette Dolori, e da una valle lontana veniva nell'aria fredda un lungo e lamentoso rintoccar di campane.

— Che cosa dicono queste campane? — dimandai alla mia guida; ed essa portandosi le mani agli orecchi per meglio raccogliere il suono, dopo di essere rimasta per qualche istante in ascolto con la testa bassa, aggrottò le ciglia e mi rispose con voce commossa: — Sona a gràndina.

— Dove?

A Casalvieri. — E il buon vecchio, appena incominciammo a scendere il monte, dopo di essersi fatto il segno della croce, prese a recitare alcune preghiere le quali secondo lui dovevano avere un effetto portentoso contro il flagello della grandine, e non si tacque se non quando arrivammo a Colle Fosso, una borgatella di una ventina di casupole dorate dal sole già vicino all'orizzonte. Colà, per riposarci, ci sedemmo sul margine di una fontana. Intorno a noi gli alberi ancora bagnati brillavano sul cielo purificato dall'uragano, e giù dai sentieri che scendevan dai monti e si perdevano fra l'erba verdissima cosparsa di fiori ravvivati dalla pioggia, sotto al languido svariar degli ulivi dai poderosi tronchi rintorti e maculati di musco, gruppi di contadine vestite di nero e col capo quasi nascosto da larghi e lunghi [152] panni bianchi ricamati si avvicinavano alla fonte, cantando e reggendo orci di terra gialla ornati di pitture sanguigne. La foggia del vestire di coteste contadine mi piacque tanto, che volendo serbarne una memoria nella cartella dei miei disegni, non appena arrivai a Casalvieri ordinai a Mingaccio di trovare una donna disposta a servirmi da modello e di portarmela. Egli si allontanò ridendo e poco dopo ritornò tenendo per la mano una bambina col piccolo capo ricciuto oppresso dal peso di una enorme brocca di rame, e presentandomela mi disse: — Chessa, signoria, è chéllo che t'aggio potuto trovà'; chelle grande àvo pavura.

Bisognava adattarsi. Atteggiai la bambina come meglio potei, e mentre la mia guida mi lasciava di nuovo per andare a cercare un luogo dove passare la notte, incominciai a disegnarla. Una folla di curiosi mi circondò subito con tutta la sua ammirazione e con tutti i suoi più strani e goffi comenti, fra i quali ne udii con terrore uno che mi bollava, niente di meno! quale un esattore delle imposte mandato dal Governo a Casalvieri per mettere nuove tasse. Avevo appena incominciato a cercare il modo più persuasivo per ispiegare alle genti come io non avessi niente da spartire col fisco e le gabelle, quando all'improvviso una vecchia orribile sfondò il cerchio dei miei ammiratori e mi venne addosso agitando furiosamente le braccia. All'apparire della megera la modellina se ne fuggì spaventata ed io rimasi sbalordito ed attonito in mezzo ai popoli di Casalvieri, i quali ridevano e strepitavano dietro alla vecchia, che dopo di aver raccolta la brocca di rame lasciata in terra dalla bambina si allontanava urlando: — 'Ste cose jàtele a fa' a li paesi vostri! Chesta è carne [153] ca nun se venne! Apprima la voglio accide' co' le mano mee!...

Per cercar di comprendere la ragione dei gesti e delle parole della vecchia mi approssimai a un contadino interrogandolo con lo sguardo ed egli mi rispose seriamente: — È ignoranzità. Già. Lei mi capite, ci attaccano idea. — E dopo di avermi squadrato dall'alto in basso e viceversa, mi chiese a bruciapelo: — Ma, scusa, tu di dove sei?

— Di Roma.

E si sei de Roma che venghi a fa' da 'ste parte?

Non sapendo come rispondergli mi diedi per ingegnere, e allora lui alzò le ciglia e, guardandomi con aria furbacchiotta, mi disse a voce bassa: — È inutile che fai, ho capito tutto. Tu venghi a fare il traforo.

— Bravo! — gli risposi subito, e avevo già principiato ad insegnargli il modo più pratico ed economico per bucare le montagne, quando Mingaccio venne ad annunciarmi di aver trovato il luogo ove avremmo potuto andare a dormire. Cominciava a farsi buio e ci mettemmo immediatamente in cammino. E cammina cammina, dopo di avere attraversato il paese e di avere percorsa una strada lunga e larga, sassosa e fangosa, fiancheggiata da vecchi olmi, arrivammo dinanzi a un grande casamento nero ove fummo accolti graziosamente dal furioso abbaiare di molti cani incatenati sotto a parecchi carretti carichi di ceste e di bigonce dalle quali usciva e si disperdeva nell'aria umida e tepida un calido e piacevole odore di frutta.

Mentre Mingaccio badava a rabbonire i cani e chiamava ad alta voce il padrone della locanda, gli occhi mi andarono in cima all'arco di un androne, che metteva ad un cortile pieno d'altri cani e di altri [154] carretti, e rischiarata dalla luce fioca di una lanterna, intorno a cui svolazzava qualche nottola, vi lessi questa iscrizione: — SI AFFITTANO LETTI CON COMMODO DI STALLA.

Avevo appena finito di leggere le parole male auguranti e stavo aspettando, con la mia guida a lato, il locandiere, quando i cagnacci ripresero ad abbaiare con maggior furia. Allora qualche persona si mosse sui carretti, fra le bigonce e le ceste; alcune voci rauche ed irate ferirono l'aria oscura; una bestemmia fece tremare la terra; ma l'albergatore non venne. Aspettammo ancora. Alfine, dopo altre grida di Mingaccio, le quali inferocirono maggiormente i cani, il fondo buio del cortile incominciò a colorarsi di un debole chiarore rossigno; il chiarore a poco a poco divenne più chiaro e finalmente illuminato dalla fiammella oscillante di una misera candela da un soldo, che egli aveva in mano, e accompagnato da un grosso mastino, apparve il padreterno o, per esser più precisi, il padrone della locanda: un vecchio bianco per antichissimo pelo, il quale, dopo di averci rivolta qualche parola in un linguaggio incomprensibile, e di averci fatto salire una scaletta di legno molleggiante e scricchiolante sotto il peso delle nostre persone, ci introdusse in una stanza, ove su un letto enorme, fra una quantità di ombrelle di tutte le forme e di tutti i colori, stava seduto un altro vecchio che aveva sulle ginocchia una grande ombrella verde, aperta, e la rabberciava al lume di una lucerna di ottone il cui lucignolo fumigante ammorbava l'aria di un puzzo acre e fastidioso di moccolaia.

Il vecchio appena ci sentì entrare sollevò il muso bianco dall'ombrella verde e guardandoci con gli occhi di bragia incominciò a brontolare e a lamentarsi. [155] Insomma, tutti i letti della locanda erano occupati e l'unico letto disponibile era quello dell'ombrellaio! Ridiscesi subito la scaletta di legno lasciando il canuto rabberciatore di ombrelle nel suo nido e mi rimisi in viaggio verso il paese trascinandomi dietro oltre a Mingaccio anche la speranza di trovare colà un letto senza «commodo di stalla». All'alba io e lui lo cercavamo ancora; e, mentre l'aurora con le sue dita rosate tentava invano di allargare le crepe di un denso velo di nubi, morti di sonno come eravamo, dopo di avere ingoiato una bevanda nera ribelle a qualunque addolcimento, montammo sopra a uno sciarabbà, pronto a partire per Atina, e ci addormentammo.

Quando io mi svegliai il cavalluccio della vettura, scotendo la testa coperta di fiocchi di lana e di medaglie, di coccarde e di sonagli, di pennacchi e di campanelli, col pettorale, la groppiera, il sottopancia e le tirelle di cuoio nero ornato da fregi di ottone lustro, arrancando e soffiando, ci trascinava su per una salita ripidissima, in cima a cui fra il verdeggiare cupo di querce antichissime si intravvedevano le case lontane di Atina.

Prima di arrivarci, ricordo di avere osservato con gli occhi non ancora bene liberati dal sonno, sui fianchi del monte Meta, la cui cima perdevasi nel cielo nebbioso, i paeselli di Settefrati e Picinisco; ricordo di aver visto le case di San Donato adagiarsi nella valle del Comino fra il verde giallognolo delle messi segate, e quelle di Alvito arrampicarsi sopra a un colle in cima a cui torreggiava un vecchio castello; rammento anche di avere ammirato un raggio di sole che uscito dal cielo plumbeo andò a spegnersi subito su le case brune di Vicalvo, e poi... e poi [156] ricordo di non avere ammirato più nulla, perchè appena lo sciarabbà si fermò in uno sterrato fra piramidi di cipolle e di pomidori, di melloni e di angurie e di altri ortaggi, incominciò a piovere con tanta forza ch'io non vidi più niente, tranne un Cristo di pietra in cima a una porta, il quale stendendo la destra verso di noi, bagnato com'era, pareva che invece di benedirci ci chiedesse un'ombrella.

* * *

La porta di Atina vista dal di fuori appare tutta rammodernata e dipinta a strisce bianche e rosse; ma nel suo interno conserva ancora intatta la costruzione medioevale. E una impronta medioevale ha tutto il paese. Ovunque, nelle vie e per i vicoli, sulle case annerite dai secoli o bianchissime per la intonacatura recente qua e là si scorgono avanzi di portici, finestrelle binate, colonne, capitelli e frammenti di scolture romaniche. In fondo alla via principale sorge un castello dominato da una torre merlata. Una volta nel castello abitavano i signori di Alvito; adesso invece vi stanno di casa due muse, la Tragedia e la Commedia, cioè le carceri e il teatro. Quando lo visitai, dinanzi alla sua porta trovai due beccai che scannavano un bue. La povera bestia, legata con grosse funi ad una trave, si dibatteva furiosamente tentando di spezzarle e mandava fuori dalla gola squarciata da una ferita orrenda muggiti lunghi e lamentosi. Un ragazzetto raccoglieva in una secchia di legno il sangue che sgorgando con violenza dal collo calloso della bestia agonizzante, gli schizzava sul volto e gli tingeva di rosso i piedi ignudi imbrattati di mota e di sterco.

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Mentre i due beccai arruotavano le manaiuole e le coltella, stropicciando con forza il filo dell'una su quello dell'altra, e si apparecchiavano a squartare il bue, io attraversai un andito oscuro ed entrai nel cortile del castello. Colà, una pioggerellina fina fina, lenta lenta, queta queta velava di mestizia profonda le mura alte ed antiche nelle cui crepe verdeggiavano le paretarie e le malve, le ortiche e i grispignoli. Sopra le pietre lisce, del color dell'acciaio, le gocce d'acqua scivolavano lentamente, brillavano per un istante come gemme preziose e cadevano nel fango. In un angolo, sotto a una tettoia mezzo rovinata, fra mucchi di fieno e di strame v'erano riparati muli e cavalli con le groppe coperte da ruvidi panni rossi e da pezzi di tela incerata. Quando una bestia raspava con lo zoccolo il terreno rammorbidito dalla pioggia, o chinava la testa verso lo strame s'udiva il tintinno di qualche sonaglio. Sui gradini di una scala parecchi ragazzi giocavano alle noci, e di tanto in tanto parlavano coi carcerati i quali accostando il volto alle sbarre delle inferriate rugginose s'interessavano alle sorti delle partite. Uno di cotesti sciagurati col braccio fuori di una inferriata stendeva la mano a una contadina che, reggendo un bambino, si rizzava sulla punta dei piedi per arrivare a stringergliela.

Sentendomi soffocare da tanta miseria stavo per lasciare il cortile quando alcuni carcerati mi chiamarono, e cavata fuori dalle spranghe di una grata una lunga canna dalla cui punta penzolava una borsetta di tela, dopo di avermi chiesto qualche soldo e un po' di tabacco, incominciarono a cantare. Mentre ascoltavo con le orecchie attente il canto grave, lento e malinconico, e seguendone il disegno melodico, mi sforzavo di intenderne le parole, da una chiesa vicina [158] venne il suono funebre di una campana che piangeva un morto; allora le voci appassionate dei reclusi e i rintocchi lugubri della campana s'unirono insieme dolorosamente e risonarono fra le mura squallide del vecchio cortile fino a che non si persero tremolando nell'aria livida e lacrimosa.

Per andare alla locanda, ove Mingaccio mi aveva già fissato una camera, uscendo dal castello dovetti ripassare davanti ai macellari, e li rividi che spezzavano le membra del bue le cui interiora fumanti, appese a un grosso rampino, esalavano un fetore insopportabile. Intorno ad essi parecchi cagnacci macri e spelacchiati, si mordevano fra di loro, guaivano e leccavano avidamente il sangue, che sgocciolando dalle carni macellate scorreva lungo il muro e andava a rosseggiare nelle pozzanghere. Poco lungi, ai piedi di una statua decollata, due buoi aggiogati accanto a un baroccio, per null'affatto commossi dalla vista e dall'odore del sangue fraterno, guardavano con gli occhi tondi ora i cani ed ora i macellari, e di quando in quando sgretolavano adagio adagio qualche cannuccia tenera e verde.

* * *

Nella locanda di Atina ebbi una bellissima stanza piena di luce e d'aria e tutta rallegrata dal profumo delizioso di molti fiori di lana, dai canti soavi di molti uccellini imbalsamati e dalla santità immarcescibile di parecchie generazioni di Gesù bambini di cera. Nel salire a cotesta stanza, attraversando un corridoio, vidi sopra a una sedia un cavalletto da pittore.

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— C'è un pittore, qui? — dimandai alla locandiera.

Sissignore, musiù!

— E chi è?

È 'nu frangese de Pariggi.

— Si può vedere?

Certamènte — mi rispose la buona donna — ma mo sta in campagna a pazzià co' li colori. Lei lo potrete vedere subbito che ritorna.

E difatti subbito che ritornò lo vidi, gli parlai e con mia grande maraviglia appresi da lui che egli non era francese, ma napoletano; e con non minore maraviglia ei seppe da me che io ero romano, perchè la padrona della locanda come aveva detto a me che lui era 'nu frangese de Pariggi così aveva detto a lui che io ero 'nu pariggino de Frangia.

A desinare ebbi l'alto onore di avere a commensale un mercante di grano, un bell'uomo panciuto, espansivo, comunicativo e tutto risplendente di oro e di brillanti, il quale, dopo di avermi chiesto molte notizie intorno al papa, al re, alla regina, ai ministri e al parlamento, mi dimandò se fosse proprio vero che nella piazza di Colonna Trojana volessero buttar giù la colonna per cercare sotto al suo piedistallo un tesoro chiuso in una enorme cassa d'argento.

— Eh, pur troppo, mio caro — gli risposi — a quest'ora la colonna sarà già stata abbattuta.

--Ma lei mi parlate sul serio? — esclamò il mio uomo, spalancando gli occhi bovini e percuotendo col pugno robusto la tavola su cui i piatti, le bottiglie e i bicchieri tintinnarono allegramente.

— Così non fosse! — gli risposi ancora — Così non fosse! — E con queste parole lo lasciai a digerire il suo pranzo, non che il suo rammarico per la distruzione igonoclastica dell'ultimo avanzo della [160] guerra di Troja, e me ne andai a passeggiare all'aperto.

Tornando alla locanda, m'ero fermato un momento vicino al tronco di un vecchio olmo per contemplare le vaghe stelle dell'orsa, scintillanti sopra il verde glauco di un uliveto, quando mi sentii picchiare dolcemente sopra a una spalla: mi volsi e mi trovai accanto un omino sbarbato e profumato il quale, dopo una profonda riverenza, mi disse con una vocina languida e tremolante: — Lei, musiù, siete pittore?

— Qualche volta! — gli risposi. Egli allora sorrise, strizzò gli occhi e facendo un gesto ambiguo, mi dimandò: — Vi serve una bella donna di campagna da dipingere?

Poco dopo, mentre nella mia stanza io stava dipingendo la bella donna di campagna, nella camera vicina alla mia, ove era il mercante di grano, intesi risuonare gioiosamente una risata argentina. Non v'era da dubitare. Il mercante di grano dipingeva anche lui.

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