IV.

[133]

Non era ancora giorno; quando, seguendo la mia guida, un vecchio contadino, battevo le scorciatoie per andare a Santopadre.

L'alba ci trovò in un bosco di vecchi castagni vicino a una fonte, detta di Santo Spirito. Sotto agli alberi altissimi fra enormi scogli rivestiti di musco e di capelveneri un rigagnoletto correva gorgogliando.

Un ciociaretto, curvo fra le foglie larghe delle piante, come un satiretto, beveva avidamente raccogliendo nel cavo delle mani l'acqua cristallina che ricadeva sull'erba verde e molle di rugiada come una pioggia di perle. Alcune capre bianche, arrampicate qua e là su gli scogli salutavano il giorno nascente, mandando belati. Poco lungi una fanciulletta seminuda guardava un branco di pecore brune.

Quando riprendemmo il cammino io recitai ad alta voce qualche verso di Virgilio, che il paesaggio mi aveva riportato alla memoria: e la guida al sentirmi slatinare mi guardò fiso e mi disse: — Lei, signoria, scusate, siete milòrdo frangese, è vero?

— Io? Ma tu sei matto, — gli risposi ridendo — io sono di qua.

Eh! Lei pazziate! Lei, signoria, ci avete 'na faccia frangese assaie!

Mingaccio, — tale era il nome della mia guida — non ci fu modo di persuaderlo. Io per lui dovevo [134] essere frangese e per di più anche milòrdo, e fino a quando non glielo impedii, egli nel dirigermi la parola, mi onorò sempre con questi due appellativi.

* * *

Prima di lasciare la boscaglia di castagni, entrammo in una chiesetta, vicina a poche casupole di contadini, e vi trovammo su due panche coperte di fiori, fra due candele, una bambina morta. Ella era tutta vestita di seta e intorno al collo aveva avvolti due vezzi di coralli rossi. Due grandi orecchini d'oro a cerchio, le pendevano dai lobi degli orecchi, rilucendo su le guance cinerognole: fra le manine incrociate sul petto teneva un crocifisso d'argento.

Vicino alla coltrice improvvisata, una donna accovacciata in terra agitava un ramoscello di rosmarino, scacciando le vespe e le mosche, che come punti d'oro, vibranti ne l'aria, sciamavano attorno alla morticina: me le avvicinai per darle qualche soldo ma la disgraziata crollò le spalle, e si nascose il volto fra le mani. Quel rifiuto, mi arrivò al core. Uscii dalla chiesetta e vi rientrai con un mazzo di ciclamini. Mentre li stavo spargendo su la morticina, due contadini si fermarono su la porta e guardarono dentro. Dopo un istante il più vecchio alzando la voce e le spalle disse alla donna, che scoteva sempre nell'aria il ramoscello di rosmarino: — Fulomè!... nun ce pensà', ca chillo c'à fatto chessa ne fa n'àuta!

La poveretta nascose ancora una volta il viso tra le mani, e i contadini si allontanarono e sparirono nel folto del bosco.

Appena ripigliammo il cammino Mingaccio incominciò a parlare e a darmi notizie sulle usanze funebri [135] di queste contrade. Qui, quando avviene che alcuno muoia, quelli che hanno avuto la disgrazia di perderla prima lo piangono sfogando il dolore con grida angosciose, e poi si mettono a banchettare. Il banchetto per solito s'inizia con un piatto di fave, a cui seguono i maccheroni e altra roba, se ce n'è. Il vino si beve a boccali, e l'ultimo si tracanna alla salute di quello che se n'è ghiuto! Non di rado accade che al levar delle mense molti dei convitati non trovino la forza di alzarsi. E cotesto banchettare non dura poco, poichè tutti i parenti e gli amici del morto sono obbligati ad offrire alla famiglia di lui il loro pranzo, e naturalmente fra gli offerenti è una gara a chi può dare il migliore.

Mingaccio seguitava ancora a parlare di cerimonie funebri, raccontandomi cose che mi facevano ripensare alla conclamatio, al silicernium, alla coena novendialis ed ai ludi novendiales, quando al di là di una siepe, sur un colle, apparve una torre antica, intorno a cui si aggruppavano molte casette non meno antiche di lei, come un branco di pecore sorpreso dal temporale si aggrupperebbe intorno al pastore.

— È Santopadre? — domandai.

Gnorsì!

Poco dopo al principio di una salita Mingaccio mi chiese licenza di andare a salutare certi suoi parenti e mi lasciò. Io seguitai la strada e arrivato alle prime case del paese dimandai ad alcune donne, che erano intorno a una fontana, dove avrei potuto trovare un caffè, e quelle donne mi risposero: — Dal tabaccaio. — Mi misi allora alla ricerca del tabaccaio; ma la ricerca fu vana. Alfine, perduta la pazienza, chiesi a un contadino: — Ma, dimmi un po', in questo paese dove si compra il tabacco? — Egli [136] mi guardò curiosamente due volte dalla testa ai piedi e mi rispose: — Dal caffettiere.

— E dove sta il caffettiere?

— Il caffettiere sta in quella bottega addove tu vedi quella frasca di cerqua.

— Ma quella è un'osteria.

Non ci pensare! — riprese il contadino — Tu vai lì, e lei troverete tutto quello che gli serve.

Vi andai, e, dopo di aver letto sur una targa che era sopra all'arco della porta: GENERI DIVERSI, vi entrai.

Nella bottega non c'era nessuno. Picchiai. Dopo un po' un bambino uscì fuori da un cumulo di «generi diversi» e mi disse che il padrone era andato alla messa e che bisognava aspettare. Non sapendo quanto tempo avrei dovuto rimanere là dentro, dopo di avere osservato quanto mai fosse diversa la diversità dei «generi diversi» che ingombravano gli scaffali della bottega, stavo per andarmene, quando entrò un uomo alto, magro, vestito di panno bigio e con un cappellino a cencio che gli copriva appena la metà della chioma folta, crespa e rossastra; si avvicinò al banco e vi picchiò sopra ripetutamente col pugno, facendo ondeggiare i piatti di una stadera e rovesciando un bicchierino senza piede che si appoggiava a una bottiglia nera su la cui pancia rimaneva ancora qualche lettera della parola «Champagne»; tornò a picchiare e poi, scotendo il capo, esclamò: — Quest'animale l'è a la messa!

— Già! — ripetei io — l'animale l'è alla messa.

Allora egli si volse a guardarmi e aggrottando le ciglia, e storcendo la bocca mugolò: — Che paese!

— Che paese! — ripetei ancora io; poi cercando di farlo parlare, gli chiesi: — Ma voi siete di Santopadre?

— Io? Mi son de Milan! — mi rispose subito, e [137] toccandosi il cappellino a cencio e inchinandosi soggiunse: — Fotografo, a servirla.

— Fotografo! E come mai siete quassù?

Mah! — rispose, sospirando — Che cosa mai vuol che gli dica? La vita porca! — Tacque per un momento, e poi vedendo quanto io mi interessassi alle porcherie della sua vita, dopo di avermi assicurato che la sua macchina fotografica con la quale aveva eseguito centinaia di Consigli comunali era una macchina strafinissima, prese a dirmi che lui vendeva anche un mastice vegetale di sua invenzione per accomodare in modo invisibile le rotture di vetri, bicchieri, bottiglie ed altri simili generi di terraglie, mastice a cui egli aveva dato il nome di attaccatutto: che aveva un deposito di oleografie sacre e profane, che parevano vere: e che, qualora se ne fosse presentato il bisogno egli, non soltanto avrebbe saputo adattarsi all'arte meccanica, ritornando al suo stato primitivo bastoni, ombrelli ed altre simili bigiotterie, ma in caso disperato avrebbe potuto anche cavare sangue, impiombare denti e guarire mille altre malattie tanto palesi quanto segrete. E concluse col dirmi: — Eppure, signore, con tutte queste abilità se si campa la vita, bisogna proprio dire che l'è un vero miracolo eccezionale!

Intanto che il milanese parlava, la bottega si era venuta popolando di tre contadini, di due cani e di un prete. Finalmente arrivò il padrone, un vecchio tremolante il quale si mise a soddisfar le richieste dei contadini con una tale lentezza che io sgomento uscii insieme col fotografo, che non la finiva più di portare a mia conoscenza le sue tristissime condizioni e di tessermi l'elogio della sua macchina strafinissima. Comprendendo dove voleva arrivare, per abbreviargli la strada gli dissi: — Volete farmi il ritratto?

[138]

— Ma di certo. — mi rispose lui, con gli occhietti che gli brillavano per la contentezza.

— Però bisogna farlo subito.

— Subitissimo.

— E dove avete la macchina?

— Nel mio laboratorio, qui vicino. — E incominciò a camminare. E io dietro!

Quando arrivammo in una viuzza ch'era un rompicollo, egli si fermò davanti a una porta sgangherata, l'aprì con un calcio, e, pregandomi di aspettarlo, vi entrò. Vi entrai anch'io, e appoggiandomi a un muro scalcinato e ammuffito, scesi due gradini di una scaletta, allungai il collo e vidi, fra due file di botti, il mio fotografo che illuminato da una debole luce rossa, frugava con le mani in una cassetta e ne cavava fagotti e involti che qualche gatto andava ad annusare. Poco dopo tornò su, e dicendomi che in un paese come quello in cui ci trovavamo non si potevano avere pretese e bisognava adattarsi, mi condusse in un orto; spolverò con la manica del suo abito la macchina strafinissima, la mise con non piccola fatica al punto focatico e mi fotografò. Poi si pose sulle spalle la macchina, e seguito da una torma di bambini andò a sviluppare la sua negativa: e io aspettando l'ora di sviluppare la mia colazione, mi arrampicai in un sentiero coperto di rovi e me ne andai a veder da vicino quella torre che avevo già visto da lontano.

Mentre la stavo osservando il fotografo venne ad annunciarmi come la fotografia fosse riuscita in modo superlativo, ed io, commosso fino alle lacrime, lo invitai a voler dividere con me un po' di pane, un po' di vino, una fetta di formaggio di Scanno e poche frutta che avevo fatto comperare da Mingaccio. [139] Mangiammo su l'erba, all'ombra della torre, e poi ci recammo sul colle Campea per vedere le rovine di una chiesa antica, dedicata a S. Pietro, e alcuni ruderi romani i quali per i santopadresi sono nientemeno che gli avanzi di una villa appartenuta a Giunio Decimo Giovenale, il poeta satirico di Aquino.

Ma il mio fotografo, dopo di avere esaminati minuziosamente i ruderi e di averli anche contati, mi disse che, secondo lui, la villa di Giovenale l'era una bala.

— E perchè? — gli dimandai.

Perchè? — mi rispose subito con una sicurezza da non ammettere replica — Perchè l'è umanamente impossibile che un antico romano di talento il quale avrebbe potuto farsi una villa nella sua capitale se ne sia venuto a fabbricare una in un paese come Santopadre.

Il suo ragionamento filava! E poco dopo filò anche lui, dovendo andare a preparare i preparati e a caricare la macchina per eseguire il Consiglio comunale. Prima che mi lasciasse gli chiesi ridendo: — Quanti altri giorni rimarrete qui?

Mah! — mi rispose, alzando le braccia — Subet che avrò eseguito il Consiglio comunale scapperò via, fuggendo. — E si allontanò in fretta.

* * *

Io rimasi ancora lassù. Tornai a visitare le rovine della chiesa, e dopo di aver ammirato un olivo gigantesco e una quercia enorme il cui tronco misurava otto metri di circonferenza, mi sedetti su l'erba, appoggiai le spalle ad un rudero, accesi la pipa e [140] mi misi ad ascoltare Mingaccio, il quale, cedendo alle mie dimande, prese a raccontarmi alcune istorielle su don Folco, il prete arguto e beone, sacrilego e buffone a cui il paese di Santopadre va debitore di quella fama che esso gode nelle contrade di tutta la Ciociaria. Tali storielle non mi arrivavano nuove poichè le avevo già udite a narrare qua e là nei paeselli che avevo già visitati; ma le risentivo con piacere: prima perchè le ascoltavo nel luogo istesso dove erano nate, e poi perchè sulla bocca e nelle mani di Mingaccio acquistavano un sapore di comicità irresistibile.

Quasi tutte quelle che egli mi ripeteva si riferivano alla lunga lotta sostenuta dal prete di Santopadre contro il vescovo di Sora: lotta che finì sempre con la vittoria di don Folco, il quale rifugiandosi, quando lo credeva opportuno, fra le rupi delle sue montagne, ove nè la mano nè il piede del suo superiore potevano raggiungerlo, era sempre padrone di fare tutto quello che gli pareva e piaceva infischiandosene altamente di tutti i rimproveri e di tutti i gastighi che gli venivano mandati da Sora. Del resto nella lotta egli era spalleggiato dai suoi compaesani, i quali tenevano l'insigne prelato in conto di un solennissimo jettatore, poichè quando questi in un giro che fece per visitare le parrocchie della sua diocesi si fermò in Santopadre, una forte scossa di terremoto costrinse i santopadresi a fuggire all'aperto e a dormire in terra, nei campi.

Il primo fatto, anzi il primo misfatto per il quale don Folco dovette andare a Sora per farvi la conoscenza del vescovo, se Mingaccio non mi ha male informato, fu il seguente. Poco lungi da Santopadre in una capanna agonizzava un contadino, e don Folco [141] andò a dargli l'estrema unzione. Fece tutto quello che doveva fare e poi si rimise in cammino per ritornarsene a casa. Disgraziatamente, il diavolo, il quale ha la perversa abitudine di seminare di tentazioni le vie battute da coloro che ei vuol perdere, volendo insidiare la virtù del povero prete, fra la capanna da dove questi veniva e la casa verso cui andava ci seminò una osteria con entrovi alcuni contadini che giuocavano il tòcco, un giuoco che si giuoca annaffiandolo con molto vino.

I contadini appena videro passare don Folco lo salutarono cordialmente e don Folco rispose cordialmente ai saluti; gli offrirono da bere e don Folco bebbe; lo invitarono ad entrare nell'osteria e don Folco vi entrò; gli chiesero di giuocare e don Folco giuocò. E giuoca e bevi e bevi e giuoca, insomma il povero prete finì col doversi coricare sopra una panca. Nel coricarsi sentì in una delle tasche qualche cosa che gli dava noia; vi mise dentro la mano, ne cavò quella qualche cosa che lo infastidiva, la posò sur una botte e chiuse gli occhi. Quando li riaperse era notte. Due contadini lo ricondussero a casa. All'indomani l'oste spazzando la sua bottega vide in terra un oggetto che luccicava. Era il vasellino dell'olio santo.

Cinque minuti dopo tutto il paese risapeva l'orribile sacrilegio, e qualche giorno appresso don Folco riceveva l'ordine di recarsi a Sora per render conto del suo peccaminoso operare. Vi andò, e allor che il vescovo prese a tempestarlo di rimproveri egli rimase umilmente a capo chino, in silenzio, aspettando la fine della tempesta; ma quando vide che la tempesta non finiva più si decise di finirla lui, e, rialzato il capo rosso come un pomidoro maturo, [142] si mise a gridare: — Neh, 'gnore vescove, ma che te cride ca co' l'uoglie ch'ajo lassato alla taverna ci avo fatto l'ansalata? Pe' regula de Signoria, dinto a lu vasillo ce ne steva accusi poco ca nun ce n'asciva manco pe' cundi' quatte peparuole. Sì capito mo tu? — E senza aspettare che il vescovo gli rispondesse, gli voltò le spalle e discese in istrada, ove per calmare i nervi esasperati non potè fare a meno di entrare in un caffè e di chiedere una qualche cosa stommateca. Il cameriere gli recò un bicchierino di vino squisito. Don Folco lo bebbe; si leccò le labbra e ne chiese un altro. Poi fece portare sul tavolino la bottiglia, e cercandone il fondo, dimandò al garzone: — Neh, chesto vino che nome tiene?

Lacrima Christi. — gli rispose il cameriere.

Veramènte? — ripigliò don Folco che cominciava a risentir gli effetti di quella lacrima.

— Ma certo! Noi non vendiamo roba adulterata.

E allora — si mise a urlare il prete, battendo il pugno sul tavolino — e allora nun ce lo potevate fa' sta' sino a mo in croce quanno che faceva 'ste lacrime?

Pochi giorni dopo don Folco venne privato dell'esercizio del suo sacro ministero. Quando egli seppe che non avrebbe più potuto celebrare la messa, ritornò a Sora, si appostò in un luogo ove egli sapeva che il vescovo avrebbe dovuto passare, e non appena lo vide da lungi gli gridò: — Neh, 'gnore Vescove, me si tuota la messa? E tu schiatta! Ca te cride che pe' campà' àjo bisogno de magnà' Cristo tutti li juorni? Io campo co gliu mia. — E prima che riuscissero ad agguantarlo se ne scappò su le montagne di Santopadre.

[143]

* * *

Una volta il busto di san Folco, che è appunto il patrono di Santopadre, era stato recato processionalmente fuori del paese in una chiesina e colà era stato lasciato esposto per qualche giorno alla venerazione dei fedeli. Finita l'esposizione il simulacro del santo doveva essere riportato al suo domicilio reale, cioè su l'altare maggiore della chiesa da dove era stato tolto, e don Folco si prese l'incarico di trasportarvelo. Andò nella chiesina, si mise sulle spalle il busto, e seguito da qualche contadino che biascicava paternostri, si avviò verso il paese. A metà di una scorciatoia piena d'inciampi, ov'egli s'era messo per abbreviare la via, sdrucciola, e il busto gli esce dalle mani, e brillando al sole si mette a rotolare fra i sassi. Egli prova a ripigliarlo; ma non ci riesce. Allora, rosso di collera si rizza sulla punta dei piedi e allungando le mani verso il santo che se ne andava precipitando a valle gli urla dietro: Ca te pozzino accide', voglio vedè' addò' te vai a fa' fotte'!

I contadini fuggono ancora.

* * *

Un'altra volta don Folco venne chiamato in una borgata vicina al suo paese per celebrarvi un triduo e per recitarvi un sermone. Egli appena salito sul pulpito si volge alle donne e incomincia a gridare senza tanti preamboli che la causa della loro perdizione era 'nu pezzetto de carne. I contadini sgranano [144] tanto d'occhi e le contadine divengono rosse come i loro corpetti di scarlatto. Ma il sacro oratore prosegue imperterrito: — Sì. È 'nu pezzetto de carne. — E soggiunge: — Lo volite véde' qual è? — Le donne abbassano gli occhi pudibonde e don Folco cava fuori un palmo di lingua e ci appunta su il dito. Una clamorosa risata scoppia fra le bianche pareti della chiesa.

Finita la predica don Folco scende dal pulpito, sale i gradini dell'altare maggiore e di lassù dà la benedizione col santissimo. Mentre egli solleva in alto il sacramento un bambino incomincia a miagolare. La sua mamma tenta invano di rabbonirlo. Don Folco si stizzisce, gli va vicino e mostrandogli l'ostensorio: — Ohè, guagliò' — gli grida — vi' ca chesto è bòbbo, e se non le stai quèto le se tuoglie! Dopo la benedizione la chiesa si vuota e gliu prèute ripone il sacramento nella sua custodia e la chiude; ma quando va per estrarre la chiavetta dalla serratura la chiavetta non esce. Egli le tenta tutte per farla uscire; alfine perde la pazienza; dà un pugno sul ciborio ed esclama: — E che ce sta ca dinto? Gliu diavolo!

Il sagrestano che aveva incominciato a spazzare la chiesa gettò la scopa, si fece il segno della croce e scappò via inorridito.

* * *

Ma don Folco oltre alle molte virtù con le quali soleva ornare l'esercizio del suo ministero sacro, ne possedeva anche moltissime altre per adornare, qualora se ne fosse presentata l'occasione, l'esercizio del [145] suo ministero profano; poichè non aveva rivali nel vendere giumente guerce, asini ciechi, vacche zoppe, e nello spacciare merci di cattiva qualità come se fossero state ottime. Egli era così furbo ed arguto e così pronto nella chiacchiera che trovava quasi sempre il gonzo da infinocchiare.

Un giorno andò in un paesello, ove tenevasi una fiera di bestiame, e vi portò un cavallo a cui per esser perfetto non gli mancava altro se non la parola. Un vecchio contadino lo comperò a buonissimo patto; ma dopo di averlo comperato s'avvide che alla povera bestia le mancava la metà della lingua.

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