Memorie D'uno Smemorato

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Nello studio dove eravamo non si poteva più vivere. Si stava in una soffitta al sesto piano di un casamento altissimo, dove, nell'estate si bruciava come in un forno, e nell'inverno, nei giorni di pioggia, anche i quadri ad olio diventavano all'acquarello. E come se questo fosse poco, sotto a noi abitava la più numerosa e più filarmonica famiglia che io abbia mai conosciuto, il cui capo, un omone con un barbone nero che gli scendeva fin sulla pancia, era impiegato nelle regie poste e suonava il trombone. Quando tornava in casa, mentre la moglie gli apprestava il desinare, egli si metteva a soffiare nel suo strumento e cominciava il terremoto.

Le sue figliuole poi, non facevano altro che tormentare un povero pianoforte con la coda, il quale mandava certi suoni, emetteva certi lamenti e certi guaiti, come se gliela pestassero.

Un giorno, mentre il trombone del nostro vicino brontolava più fastidiosamente del solito, il mio compagno di studio, misurando l'angusta soffitta col passo dell'uomo che ha da dire cose gravi, mi confidò come un nuovo tormento venisse ad aggiungersi al trombone e al pianoforte.

— A coda! — mormorai io.

[12]

— Già. Ed è a coda anche il nuovo istrumento di tortura.

— Cioè?

— Guarda! — mi disse allora l'amico; e aperta la finestra mi accennò una gabbia di vimini, entro la quale nereggiava un merlo spennacchiato. Poi richiuse le imposte e incominciò a discorrere per provarmi che noi due, lì dentro quella soffitta, ci logoravamo inutilmente l'intelligenza; che bisognava trovare uno studio decente; che non era possibile rimanere più a lungo in quel bugigattolo. E incrociando le braccia sul petto concluse: — Non hai mai pensato che se ci dessero l'ordinazione di dipingere un gran quadro saremmo costretti a rifiutarla per mancanza di spazio?

— Sarebbe doloroso.

— Per noi e per l'arte nazionale.

Insomma, restammo d'accordo sulla necessità assoluta di metterci alla ricerca di uno studio, dove, se mai qualcuno ce l'avesse chiesto, avremmo potuto dipingere il gran quadro, senza i borborigmi del trombone, senza i guaiti del pianoforte e senza i fischi del merlo.

* * *

Di studii se ne videro molti in via Sistina e lungo la via Margutta, nei nuovi quartieri e pei vicoli popolosi e pittoreschi della vecchia Roma. Alcuni avevano l'ampio finestrone aperto sui giardini e sui cortili, altri ricevevano la luce da una larga finestra aperta nel mezzo del soffitto. Quasi tutti conservavano sulle pareti le tracce di coloro che li avevano abitati, e sulle porte riverniciate di fresco si leggevano [13] ancora nomi d'artisti e di modelle, sentenze e appuntamenti commentati allegramente da caricature e disegni.

Su la porta di uno di tali studii leggemmo questa iscrizione, che non m'è più uscita dalla memoria: Quando si sta dentro e non s'apre a chi bussa è una porcheria. Sono stufo di camminare e metto le carte in mano all'avvocato.

Quale dramma, racchiuso in così poche parole!

Fra i tanti studii da noi visitati l'unico che ci piacque fu un comodo stanzone in via Margutta; ma quel che non ci piacque affatto furono le ottanta lire al mese che ne chiedevano di pigione.

— Ottanta lire, come vedono, è tutt'altro che caro — ci diceva il suo proprietario accompagnandoci e sbatacchiando due chiavette con la destra. — E poi, come vedono — proseguiva — questo studio ha tutti i comodi: due porte, — e strizzava maliziosamente un occhio — acqua da bere...

— E questo è il guaio.

— Perchè?

— Perchè, — ripresi subito io mestamente — c'è qui il mio amico che all'età di sette anni ebbe la sventura di morire annegato nel Tevere, e da quel momento non può più soffrire la vista dell'acqua. — E mentre il padrone, che aveva finito di giocherellare con le chiavette, ci guardava trasecolato, noi ce ne andammo.

Finalmente, lo studio che ci conveniva lo trovammo in un misero fabbricato fra le vigne e gli orti, fuor di una porta della città.

Il fabbricato dai muri scalcinati e anneriti, sui quali si abbarbicavano piante parassite, si sarebbe scambiato a prima vista per un vecchio fienile se [14] sulla porta d'ingresso non vi fosse stata inchiodata una targa di legno su cui sbiadita dal tempo si leggeva questa iscrizione: STABILIMENTO DI STUDII DI PITTURA E SCULTURA.

Difatti in quella casa c'erano parecchi studii per pittori e scultori. I primi occupavano il primo piano che era anche l'ultimo; i secondi stavano nelle camere terrene. Ma oltre alle stanze che servivano d'incomodo asilo agli artisti, nello stabilimento ce n'erano anche altre tre le quali, benchè in origine fossero state costruite anche loro per essere consacrate all'arte, avean finito con l'esser destinate all'industria. Nella prima abitava una torma di lavandaie e di stiratrici; nell'altra dimorava un vecchio contadino le cui figliuole all'occorrenza si adattavano anche a far da modelle; l'ultima era nè più nè meno che uno spedale per i cani, diretto da una vecchia popolana che a vederla quando cuoceva i medicamenti per le sue bestie inferme tra il fumo che usciva dalle pentole, pareva una strega che preparasse filtri per qualche incantesimo.

Il padrone dello stabilimento quando andammo a proporgli di cederci in affitto una stanza che stava per essere abbandonata da un pittore triestino, ci accolse affabilmente. Era in manica di camicia; e poichè il sole splendeva in quel giorno più del solito, ci forzò a sederci su un murello, accanto alla porta della sua casa, per fare insieme quattro chiacchiere. Ci parlò del Vaticano, della Sistina, del Bramante, di Michelangiolo, di Raffaello, e poi volle anche raccontarci la eroica difesa di Roma del quarantanove alla quale egli aveva preso parte; e non smise, se non quando la sua serva venne ad annunciargli che il pranzo era pronto. Allora, dopo averci [15] chiesto i nostri nomi, e averli segnati con un mozzicone di lapis in un libricciuolo foderato di cartapecora, ci lasciò dicendoci che nel pomeriggio potevamo andare a pigliar possesso dello studio.

— Andateci pure — ci disse — e il triestino prima di andarsene vi consegnerà le chiavi.

Nel pomeriggio tornammo nello stabilimento con le nostre cartelle; salimmo una scaletta; traversammo un corridoio oscuro, e picchiammo alla porta del triestino.

Un concerto di furiosi abbaiamenti e guaiti ci rispose dal fondo del corridoio.

S'udì una voce urlare per rabbonire i cani irritati, e poi... Silenzio.

Bussai di nuovo più forte.

— E avanti perdio! — tuonò, allora, una voce minacciosa di dentro allo studio. E noi, entrammo e restammo ritti, impalati vicino all'uscio.

Nello stanzone un giovinotto radunava in una cartella alcuni disegni. Qualche quadretto stava gittato in terra, e un tavolino a tre gambe s'appoggiava al muro per non cadere.

— Buon giorno — disse il giovinotto senza neppure guardarci.

— Buon giorno! — rispondemmo noi all'unisono, e, posate in terra le nostre cartelle, restammo silenziosi a guardare la figura magra e donchisciottesca del pittore che dopo di aver chiuso nella cartella i disegni s'era messo a raccogliere in una piccola valigia alcuni pezzi di stoffa.

Quand'ebbe chiuso con una cordicella la valigetta si volse verso di noi e: — Se vogliono accomodarsi — ci disse — non facciano complimenti. — Nella stanza non c'era neanche l'ombra di una sedia.

[16]

Il pittore, allora, radunò entro un largo foglio di carta sudicia una quantità di boccette vuote, di pennelli logori e di colori andati a male; s'avvicinò al finestrone e li gittò fuori; quindi andò in un angolo dello studio, prese due ciabatte vecchie e le lanciò con forza fuori della finestra. Le due ciabatte mulinarono un istante sul cielo nuvoloso come due uccellacci neri, e scomparvero.

Intanto aveva cominciato a piovere, e il giovinetto come se ne provasse piacere, seguitava sempre a gittare gli oggetti inutili dalla finestra; poi, crescendo la furia dell'acqua, richiuse la vetrata e portandosi le mani ai fianchi, facendo arco della schiena, mugolò con voce nera: — Accidenti alla pittura e a chi l'ha inventata — E volgendosi ancora a noi, che eravamo sempre lì ritti come due coristi, seguitò: — Me lo sanno dire loro chi l'ha inventato questo flagello di Dio?

— I greci! — risposi io prontamente.

— Allora accidenti alla Grecia! — riprese con voce sicura il giovinotto; e appoggiando i gomiti al davanzale della finestra, rimase a guardare, col naso sui vetri, la campagna grigia che si distendeva sotto la pioggia dirotta fino ai colli ultimi ove si perdeva nel cielo tempestoso.

— Bah! — borbottò poi volgendosi bruscamente, come se volesse scacciare i pensieri tristi — non ci pensiamo! — E presa la valigetta e una cartella, soggiunse: — Stiano bene. Me ne vado. Ecco la chiave.

— Con quest'acqua?

— Ci sono abituato — ribattè il pittore alzando le spalle; e pigliato un disegno che aveva lasciato sul tavolino a tre gambe (una testina di ciociara segnata coi pastelli) porgendolo a noi, disse sorridendo: — Lo terranno per mio ricordo.

[17]

— Grazie! Ma lei non se ne va, ora. — disse il mio amico sbarrandogli la via dell'uscio.

— Non posso trattenermi, debbo partire.

— Parte?

— Vado a Napoli.

— Ma allora, le vogliamo augurare il buon viaggio. Qui sotto c'è un'osteria?

— Pur troppo! — fece il pittore.

L'acqua intanto rinforzava e il mio amico uscì e tornò di lì a poco, con un litro e tre bicchieri.

— Alla vostra salute e alla vostra fortuna.

— Alla vostra — soggiunse il pittore, e urtammo i tre bicchieri che mandarono un trillo allegro in quello stanzone triste.

— Evviva... Evviva... — esclamò allora una voce di sotto alle tavole del pavimento. — Nel mio studio piove acqua e nel tuo piove vino, eh!

— Oh, Mario! vieni su! — gridò il triestino, chinando la testa verso l'assito.

— Vengo. — rispose la voce di sotto al pavimento di tavole, e s'udì il colpo d'un uscio che si chiudeva.

— È lo scultore che sta qui sotto. — Ci disse il pittore: e non aveva finito di dirlo quando la porta dello studio s'aprì ed entrò un giovinotto tarchiato, vestito d'un camiciotto di tela gialla, con in capo un berretto rosso alla turca. Restò sorpreso nel vederci e poi chiese al triestino: — Non sei partito?

— Parto stasera. Bevi! — E vuotato il resto del vino in un bicchiere, lo porse allo scultore, dicendogli: — Ti presento i nuovi inquilini.

Noi ci inchinammo ed egli dopo aver toccati col suo bicchiere i nostri: domandò al pittore: — E tu? Non bevi?

Il litro era vuoto.

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— Aspetta! — fece lo scultore, ed uscì.

— Bravo giovinotto! Bravo giovinotto! — ci disse il triestino posando il bicchiere vuoto sul tavolino: — È un siciliano; e loro che si trattengono qui...

— Accidenti come vien giù! — esclamò lo scultore rientrando di corsa, fradicio d'acqua, cavando un litro e un bicchiere di sotto al camiciotto.

Vuotato il nuovo litro, il triestino ne volle pagare uno anche lui, e allora ognuno trasse di tasca la pipa e s'incominciò a parlare come se ci fossimo conosciuti da cento anni.

* * *

Quando abbandonammo lo studio, sul cielo rasserenato brillavano le stelle e un venticello freddo e leggiero faceva svolazzare il fiocco della cravatta allo scultore, che, calcatosi in testa il cappello a cencio, parlava furiosamente, trinciando l'aria con le mani aperte.

— Michelangelo, Tiziano, Raffaello, Correggio! — diceva — Eccoli qua questi quattro nomi che ci stanno sospesi eternamente sul capo come quattro spade di Damocle. La forma, il colore, la grazia e il chiaroscuro. E noi eccoci qua a bussare alla porta del gran teatro dell'arte, dove si rappresenta quella bella commedia che è il vero. Cari amici, i buoni posti son presi. Non ci resta se non qualche posto di piccionaia. — E si sbottonava nervosamente la giacca. Poi accese un mozzicone di sigaro e scotendo la testa continuò: — Lavoriamo, sudiamo, sgobbiamo, facciamo la grande statua, il gran quadro; e l'ultimo imbecille che gitterà, passando frettoloso, una occhiata [19] sulla nostra opera che sarà costata a noi tante lacrime e tanto sudore, mormorerà allontanandosi il solito Michelangelo per la forma, l'inevitabile Tiziano pel colore, l'ineluttabile Raffaello per la grazia e l'immancabile Correggio pel chiaroscuro. Siamo nati troppo tardi. I buoni posti son presi.

E gittando via il sigaro, ripigliava animandosi sempre più: — E il bello è, che ad ogni istante mi sento urlare alle calcagna da cento voci: lavora! lavora! Ma per chi debbo lavorare? Per il pubblico? Giusto! Proprio per questo ignorante e pitocco che dice di amare i suoi Michelangeli, i suoi Tiziani, i suoi Raffaelli e i suoi Correggi perchè il dirlo non costa niente. Per la gloria? E chi l'ha mai conosciuta questa strega? Dunque? Per chi debbo lavorare? Per chi? — E s'era fermato in mezzo alla via con le mani sui fianchi fissando il terreno fangoso.

— Per i posteri! — gli rispose il triestino, posando in terra la valigetta che tentava di liberarsi dalla cordicella che la stringeva troppo.

— Bravo! — riprese allora lo scultore — Proprio per loro voglio logorarmi la vita! Per questi scrocconi dell'umanità. E che obbligo ho io di lavorare per i posteri? Forse per dare il gusto, di qui a mille anni, a un lustrascarpe milionario di comperare una mia statua per un milione di scudi? Bella soddisfazione! E poi scusa, perchè mai io dovrei lavorare per i posteri? Che cosa hanno fatto loro per noi?

— Niente! — sentenziò il triestino — Niente!

Intanto il vento fresco fischiava nella stradicciuola solitaria, sul cielo brillavano le stelle e dalle vicine campagne venivano i canti tremolanti dei grilli e il gracidare rauco delle rane.

[20]

* * *

Il giorno dopo andai a far visita allo scultore e lo trovai che lavorava attorno a un busto di creta. Ci stringemmo la mano come vecchi amici e mentre volgevo gli occhi verso il suo lavoro: — Per carità — esclamò — non guardi. È roba da morire. Lavoro dalla fotografia ed è proprio un martirio! Ma come si fa? Vivere bisogna!

— Per altro somiglia. — dissi confrontando il busto con una fotografia che l'artista m'aveva presentata.

— Sentiremo che cosa ne penserà il committente. Giusto ora deve venire.

— Allora vuol dire che gli ultimi colpi di stecca glie li darà avendo a modello il vero.

— No, no — mi rispose egli ridendo. — Il committente è il figlio di questo busto.

— Dunque il busto...

— È morto. — soggiunse lo scultore accarezzandogli il naso col pollice; — lo modello per commissione del figlio che mi ha mandato questa orribile fotografia.

A questo punto s'udì picchiare alla porta.

— Le sono d'incomodo? — dimandai.

— No, resti — riprese; e volgendosi verso la porta, disse ad alta voce: — Avanti!

Un uomo sorridente, avvolto in un mantello di panno nero foderato di lanetta verde, comparve su l'uscio esclamando: — Bongiorno!

— Bongiorno! — rispose il giovinotto stringendogli la mano con effusione e forzandolo a non togliersi il cappello a cono.

[21]

Io intanto m'ero seduto in un angolo di un canapè, su la cui stolta sdruscita ai ghirigori del tessuto si mescolavano schizzi di gesso e sberleffi di argilla secca.

— Dunque? — chiese il provinciale sempre sorridente, asciugandosi con un ampio fazzoletto turchino il sudore che gli scolava giù per le gote infiammate.

Lo scultore s'era avvicinato al cavalletto e aspettava, con le mani nelle tasche dei calzoni, fermo accanto alla testa di creta. Nel silenzio s'udiva il ronzio di un moscone impigliatosi in una tela di ragno su l'ultimo vetro del finestrone.

— Dunque? Il busto? — riprese il buon uomo sempre sorridendo e girando qua e là per lo studio gli occhi tondi.

— Eccolo. — disse alla fine il giovinotto, accennando la sua ultima creazione.

Ci fu un altro istante di silenzio; poi il provinciale smise di sorridere e appuntando l'indice teso verso il busto e gli occhi spalancati in volto all'artista, esclamò con voce rassegnata: — Questo è mio padre?

— Non le piace? — domandò il giovinotto, aggrottando le ciglia.

— Mah!

— Mah! caro lei — interruppe allora il mio amico animandosi — caro lei, dalla fotografia, capirà che si lavora a un di presso.

— Eh! Già! Capisco! La fotografia è un di presso — balbettò il pover'uomo; — ma la bona memoria di mio padre non aveva la barba.

— Non aveva la barba? E questa che cosa è? — dimandò allora lo scultore impazientito, mostrando al provinciale il ritratto da cui aveva ricavato il busto.

[22]

Il buon uomo lo prese in mano, e come l'ebbe guardato esclamò: — Ma questo non è mio padre!

Era avvenuto un equivoco deplorevole. Il fotografo incaricato di spedire all'artista la fotografia, in luogo di un ritratto ne aveva mandato un altro.

— Ed ora — chiese lo scultore — come s'accomoda? Lei m'ha mandato una fotografia, m'ha scritto di ritrarne un busto; il busto l'ho fatto. Dunque?

Seppi di poi come s'erano accomodati. Per venticinque lire di più sul prezzo stabilito, l'alunno di Fidia s'era impegnato a togliere la barba al busto, e a consegnarlo in tutto e per tutto somigliante al nuovo ritratto che gli sarebbe stato mandato.

* * *

La stanza vicina alla nostra era stata presa in affitto da tre pittori paesisti. Tre figure, che a vederle insieme non si poteva fare a meno di sorridere. Il primo, grassoccio, e alto come un granatiere, andava sempre attorno vestito con un costume di velluto che, a seconda della maggiore o minor quantità di luce che vi pioveva sopra, cangiava di colore. Perciò lo chiamavano il camaleonte. Il secondo, un giovinetto lungo, secco e nervoso come una donna isterica, portava sempre in dosso una lunga palandrana nera, sempre sbottonata, che gli scendeva fino alle calcagna; l'ultimo, basso e tarchiato, con la faccia grassa come una luna piena, con una selva di capelli rossastri e ricciuti, girava per il mondo, tanto d'estate quanto d'inverno, con un soprabito verdastro e un paio di stivaloni alla scudiera. I primi due più che dipingerlo il paesaggio, lo ragionavano. Il terzo [23] ascoltava sempre i suoi compagni accigliato e silenzioso, e all'ultimo, quando i due per il lungo parlare restavano senza voce, chiudeva tutte le discussioni con queste parole: — Non si può essere esclusivisti. È questione di coscienza. L'arte è una laguna.

Il camaleonte non ammetteva che si potesse togliere nemmeno un filo d'erba dalla scena che si ricopiava dal vero. L'altro invece gridava con la sua vocetta di galletto di primo canto, che il vero si deve copiarlo non come si vede, ma come si ama. E lui, lo amava come lo avevano amato Claudio di Lorena e il Pussino. Nutriva un odio furioso contro gli ortolani, e faceva risalire a quei poveri lavoratori della terra la causa della mancanza di buoni maestri di paesaggio.

— Ma se piantano gli alberi dove non stanno bene! — gridava, torcendosi come una biscia. E soggiungeva subito: — Fino a quando gli ortolani e i vignaroli non conosceranno il Liber Veritatis del grande Claudio, — e qui, se lo aveva in testa, si levava il cappello — fino a quando essi non sapranno piantar gli alberi dove devono essere piantati perchè stiano bene nel paesaggio, non avremo mai grandi paesisti. E io preferirò sempre di farmelo da me il mio paesaggio e di compormelo come lo amo io.

Allora il camaleonte, faceva una carica a fondo contro Claudio di Lorena; e quello dai capelli ricciuti, dondolando il suo testone, ripeteva invariabilmente: — Non si può essere esclusivisti. È questione di coscienza. L'arte è una laguna.

Del resto, benchè tutti e tre i nostri vicini avessero differenti idee sul paesaggio, in una cosa andavano perfettamente d'accordo: nel non dipingerlo mai.

Accanto ai tre paesisti abitava un vecchio copista, e tutti lo chiamavano il professore Calendario.

[24]

— Ma perchè mai lo chiamate così? — chiesi un giorno allo scultore siciliano col quale eravamo divenuti intimi.

— Perchè si tinge la barba.

— E che cosa c'entra la barba col calendario?

— C'entra benissimo. Vedi: il mese, come sai, è composto di quattro settimane.

— Ebbene?

— Ebbene: il professore si tinge la barba una volta al mese; per cui dal primo giorno del mese all'ottavo, la sua barba è nera. Dall'otto ai sedici diviene marrone; dai sedici al ventiquattro tutti i peli del professore diventano rossicci; dal ventiquattro in su diventano gialli, e quando la barba del professore è gialla, vuol dire che siamo alla fine del mese.

— E allora è orribile essere al verde — ripresi io ridendo.

Vicino allo studio del professore s'apriva una terrazzina scoperta dove i modelli andavano a sgranchire le membra nei momenti di riposo, e per solito dalle dieci alle dieci e mezza, tempo permettendolo, c'era rappresentazione: ci andavano spessissimo a passeggiare Torquati Tassi e Beatrici Cenci, cardinali Ippoliti e moschettieri, Danti e conti goldoniani, frati dalle tonache scolorite e guerrieri medioevali, apostoli ed evangelisti; e, qualche volta non era difficile di vederci qualche Padreterno con gli occhiali che fumava la pipa, leggendo il giornale, o discorreva a tu per tu con una ciociara di Sora.

Dalla terrazza salendo una scalettina di legno si andava in una specie di piccionaia, dove abitavano una pittrice tedesca vecchia come una mummia, e un giovinetto magro e sparuto che era venuto a Roma, [25] mandatovi in pensione dal municipio di una piccola città delle Puglie.

Il giovinetto non appena arrivato qui era andato a visitare il museo vaticano per studiarvi la Trasfigurazione di Raffaello. Lassù aveva conosciuto la vecchia tedesca che copiava il quadro del grande maestro e avevan finito con l'unirsi, accomunando, a maggior gloria dell'arte, la loro miseria e il culto per il divino urbinate. Il giorno andavano in giro per i musei; all'imbrunire tornavano nel loro bugigattolo e quello che facessero là dentro nessuno lo ha mai saputo.

Un giorno, il pugliese venne nel nostro studio a dimandarmi non so più quale cosa, e mi raccontò che il suo municipio lo aveva mandato a Roma togliendolo dalla campagna dove guidava le pecore.

— Fin da fanciullo io scolpivo col temperino nel legno i ritratti dei miei compagni. — mi disse il pugliese, e cavato dalla tasca un quaderno che gli dava noia nel gestire, perchè parlando il giovinetto agitava nervosamente le braccia lunghe e magre, lo posò sul mio tavolino. Io gittai lo sguardo sul quaderno e vi lessi in cima alla prima pagina, scritto in bel carattere rotondo, questo titolo: Del modo come ti dovrai regolare per dipingere vecchie megere irate e brutte a guisa di furie infernali.

Non mi potei trattenere dal ridere, e come egli s'avvide che avevo letto il suo manoscritto, divenne di bragia, e con un atto brusco coprì con la mano il quaderno.

— Ma perchè — gli dissi — nasconde il suo lavoro e arrossisce? Dovrebbe esserne orgoglioso, mi pare.

E siccome io lo lodava del suo amore per l'arte si rabbonì e incominciò a parlarmi di un quadro che [26] egli stava dipingendo (quadro che nessuno vide mai), e di certe preparazioni esperimentate con molta fortuna.

— È inutile illudersi — mi disse poi — gli antichi preparavano tutti. E questa è la ragione dell'eccellenza della loro arte. — Ah! se potessi avere nelle mani un quadro di Tiziano! Glielo vorrei far vedere io quello che c'è sotto.

— E che cosa vuole che ci sia?

— Ma lei si vuol levare un gusto? — riprese allora interrompendomi il pugliese. — Lei vada in una galleria, gratti il cielo di un quadro di Tiziano e vedrà che ci trova sotto...

— Per lo meno un paio d'anni di manicomio! — esclamai io, ridendo.

— Ma lasci andare gli scherzi! Lei raschi un cielo di Tiziano e vedrà che sotto al turchino ci troverà il cinabro. Eh! caro lei, oggi la pittura si fa a orecchio. Oggi non si prepara più. Non si vela più: e pure, dica quello che vuole, ma la forza dei veneziani consiste appunto nelle velature e nelle preparazioni. — E, mentre io lo ascoltavo, prese a discorrermi di Cennino Cennini, e di un professore suo amico che gli aveva dato consigli e precetti di pittura; e dopo di avermi spiegate talune astruserie sui varii sistemi di dipingere «in fresco», all'olio e all'acquarello; sprofondò una mano nella tasca del suo abito e ne cavò fuori due uova.

— Due uova? — dissi interrogandolo con gli occhi.

— Già, due uova. E sa che ne farò?

— Lo immagino.

— No... No... Con queste uova rafforzerò la spina dorsale del mio quadro.

Io lo guardavo sorpreso, ed egli contento della [27] mia ignoranza posò le uova sul tavolino e rificcata la mano nella tasca ne cavò un involtino.

— Che cosa è? — gli chiesi.

— Guardi — disse aprendo la carta. — È miele, e ci dipingerò il terreno del mio quadro.

E siccome io rideva, egli alzando il pollice nel vuoto, riprese a dire: — Guardi bene. Qui nero d'avorio — E agitava il pollice come se desse il colore sulla sua tela. — Qui sopra una brava velatura di giallo battuto impastato col miele; e quando sarà diseccata, una buona lavata con questo.

— E lì che altro c'è? — chiesi additando un altro involto che egli avea cavato di tasca.

— È sapone. — E in così dire mi mostrò un pezzo di sapone nero da lavandaia.

Io non osando più di contradirlo allungai lo sguardo su un nuovo involto che gli usciva da un'altra tasca dell'abito. Il pugliese appena s'avvide della mia curiosità, cavò fuori anche quella carta e la svolse. C'era dentro una fetta di pane.

— E se è lecito con quello che cosa ci dipingerà? — ripresi io sorridendo e accennando il pane.

— Il mio pranzo, — ripigliò il pugliese fieramente: e se ne andò.

Il giorno dopo gli domandai quale successo avessero avuto i suoi esperimenti. Egli diventò rosso, annaspò poche parole, mi stese la mano e si allontanò.

Compresi tutto. Il disgraziato non aveva avuto la forza di resistere agli stimoli dello stomaco vuoto, e così il miele che dovea stemperar coi colori per il terreno del suo quadro, lo avea spalmato sulla fetta di pane; le due uova, invece di amalgamarle ai colori del cielo per dar luce e smalto al dipinto, le avea cotte al tegame, e il sapone... Oh! il sapone era [28] l'unica cosa da lui serbata per la pittura: almeno a giudicarne dalle sue mani!

* * *

Ma forse il più bel tipo fra tutti era il segretario dello stabilimento: un vecchietto magrolino, con una barbettina biancastra su le guance rugose color di terra cotta, coi riccioli incolti della capigliatura che gli uscivano di sotto alla tesa unta di un cappellino a cencio. E perchè camminava a passi brevi e misurati con una certa languidezza di movimenti, benchè i suoi genitori lo avessero battezzato col nome di Nicola, lo chiamavano tutti Nicoletta.

Lo chiamavano anche segretario; perchè era lui che spazzava gli studii, faceva gli sgomberi, e portava in giro i quadri; infine perchè era lui che faceva qualunque altro servizio potesse occorrere agli artisti dello stabilimento.

Per lunghi anni aveva esercitata la professione del modello; ma poi l'aveva abbandonata perchè, come soleva dire, li tempi s'annuvolaveno. E mettendo insieme poche tegole tolte alle case vicine, qualche tavola tarlata presa negli studii e qualche albero secco portato via dagli orti vicini, s'era costruita una specie di capanna a ridosso di un muro dello stabilimento, e in quel rifugio passava tranquillamente le sue giornate, fumando la pipa e fabbricando torce di resina.

So' solo! — diceva sempre — So' solo, e sarv'ognuno, quanno ho magnato io, hanno magnato tutti.

Egli avea incominciato a posare da angioletto per Thorwaldsen; avea posato da Redentore nello [29] studio di Podesti e da Immacolata Concezione in quello dell'Agricola. Tenerani lo avea effigiato in marmo con un paludamento greco: aveva indossato un robone serico da consigliere della Repubblica veneta nello studio del Celentano; Fracassini lo avea dipinto, ricoperto di stoffe preziose, in costume da grande di Spagna; Rosales da romano antico e Fortuny da vecchio nobile del settecento. Poi il buon Nicoletta, visto che li tempi s'annuvolaveno, si era ritirato dalla professione. Ma pur fabbricando torce a vento era rimasto ognora affezionato agli artisti che, anche se vecchi, egli chiamava «quelli regazzi!» Alle loro dimande rispondeva sempre: — Penso io! — Pur di rendere un servigio a un artista si sarebbe gettato dalla finestra. Dolcissimo di carattere, avea però due odii i quali non s'erano spenti in lui neanche dopo di aver abbandonato il mestiere del modello: odiava ferocemente la pittura di paesaggio e i manichini. I quadri di paesaggio a suo giudizio erano robetta da gentuccia volgare che, come solea dire, nun ci ha gnente nè qui — e così dicendo s'appuntava l'indice sulla fronte — nè qui — e si batteva con la destra il taschino vuoto del suo corpetto.

Così egli definiva l'arte del paesaggio. E soggiungeva poi: — A dipigne' l'arberi tutti so' boni. Puro le donne!

Ma per vedere andar fuori dei gangheri il buon vecchietto, bisognava nominargli il manichino. Allora non ragionava più. Stralunava gli occhi, stringeva i pugni e urlava con voce irata: — Canajie che rubbeno er pane a li poveri modelli! — diventando rosso e digrignando i pochi denti che gli erano rimasti, se ne andava tossendo rabbiosamente. Ma quando saliva negli studii per spazzarli, se gli riusciva di farlo [30] senza che alcuno potesse vederlo, andava ad allentare le chiavi che servono a moderare le giunture ai manichini; e quando vedeva un povero manichino dinoccolato e cascante, s'allontanava saltellando e sghignazzando appagato e contento.

* * *

Dalla parte ove s'era composta la capanna il modello fabbricante di torce a vento, v'erano altri tre studii da scultore e una cantina che veniva chiamata il museo, dove si raccoglievano continuamente gli oggetti utili ed inutili che gli artisti, partendo, lasciavano nelle stanze o perchè fosse loro impossibile di trasportarli altrove, o più spesso in pagamento di qualche mese di fitto.

Visitai una volta il museo col padrone degli studii al quale avevo chiesto un cavalletto. Là dentro nella penombra si accumulavano alla rinfusa cavalletti e tavolini, cornici vecchie e divani con la stoffa strappata, cuscini sventrati e sedie senza paglia, cassette da dipingere sgangherate e disegni andati a male, busti di gesso senza naso e fagotti di cenci, statue senza testa e manichini ammuffiti, scheletri d'ombrelli da pittore e chitarre rotte, quadri sfondati e pennelli logori; e cento altri oggetti diversi.

Il museo si apriva quando qualche nuovo arrivato avea bisogno di un mobile per il suo studio, o quando se ne andava qualche vecchio inquilino; ma verso gli ultimi del mese, rimaneva sempre aperto chè ogni mese arrivavano nuovi affittuari.

Ne ho vista di gente arrivare e partire da quegli studii! Per lo più ci venivano molti giovinotti che [31] facevano risuonare allegramente gli ampii stanzoni con la letizia dei loro canti. Arrivavano tutti con una cartella sotto il braccio, un pane in tasca e una pipa in bocca; si fermavano per qualche mese e se ne andavano allegramente, alcuni pochi per avviarsi a conquistare un posto nella storia dell'arte, e molti altri per andare a finire i loro giorni in un lettuccio di qualche ospedale.

Pure, di tanto in tanto, vi capitavano alcuni vecchi col volto giallo dalla fame e con gli abiti dimessi: quasi sempre figure sconosciute di copisti di galleria.

I copisti!

Io non ho mai conosciuta una classe di persone più tragicamente comica, e più dolorosamente umoristica dei copisti di galleria.

Bisogna vederli quando al mattino di buon'ora se ne vanno taciturni e serii al loro lavoro; bisogna osservarli quando seduti innanzi alle loro tele con le larghe e morbide pennellesse di martora velano di lacca rosea le carni delle veneri e delle ninfe nel cospetto dei capolavori dell'arte antica ed ascoltarli quando nei momenti di riposo, adunati in crocchio, parlano dei loro maestri favoriti: già, perchè ogni copista ha il suo autore prediletto. Anzi ce n'è di quelli che riproducono soltanto un quadro di un dato autore, e a lungo andare finiscono col persuadersi che il quadro copiato sia opera loro.

Uno di tali copisti lo incontrai nella galleria Borghese. Era sui cinquant'anni, e a vederlo, di primo acchito, si sarebbe scambiato per un alto impiegato delle pompe funebri. Soprabito nero, cravatta nera, cilindro nero, camicia... stavo per dire nera.

Lo conobbi quando era in voga l'autore che copiava, anzi il quadro dell'autore da lui riprodotto; [32] perchè egli non faceva che riprodurre sempre il medesimo quadro: la Speranza di Guido Reni. Ne aveva fatte tante e tante di riproduzioni, tante e tante che nel suo mondo era chiamato: lo speranzoso. E sugli ultimi le sue copie le faceva a memoria. Ne dipingeva due al mese, e campava col frutto di quel suo lavoro. Ma un bel giorno, non so per qual ragione, ci fu ristagno nello smercio delle Speranze di Guido Reni, e al povero copista finirono i guadagni.

Lo rividi qualche tempo dopo, quando venne a chiedere in fitto una stanza nello stabilimento di studii. L'ebbe; e vi trasportò un cumulo di Speranze deluse. Poichè al povero copista che aveva continuato per tanti e tanti anni di seguito a dipinger due copie al mese del quadro di Guido, la forza dell'abitudine non gli permetteva di smettere. Per lui dipingere due Speranze di Guido Reni al mese era divenuta una necessità alla quale provava inutilmente di ribellarsi.

Verso i quindici di ogni mese egli diveniva malinconico, taciturno, intrattabile; la nostalgia del quadro del nobile e dolce pittore bolognese lo conquistava, e non ritrovava la pace se non di dopo essersi chiuso nello studio e d'aver dipinto le due copie mensili della ineluttabile Speranza, le quali, manco a dirlo, andavano ad accrescere il cumulo delle altre sue speranze purtroppo irrealizzabili.

Ne conobbi un altro che copiava sempre un affresco attribuito a Leonardo da Vinci. I quadri del Vinci li chiamava «i nostri capolavori». Sapeva a memoria la vita del grande pittore e la narrava così, come se raccontasse la propria. Le giornate le passava quasi tutte in S. Onofrio, e la sera, appena tornava in casa, andava a un tavolino, vi posava [33] sù le mani aperte, chiamava Leonardo e ci si metteva a discorrere, chiedendogli pareri, giudizi e consigli. Un giorno ci narrò con le lagrime agli occhi come avesse litigato con Leonardo per una certa velatura di lacca che il grande pittore voleva si desse a una ultima opera del copista, e finì esclamando con voce desolata: — Non capisce che se gli diamo la velatura roviniamo il quadro.

La lite durò parecchio tempo e prese anche una brutta piega. Difatti qualche giorno dopo lo incontrammo con un braccio al collo.

— Guardate! come m'ha conciato Leonardo — ci disse mostrandoci il braccio appeso al fazzoletto. — L'altra sera sempre per quella tal velatura abbiamo questionato di nuovo e mi ha dato un pugno che ancora ne sono indolenzito. — E come noi ci provavamo a consolarlo egli incalzò: — Ma che forza ha quel grande! Eh! già, altre tempre! Altri uomini i nostri vecchi! — E guardandoci come se volesse rimproverarci la nostra fiacchezza si allontanò. Lo rivedemmo poi felice e contento. Ci venne incontro con un'aria di letizia ineffabile e ci disse: — Abbiamo rifatta la pace! Abbiamo rifatta la pace! Guardate un po' — e in così dire ci mostrava una palla da bigliardo che poi ripose immediatamente in tasca — ora non mi scappa più; l'ho fatto entrare qui dentro. Siamo ridiventati amici. Ieri sera l'ho condotto a teatro. Come s'è divertito! Era così contento che me lo sentivo ballar qui, qui! — e si toccava il cocuzzolo con la mano scarna. La manìa dello spiritismo lo aveva fatto impazzire.

Una delle sue fissazioni negli ultimi tempi era quella di comperare qualche uccellino e di lasciarlo libero. Così faceva Leonardo.

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L'ultima volta che lo vidi fu una domenica di maggio a piazza del Popolo nell'ora del passeggio. Aveva comperato un mazzo di palloncini da due soldi gonfi di gas e sciogliendoli lentamente uno ad uno li mandava in aria, fra gli schiamazzi dei monelli, gridando che così faceva Leonardo.

Due guardie lo condussero, fra le risa della folla, prima in guardiola e poi al manicomio.

* * *

Ma fra i vecchi artisti che capitavano qualche volta fra noi i più ridicoli eran quelli i quali, benchè induriti nei vieti precetti dell'Accademia, avendo visto i giovani muovere a combattere in difesa dell'arte nuova che in quei giorni si chiamava «il vero», tentavano invano di sciogliersi dai tenaci legami che li avvincevano all'arte del Camuccini e dell'Agricola.

Non scorderò mai vino di costoro, che dovendo effigiare in un quadro d'altare il battesimo di Gesù, e non potendo andare a dipingere il suo quadro sulle rive del Giordano e non volendo d'altra parte perder l'effetto della verità, costrinse i suoi modelli, uno vestito da Gesù e l'altro da San Giovanni Battista, a restare in posa coi loro piedi immersi in una catinella, piena d'acqua marcia.

Però, ripeto, i vecchi che capitavano fra noi erano sempre pochi. Per lo più ci venivano molti giovinotti; sostavano qualche mese e se ne andavano lietamente.

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* * *

Ma uno che ci venne pieno di letizia e raggiante di speranza, ci rimase.

Era un buon figliuolo, piccolo e bruno venuto di Spagna. Il giorno lavorava sempre cantando e la notte dormiva nello studio fra i suoi bozzetti e la sua miseria. Quando sull'imbrunire noi uscivamo dallo stabilimento, passando innanzi alla sua stanza, gli davamo la buona notte, ed egli di dentro ci rispondeva cantando a squarciagola una canzone dei suoi paesi: una canzone dove c'entravano un re moro e una gitana di Siviglia; e mentre ci allontanavamo tenendogli bordone, sentivamo la sua voce a poco a poco affievolirsi, e volgendoci, sul cielo d'un azzurro scuro vedevamo rosseggiare per la luce della lampada il finestrone dello studio, dove egli passava le sue notti, lieto e spensierato, fra i suoi bozzetti di creta, e la sua miseria. Una sera come al solito gli urlammo la buona notte, ma la canzone del re moro non risuonò nella quiete della campagna. Bussammo alla porta. Una ciociara venne a dirci che lo spagnuolo aveva la febbre. Entrammo. Lo scultore si levò a sedere sul lettuccio e facendosi schermo con le mani agli occhi per non vedere la luce che lo infastidiva ci ringraziò, sorridendo e soggiunse: — Non è niente. È un po' di febbre. Grazie! — E si raggomitolò fra le coltri.

Uscimmo rattristati e la ciociara rimase a vegliarlo.

L'indomani sapemmo che il poveretto era stato colto da una perniciosa. Venne un medico e l'ubriacò di chinino. Volevamo condurlo via dallo studio; ma il medico ci disse alzando le spalle:

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— Oggi non è possibile. Sarebbe peggio. Vedremo domani, se il male scema. — E mentre parlava guardava curiosamente i bozzetti ch'erano disseminati nello studio. — Vedremo domani — disse ancora, e, dopo un'altra guardata ai bozzetti, se ne andò.

L'indomani lo scultore peggiorò, e, perduta la ragione, prese a discorrere del suo paese e della sua casa paterna. Delirava, e non appena il delirio cessava, ricadeva stordito sul lettuccio e il sudore gli gocciolava dalla fronte giù per le gote infiammate.

Agli ultimi momenti ebbe una allucinazione, che forse fu il suo estremo conforto.

A chi lo assisteva, dava nomi spagnuoli, forse quelli dei suoi cari; e quando l'agonia cominciò a straziarlo abbracciò teneramente la ciociara, che singhiozzava, e chiamandola con un filo di voce col dolce nome di mamma, baciandola e ribaciandola, le morì fra le braccia.

* * *

Ero innanzi allo studio del povero scultore, quando un signore vestito di nero, che Nicoletta, inchinandosi di quando in quando rispettosamente, onorava col titolo di signor commissario, venne a suggellarne la porta.

Nicoletta reggeva una candela, e il signore vestito di nero con qualche fettuccia bianca nella sinistra e un suggello in bocca, bruciava la ceralacca rossa sulla fiamma. Alcuni monelli, nè tristi nè lieti, interrotti i loro giuochi, stavano a guardarli. Il sole illuminava giocondamente il prato verde davanti [37] allo stabilimento e i mandorli in fiore biancheggiavano sul cielo sereno. Un quadro!

Sopraggiunse una modella che andava in cerca di lavoro e vedendo i due che ponevano i suggelli alla porta, mi venne vicino e mi domandò che cosa stessero facendo.

— È morto! — le risposi.

— Chi?

— Lo spagnuolo.

— Poveretto! — esclamò la modella; e rimase a capo chino, per un poco immobile; poi rialzò la testa, guardò il signor commissario che accendeva il sigaro alla candela, e soggiunse, sospirando: — Proprio adesso che m'aveva promesso un par de stivaletti de brunella!

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