I.

Nel vagone di terza classe viaggiano con noi un buttero dalla barba folta, che sonnecchia avvolto nel suo cappotto nero foderato di lana verde, una donna con un bambino sulle ginocchia, e un bel pretone il quale passa il tempo pigliando tabacco, starnutando e recitando il breviario. Quando sui colli della riva sinistra del Tevere incominciano ad apparire i vigneti già dispogliati del loro frutto succoso, la donna ci dice che a Arbano c'è ancora da fa' quindici giorni a la mózza, e il buttero sentenzia che da quelle parte de monno l'arie so' assai più frigide de queste.

S'ode gridare il nome di una stazione. Il prete si affaccia al finestrino della vettura e chiede a un inserviente di aprire; ma questi gli risponde: — Non si muova, reverendo, la macchina fa manovra e si parte subito.

Nelle stazioni seguenti il prete torna ad affacciarsi e ad implorare qualche minuto di fermata; ma il treno continua vertiginosamente la sua corsa inesorabile. Finalmente rallenta un poco il suo moto veloce, lo rallenta ancora e si arresta dinanzi ad una [208] cisterna perchè la macchina deve far acqua. Il prete scende e fa altrettanto.

Quando torniamo a muoverci, il paesaggio principia a diventar montuoso. Narni, la patria di Coccejo Nerva, di Giovanni decimoterzo e del Gattamelata, non avendo niente altro da fare, sdraiata sur un colle, fra gli ulivi, guarda un fiume verdastro dalle cui acque schiumose emergono gli avanzi di un ponte romano e di una torre medioevale. Lo guardo anch'io, e dimando al buttero: — Come si chiama questo fiume?

— La Nera. — mi risponde subito il buon uomo, ammirando la mia ignoranza, e prosegue, quasi cantando:

Il Tevere nun sarebbe Tevere,

Si la Nera nun je dasse da bevere.

A Terni scendiamo dal treno di Ancona e montiamo su quello di Aquila, accomodandoci alla meglio in una vettura, ove abbiamo la fortuna di trovare un signore il quale, appena arriviamo a Papigno, un paesello dietro a cui si vede un pezzetto di Cascata delle Marmore, ci dice con voce commossa che la linea Terni-Aquila non solo è la più bella linea ferroviaria della penisola, ma anche la più ardita, perchè in alcuni punti raggiunge una pendenza fra i trentacinque e trentasette gradi.

Lungo la via tutte le stazioni son piene di gente che ci saluta battendo le mani: in quella di Rieti oltre alla gente ed agli applausi ci troviamo anche dieci minuti di fermata, e noi ne approfittiamo volentieri per sorbire un caffè e per riverire la culla dei Flavii. Non appena ci rimettiamo in cammino il signore delle pendenze china a poco a poco la [209] testa sul petto, chiude gli occhi e comincia a ronfare come un contrabbasso: lo lascio stare, ma quando arriviamo a Cittaducale, una città che nel mille e trecento fu messa da Roberto d'Angiò, duca di Calabria, su la groppa di un colle, ove sta ancora, io, infastidito dal suo russare, lo risveglio e gli chieggo premurosamente: — Scusi, che pendenza abbiamo?

— Le cinque meno venti. — mi risponde subito lui, guardando con gli occhi velati dal sonno l'orologio, e dopo un lungo sospiro se ne ritorna fra le braccia di Morfeo.

Il treno intanto attraversa in gran fretta una vasta pianura e s'arresta davanti ai Casali di Paterno. Un acuto odore di zolfo, due laghetti, in uno dei quali, secondo Dionigi d'Alicarnasso, c'era una volta un'isola galleggiante dedicata dai Sabini alla dea Vacuna, e alcuni ruderi informi ci informano che siamo nel luogo ove un tempo fiorì l'antica città di Cutilia, tenuta da Marco Terenzio Varrone come l'ombelico d'Italia, e famosa per le sue acque ferruginose e sulfuree, buone, anzi buonissime per guarire da qualunque malanno: tant'è vero che Vespasiano essendosene servito per curarsi di non so quale sua malattia finì col lasciarci imperialmente la pelle.

Oltre i Casali di Paterno il treno varca più volte su ponti di ferro il Velino, s'indugia in vallette amene e solitarie, passa dinanzi a casolari fumanti, penetra fischiando in gallerie nere di fuligine, ne esce fra nuvole di vapore, e, dopo qualche istante di riposo, incomincia a inerpicarsi, brontolando, sui fianchi dirupati di un monte dietro a cui sorgono altri monti coi fianchi coperti di faggi e con le cime risplendenti di neve. Il signore delle pendenze, che s'è risvegliato definitivamente, s'avvicina al finestrino [210] della vettura; guarda tutto estatico i monti, gli alberi, la neve e il cielo; apre le braccia in atto di maraviglia ed esclama: — Questa è la Svizzera dell'Italia!

— È vero — soggiungo io. — Ma però, signor mio, se lei conoscesse l'Italia della Svizzera....

— In Svizzera non ci sono mai stato. — mi risponde lui.

— E io nemmeno. — gli rispondo io; e appena ho finito di dirglielo il treno manda una salva di fischi e si ferma. Siamo a Antrodoco.

* * *

Antrodoco giace in riva al Velino; e accerchiata com'è da gole profonde, ha la fortuna inestimabile di trovarsi ai piedi del monte Giano, in una posizione strategica di prim'ordine; la quale posizione le ha procurato il grandissimo piacere di essere stata distrutta e riedificata non so più quante volte e di essere stata sempre il teatro sanguinoso di orrende carneficine. Per tali ragioni essa, pur vantandosi di poter leggere il suo nome nel quinto libro della geografia di Strabone, non possiede nessuna reliquia illustre della grandezza passata. Difatti, quando vi andai, di cose e di case le quali mi rammentassero i tempi dell'insigne geografo greco, io non vi trovai se non l'albergo dell'Europa e il suo desinare. Però se alla piccola città abruzzese non è dato di poter mostrare ai visitatori nè mura, nè archi, nè terme, nè templi, nè castelli, nè torri, li può sempre rallegrare e confortare con la salubre abbondanza delle sue acque sane, limpide e sonanti, con la frescura [211] delle sue valli ombrose, verdi e fiorite, e con la vista dei monti che le sono d'intorno e la proteggono, levando sul cielo immacolato, quando non è nuvolo, i loro capi venerandi canuti di neve.

Dopo il desinare i miei compagni aprirono una carta geografica e si misero a cercarvi il modo per salire sulla vetta del monte Giano; ed io, lasciandoli alla geografia, me ne andai a far quattro passi nelle vie solitarie della cittaduccia, illuminata senza risparmio dal plenilunio sereno, nella speranza di incontrarmi in qualche cosa degna di ammirazione.

Fui fortunato. In una strada che saliva dolcemente verso la campagna e vi si perdeva, m'imbattei in alcuni contadini che facevano una serenata. Un vecchio, soffiando nel cannello di una cornamusa e stringendosene al petto l'otre rigonfio ne traeva suoni gravi e solenni come quelli che talvolta s'odono echeggiare sotto le volte delle chiese: accanto a lui un giovinetto, alzando di tanto in tanto un braccio verso una finestrella illuminata da un modesto chiarore rossiccio, cantava con voce fresca, giusta, piana e soave: gli altri nell'ombra, avvolti in ampii mantelli scuri, con le spalle appoggiate al muro, fumavano, e, pestando coi piedi il terreno, accennavano il movimento e le divisioni del canto. Le parole appassionate del cantore salivano soavissimamente nell'albore lunare, quando dalla parte della via, ove sopra alle ultime case appariva un ceruleo ondeggiare di monti, venne il rintoccare di un campanaccio. Il vecchio staccò le labbra dal cannello del suo strumento, e, mentre l'otre gli si sgonfiava fra le braccia, disse ridendo: — Le pecore!

— Le pecore! — replicò il giovinetto.

E l'uno e l'altro si avvicinarono ai loro compagni, [212] e tutti insieme, ridendo, sparirono nel vano oscuro di un angiporto.

I rintocchi del campanaccio si fecero più vicini; divennero più forti e una pecorella bianca uscì dall'ombra azzurra, che velava il fondo della strada, si guardò intorno sospettosa e si fermò, belando. Un'altra pecorella la seguì subito e le si strinse accanto. Ne vennero altre e poi altre, e poi altre ancora, e si fermarono tutte formando una massa compatta, biancastra ed immota. S'udì un fischio rapido e acuto, e due grossi cani neri saltarono innanzi, abbaiando. Le pecorelle ondeggiarono un poco e ritornarono immobili. Allora un pastore ne afferrò una per il collo, se la trascinò appresso per qualche passo e tutte le altre la seguirono. Quante ne passarono? Migliaia! Scaturivano dall'ombra come l'acqua da una sorgente, percorrevano un tratto di strada inargentato dalla luna, alzando ed abbassando la testa con moto uniforme, e scomparivano nell'ombra. Talora si fermavano tutte istantaneamente; ma un grido ed un sibilo bastavano a farle camminare di nuovo. Quante ne passarono? Migliaia! Non finivano mai! Quando finirono, dietro un vergaio, incominciarono a passare le capre. A branchi. Ogni branco era preceduto da qualche uomo intabarrato, che se allungava il passo mostrava di aver le gambe ricoperte da pelli villose, ed era seguìto da alcuni caproni barbuti i quali di tratto in tratto si alzavano sulle zampe posteriori e davano spettacolo, urtandosi fra di loro con le corna poderose. Appresso alle capre sfilarono asini e muli stracarichi di attrezzi pastorali, parecchie pecore azzoppate e diversi grossi cani con la gola coperta da collari di ferro irti di punte per salvargliela dai morsi dei lupi. Ultimo in fondo alla [213] via, annunciato da un allegro tintinnìo di campanelli e sonagli, apparve un carretto. Venne innanzi trascinato da tre cavalli, adagio adagio, scricchiolando, e quando mi fu vicino si fermò. Sui carretto fra una confusione indescrivibile di arnesi di legno, di seggiole, di panche, di casse, d'imbasti, di fiscelle, di fagotti, di secchie, di caldaie e di canestre, insieme con una donna, c'erano tre vecchi, tutti inviluppati in ruvide coperte di lana bianca: tre patriarchi! Uno di costoro, con le spalle addossate a una cesta intessuta di salci, da cui uscivano belati argentini e tremolanti, cavò un braccio fuori dalla coperta e me lo stese chiedendomi qualche fiammifero.

— Da dove venite? — gli chiesi, dandogli la scatola dei cerini.

Dalla montagna.

— E dove andate?

Allo piano.

Il carretto riprese a camminare lentamente, sgretolando con le ruote cigolanti i sassi che incontrava sul terreno, e si allontanò barcollando fra un pittoresco alternarsi di ombre azzurre e di luci argentee, alle quali si unì per due o tre volte anche il chiarore rosso dei miei cerini; raggiunse l'estremo lembo della strada da dove veniva ancora qualche belato, e si dileguò nella notte.

Avevo già incominciato a dileguarmi anch'io e scendevo piano piano la via silenziosa, tutta piena dì polvere e di un grave lezzo caprino, ripensando alle emigrazioni delle genti ariane sui pingui altipiani dell'Asia bagnati dall'Indo, nonchè ai miei compagni, i quali forse mi aspettavano con impazienza sui non pingui altipiani dell'albergo dell'Europa bagnati dal Velino, quando dietro a me udii risuonare di nuovo [214] gli accordi della cornamusa. Mi voltai. I contadini erano tornati ai loro posti e ripigliavano la serenata.

Il giovinetto con la voce resa più chiara dal breve riposo cantava:

Gliu tempo a darme freddo e io tremare,

L'amore a darme pena e io suffrire.

La luna piena, immobile sulle nevi del monte Giano, dopo di avere illuminata la strada ai pastori, pareva che si fosse fermata in mezzo al cielo per ascoltare il giovinetto innamorato.

[215]

Share on Twitter Share on Facebook