II.

Fra i non molti piaceri, elevati e profondi, dei quali un alpinista può godere nella sua breve permanenza in questa misera valle di lagrime io credo che non ve ne sia uno superiore a quello di trovarsi nel cuore della notte, su un monte, dinanzi a due sentieri, e non sapere quale scegliere. Prima di decidersi a mettere i piedi stanchi nell'uno o nell'altro, bisogna consultare la carta geografica; ma per poterla consultare è necessario di accendere la lanterna, e dieci volte su nove, quando dopo molto cercare s'è trovata la lanterna, non si trova la candela; e se si trova la candela, non si trova la lanterna.

E allora? Eh, allora si tenta di illuminare la geografia coi cerini. Il vento gelido ve li spegne fra le dita. Intanto da lontano vengono lunghi abbaiamenti. Son cani di guardia in qualche addiaccio i quali vi lasciano interamente liberi nella scelta del sentiero, ma vi avvertono di non accostarvi nemmeno per burla alle reti ove riposano le pecorelle, perchè se no, saranno guai! Insomma, dopo una lunga sosta davanti ai due sentieri, non potendo pigliarli tutti e due, si finisce per pigliarne uno, e dopo qualche ora di cammino faticoso si finisce anche, ohimè, con l'accorgersi che se si voleva andare diritti bisognava [216] pigliare l'altro, quello che s'è lasciato! Qualche cosa di simile, su per giù, accadde a noi la notte che lasciammo Antrodoco per salire sulla vetta di monte Giano. Dal fondo della valle eravamo già arrivati felicemente a metà del monte quando, per nostra disgrazia, sperando di risparmiarci un tratto di salita, entrammo nella gola di un fosso, del più perverso e malvagio dei fossi, il quale ci seppe così bene ingannare che noi, dopo qualche ora di aspro e disagioso cammino, invece di trovarci in cima a un monte, ci trovammo in cima a un piano, sotto Rocca di Corno, senza poter vedere nè la Rocca nè il Corno; perchè la luna se ne era andata per i fatti suoi, lasciandoci al buio.

— E ora che cosa si fa qua in mezzo? — dimandò uno di noi. Per fortuna la risposta gliela diede subito un lumicino che incominciò a brillare da lontano nelle tenebre. Quel lumicino fu per noi il più bel giorno di quella notte! Difatti guidati dai suoi deboli raggi, dopo di esserci perduti e ritrovati un'altra volta, potemmo finalmente entrare in una umile capanna, ove, oltre a uno stizzo verde ardente da l'un dei capi e gemente e cigolante dantescamente dall'altro per il vento che andava via, vi trovammo una bottiglia d'acquavite, tre contadini, una donna addormentata sur una sedia, e un vecchio seduto sopra una madia il quale si infilava un paio di brache rattoppate. I miei compagni, appena ebbero saputo dal vecchio il nome e cognome del luogo ove eravamo, ripresero subito a studiar geografia, umettandola con qualche sorsatina di acquavite; io non potendo più reggere al supplizio del fumo uscii dalla capanna con gli occhi lagrimosi e mi trovai davanti a un porco grasso e grosso il quale levando il grifo [217] verso l'oriente, ove apparivano già i primi bagliori antelucani, mi diede fraternamente e fragorosamente il buon giorno. Ohimè! Quale delusione! Sapete? Se qualcuno vi viene a dire che i porci abruzzesi sono violetti guardatevi bene dal crederlo; se no, capitando una volta o l'altra quassù, voi dovrete subire, come è avvenuto a me, la più atroce delle delusioni. No! I porci abruzzesi non sono violetti, ma sono dello stesso colore di quelli romani, nè più nè meno. Tutto il mondo è paese. Ma a proposito di delusioni. Quando io e i miei compagni ci radunammo in una stanza del Club Alpino per mettere insieme il programma della nostra escursione a monte Giano, qualcuno, come avviene sempre in simili circostanze, prese ad enumerare le molte maraviglie e d'arte e di natura che avremmo incontrate per via. Lo lasciai dire; ma appena egli finì di parlare delle cose mirabili, io a mia volta incominciai a favellare di quelle incredibili di cui, secondo alcuni, si gloria questa Terra Vergine, forte e gentile.

— Vedrete, vedrete! — dicevo ai miei amici. — Vedrete quale straordinario paese è l'Abruzzo. — E mentre qualcuno per principiare a vedere s'aggiustava sul naso gli occhiali, io seguitavo: — Figuratevi! Una quercia nei nostri paesi da qualunque parte uno la guarda è sempre una quercia, non è vero? Ebbene in Abruzzo invece una quercia non è mai una quercia, ma è sempre un atleta che leva le braccia al cielo. E i pioppi? Qui da noi i pioppi sono di legno; nel paesaggio abruzzese invece sono di metallo come i soldatini da quarantotto centesimi la scatola. Ridete? Ma laggiù non solo troveremo di metallo gli alberi, ma anche le persone, perchè gli uomini e le donne colà sono o di rame o di bronzo: [218] da questi due metalli non s'esce. E fra gli uomini ne troveremo certamente anche qualcuno fuso in bronzo antico; e quando lo avremo trovato, lo sentiremo vibrare, perchè nelle contrade abruzzesi tutte le cose vibrano in modo così sonoro da sembrare perfino impossibile.

— Ma tu ci dài a bere frottole alquanto madornali! — esclamavano in coro i miei amici, ridendo.

— Frottole? — ribattevo io. — Frottole? Ma verità sacrosante, scritte e stampate — e seguitavo: — Vedete, da per tutto la luna, quando c'è è d'argento; in Abruzzo invece è di platino ed ha il vantaggio inestimabile di non essere mai attaccata dall'ossido dell'aria; colà il cielo per lo più è di cobalto e le nubi son quasi sempre di madreperla come i bottoni delle mie mutande; gli alberi or sì e or no sono consapevoli, ma le loro radiche son tutte fatte di vipere morte; i fiumi sono ognora fedeli ed hanno la superficie piena di piastre d'oro e di lamine d'argento: e quando gli uomini vi nuotano dentro cotesti uomini diventano immediatamente tutti cefali bianchi; difatti ai pescatori di canna avviene spessissimo di dover sbrogliare l'amo dalla bocca di qualche nuotatore e di doverlo ributtare nell'acqua dicendogli: — Scusi tanto, sa, l'avevo preso per un cefalo. — Ma tutto questo poi è nulla in confronto di quanto vi farò vedere io che conosco i luoghi.

— Come? Conosci i luoghi? Ma se tu in Abruzzo non ci sei mai stato.

— E che vuol dire? Se non ci sono mai stato ne ho lette, viste e sentite tante descrizioni in prosa e in poesia, in pittura e in musica che è come se ci fossi nato. Ed è proprio per questo che io, quando saremo laggiù, vi potrò far vedere certe cose non [219] solo incredibili, ma incredibilissime. In Abruzzo noi ci resteremo per qualche giorno. Ebbene, in una sera di uno di cotesti giorni, non appena i velami insensibili del crepuscolo saranno discesi a poco a poco sulle cime del pioppi discreti, io vi condurrò sulla riva di un fiumicello e colà, mentre le cose dormiranno in un letargo vegetale nella mansuetudine della luna, io vi mostrerò....

— Che cosa?

— La Venere d'acqua dolce.

— Cioè?

— La Venere d'acqua dolce.

— Ma sei matto? — mi chiedevano gli amici, sbarrando tanto d'occhi.

— Matto? — ripigliavo io. — Matto? Ma più savio di tutti e sette i savi messi insieme. — e continuavo: — Del resto la vostra sorpresa non mi sorprende. Voi ignorate che la Venere d'acqua dolce....

— Ma, insomma, questa Venere d'acqua dolce che cos'è?

— La Venere d'acqua dolce è il più maraviglioso fenomeno che mente umana possa immaginare. Esso avviene in Abruzzo, e si svolge, tempo permettendolo, in parte sulle rive e in parte nelle acque dei suoi fiumicelli. E quando uno lo vuol vedere, non ha da far altro che scendere sulle sponde di uno di cotesti fiumicelli, mettersi a sedere su l'erba, fra il rabbrividire delle canne tendenti a rifiorire, e aspettare: il resto viene da sè. E questo resto non solo viene da sè, ma, tranne qualche piccola variante, viene sempre nello stesso modo. Tu, per esempio, sei seduto e aspetti? Ebbene, quando meno te lo aspetti, all'improvviso, il vento ti reca un sentore di carne. Tu ti volti dalla parte del sentore, e vedi [220] scendere verso il fiume una donna dalla pelle bronzina di mulatta, florida e bionda non che seminuda. È la Venere fluviale! Tu la lasci scendere e rimani fermo a vedere che cosa succede. Una cosa semplicissima! Ella appena è arrivata sulla sponda della riviera prima, per necessità della rima, si mette a fiutare il vento come una levriera, e poi si gitta nel fiume e vi si immerge, fra un gregge di foglie, fino all'ombelico. Tu la lasci fare, ma quando ti sembra arrivato il momento opportuno incominci a bramire come un cervo in disio. Allora la donna dalla pelle bronzina si volta e, invece di scappar via o di pigliarti per matto, si mette a imitare anche lei il bramito del cervo, e di bramito in bramito ti viene accanto. Tu allora, senza tanti complimenti, la pigli per le braccia e irrigidisci come forse non ti sei mai irrigidito e come certamente non t'irrigidirai mai più. E questo è tutto! Però qualche volta ci potrebbe essere anche dell'altro, perchè se mai l'irrigidimento accadesse nel plenilunio di calendimaggio allora nel momento più culminante dell'irrigidimento suddetto i pioppi che sono consapevoli incomincerebbero a cantare in coro e il letargo vegetale sarebbe rotto da un fragoroso scampanìo. Ma del resto anche se ciò avvenisse non ci si dovrebbe badare, prima perchè i pioppi se sono consapevoli sono anche discreti, e poi perchè lo scampanìo non verrebbe da nessun campanile vicino, ma dal peccato d'Eva squillante a gran martello nelle giovini carni come sopra sonore lamine di metallo.

Ohimè! Come ve la potrei descrivere la sorpresa dalla quale io fui fulminato, quando appena messo il piede in Abruzzo io mi avvidi che di tutte quante le cose mirabili ed incredibili delle quali avevo parlato [221] ai miei amici, qui, in questa Terra Vergine non ne esisteva neppure l'ombra?

Ohimè! Le querce e i pioppi? Ma che metalli d'Egitto! Sono proprio di legno come gli alberelli della nostra Via Nazionale. Gli uomini e le donne? Ho picchiato con le nocca sulle loro carni, perchè talvolta l'apparenza inganna, e invece di trovarli di bronzo e di rame, li ho trovati tutti di carne e d'ossa come noi. La luna di platino, il cielo di cobalto, le nubi di madreperla, le foreste di ametista, le radiche degli alberi fatte di vipere morte, i pioppi consapevoli e discreti, i fiumi fedeli, i cefali bianchi e le altre mille cose straordinarie, che io avevo lette tante volte in poesia, ed ero certo di trovare qui in prosa, le ho ancora da vedere. Son rimasto seduto non so più quanto su le rive di un fiumicello in attesa della Venere fluviale: è venuta una contadina: le ho fatto il bramito del cervo in disio, e se non scappavo presto m'accoppava! Ho seguito per lunghe e lunghe ore la gente delle città e delle campagne nella speranza di udire qualche vibrazione: tempo buttato! Le nari non le ho sentite vibrare altro che quando questo popolo forte e gentile si soffia il naso, magari con le dita; le terga.... Ah! le vibrazioni delle terga le ho intese una volta e m'auguro di non sentirle mai più.

Eppure anche senza vibrazioni poetiche di alcun suono e senza cose e persone provenienti da preziose fonderie letterarie questa degli Abruzzi è certamente la bellissima fra le più belle regioni d'Italia. Ricordo ancora le parole di maraviglia che fiorirono sulle labbra dei miei amici allorchè essi, usciti dalla capanna miserabile, ove ci aveva portati l'inganno tenebroso del fosso maledetto, videro il sole sorgere trionfalmente dalla cima candida del monte Giano [222] e percuotere coi suoi raggi d'oro un rincorrersi glorioso e infinito di montagne azzurre e violacee rivestite di castagni e di querce, di faggi e di carpini, e sfavillanti di neve.

Era una di quelle mattine limpide ed abbaglianti d'autunno nelle quali talvolta il cielo e la terra, i monti e le acque, gli alberi e le piante, prima di inoltrarsi nella tristezza invernale, par che vogliano ancora una volta allietare il viandante con gli incanti innumerevoli delle loro forme e dei loro colori. Dovunque volgevamo gli sguardi, fra l'erbetta verde, e rilucente di rugiada, migliaia e migliaia di piccoli fiori gialli, rossi, bianchi e turchini tremolavano e risplendevano nell'aria vitrea e profumata sotto al sonoro ronzio delle api. Intorno a noi, via via che il sole s'innalzava sui monti, tutto pareva ingrandirsi a poco a poco e farsi più bello, più lucente, più vivo: e un venticello frizzante, ma piacevole ci invogliava a camminare.

Per isfuggire alle insidie di altri fossi prendemmo con noi un contadino esperto conoscitore dei luoghi, e mentre dalle macchie basse e vicine veniva un festoso zirlare di tordi, lasciammo la strada bianca che porta a Rocca di Corno, e per sentieri umidi di brina, fra le cui siepi vive svolazzavano i pettirossi e gli scriccioli, salimmo alle Vignòle, ove alcuni pochi filari di viti avean già coperto il terreno con le loro foglie gialle e cineree; entrammo nel letto ghiaioso di un torrente e incominciammo la salita del monte. All'improvviso la terra ci tremò sotto ai piedi e dietro a noi scoppiò un fragore infernale. Un treno uscì dalla bocca nera di una galleria, traversò fischiando come un rettile enorme un breve spazio di roccia, entrò in un'altra bocca nera di [223] un'altra galleria, che sembrò inghiottirlo, e disparve. Figlio d'un cane! Gli bastarono pochi istanti per insudiciare col fumo del carbone il cielo sereno e per impuzzolire l'aria pura con un nauseoso fetore di olio rancido e di grasso abbruciacchiato.

A liberarci dal fetore ferroviario ripigliamo subito il cammino, e quando, dopo una non piccola fatica, ci riesce di levare i piedi dal letto del torrente ci troviamo dinanzi a macigni colossali: strisciandovi addosso con molta pazienza li giriamo, e allora, fra le giogaie vicine del monte Terminillo e quelle lontane del Gran Sasso appare ai nostri occhi una immensa pianura ondulata e verde, solcata da fiumi e seminata di paesi, digradante nell'azzurro fino all'Adriatico. Alla vista del maraviglioso spettacolo noi ci sentiamo conquistare da una letizia indicibile; ma il contadino che ci accompagna, serio e taciturno, la nostra letizia non la divide per niente affatto.

Il superbo panorama di cui noi godiamo ei non lo degna neppure del più modesto dei suoi sguardi, e tutta l'attenzione della quale egli può disporre la concentra sulle nostre umili persone e rimane a guardarci a bocca aperta. Insomma per lui il suo panorama siamo noi! Ciascuno ha il panorama che si merita.

Dopo un breve riposo proseguiamo la salita: traversiamo a gran fatica vasti campi di neve molle, affondandovi fino a mezza gamba; torniamo ad arrampicarci su rocce aspre, e dopo di aver pestata ancora neve e superate altre rocce, finalmente arriviamo sulla cima. Un vento che ci porta via ci costringe ad accovacciarci subito fra alcuni scogli; e quivi al riparo della formidabile borea confortiamo i nostri occhi con la vista di un panorama magnifico. [224] e il nostro stomaco con una modestissima colazione. Ma appena finisce la colazione finisce anche il vento, e col vento finisce, ahimè, anche il panorama; poichè gruppi numerosi di nuvole grige, salendo a poco a poco da tutti i lati del monte, ci avvolgono, piovigginando, in una nebbia fitta fitta, e ci consigliano di incominciare la discesa.

Poco prima di rientrare in Antrodoco incontriamo l'ombra umida della sera, che, uscita appena dalle gole del Velino, incomincia a salire adagio adagio sul monte da cui noi discendiamo. Le auguriamo il buon viaggio, e, dopo una breve sosta nell'albergo dell'Europa, ci rechiamo alla stazione. Colà un vecchio contadino mi si avvicina, guarda con molta attenzione le mie scarpe, e mi dice a voce bassa, come se volesse rubarmi un gran segreto:

Che sei stato a fa' lassù in cima?

— Dove?

Lassù in cima! — ripete il contadino, indicandomi il monte Giano su la cui vetta si spengono gli ultimi chiarori del crepuscolo.

— Niente! — gli rispondo — Lassù in cima ci sono stato per divertimento.

Per divertimento? — esclama il vecchio con voce incredula. — Per divertimento? — e rimane per qualche istante in silenzio: poi guardandomi con gli occhietti arguti, soggiunge tentennando il capo: — Ma scusa, lei non tieni niente de meglio da fare a casa tua per venirete a scapiccollà' fra 'sti sassi?

Fortunatamente il treno arriva in buon punto per liberarmi dal contadino e dalla risposta che pur troppo, dovrei rispondergli.

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