Prefazione.

Un filosofo della scuola di Socrate, nominato Aristippo, sbattuto dal naufragio al lido di Rodi, si narra, che avendo ivi vedute delineate alcune figure geometriche, avesse ad alta voce detto: Allegramente compagni, quì ravviso tracce d’uomini, e subito s’incamminò verso Rodi, portandosi a dirittura al ginnasio, e messosi ivi a disputare di filosofia, ne riportò tanti doni, che non solamente ne providde la persona propria, ma somministrò anche vestito e vitto a’ suoi compagni. Avendo poi voluto questi compagni ritornare alla lor patria, domandarono a lui, qual nuova voleva, che recassero alla sua casa; ed egli impose loro di avvertirgli, che pensassero ad ammannire per i figli possessioni, e vettovaglie tali, che si potessero salvare dal naufragio insieme con loro: perciocchè quelli sono i veri sussidi della vita, i quali non possono patire danno nè per avversa fortuna, nè per cambiamento di governo, nè per guasto di guerra. Parimente Teofrasto, amplificando la comune sentenza di dovere lodare piuttosto i dotti, che i ricchi, dice, che il dotto solamente fra tutti non è nè forestiero nei paesi stranieri, nè scarso d’amici, anche perdendo i suoi familiari e parenti, ma è cittadino in ogni paese, e può senza timore disprezzare gli strani accidenti della fortuna: colui all’incontro, il quale si crede esser ben cautelato colle sole forze non della scienza, ma della fortuna, stenta, camminando per istrade sdrucciolevoli, una vita instabile e pericolosa. Epicuro quasi nella stessa maniera dice, che in poche cose la fortuna aiuta i savj, ma quelle, che sono le maggiori e le necessarie, intieramente dipendono dalla mente, e dalla ragione.

Questo che han detto molti filosofi, lo hanno detto anche i poeti, che scrissero anticamente delle commedie in Greco, facendo sulla scena recitare quelle stesse sentenze in versi: tali furono Eucrate, Chionide, Aristofane, e sopra tutti Alessi, il quale disse doversi lodare gli Ateniesi, perchè ove le leggi di tutti i Greci obbligano tutti i figliuoli a nutrire i loro genitori, gli Ateniesi obbligano solo quelli, che fossero stati da’ medesimi istruiti in qualche arte. Perocchè tutti i doni della fortuna ci possono essere dalla medesima facilmente tolti; ma le scienze radicate nell’animo non vengono mai meno, e durano stabilmente sino all’ultimo della vita.

Per questo capo sono io infinitamente tenuto ai miei genitori, perchè seguendo la legge degli Ateniesi, non hanno trascurato di farmi apprendere un’arte, anzi una la quale non può valere senza le buone lettere, e senza la cognizione universale di tutte le scienze. Poichè dunque e per la cura dei genitori, e per gl’insegnamenti de’ maestri ho accresciuto il materiale delle scienze, e collo studio delle teorie, delle pratiche, e de’ libri ho procurato al mio animo tali possessioni, dalle quali ho ricavato il frutto di non aver più bisogno di niente; ed in fatti il potere delle ricchezze principalmente si ristringe a questo, di non far mancare niente. Alcuni forse, avendo basso concetto di queste cose, giudicano solamente savj coloro, i quali sono ricchi di danari; quindi molti mirando a questo fine hanno acquistata fama col mezzo delle ricchezze accoppiate all’alterigia. Io però, o Cesare, non mi sono già applicato ad accumulare danaro colla mia arte; ma ho stimato meglio andare appresso a una mediocrità col buon nome, che alle ricchezze col cattivo: egli è vero, che ho acquistato poca fama, ma pure spero di essere noto a’ posteri con questi miei libri, che do alla luce.

Non è certo da meravigliarsi, se io sono ignoto a molti: gli Architetti pregano, e vanno attorno per essere adoprati; io però ho imparato da’ maestri, che bisogna esser pregato, non già pregare per ricevere una incombenza, perchè l’andare a domandare una cosa sospettosa accende di rossore un volto sincero; giacchè si fa la corte a chi dà, non a chi riceve gl’incarichi. E di vero che crediamo noi, che sospetti chi è richiesto da alcuno a commettergli la cura di far le spese per un patrimonio, se non che tutto si faccia a fine di predarvi, e di guadagnare? Quindi è, che gli antichi non commettevano opere, se non ad architetti, primieramente di buona nascita, e poi bene educati: stimando doversi servire dei modesti, non degli arditi. Gli stessi artefici poi non ammaestravano, se non i proprj figliuoli, o parenti, formandogli sopratutto uomini dabbene, ai quali si potesse senza timore consegnare con buona fede il danaro. E perchè veggo, che questa nobile scienza è malmenata dagl’ignoranti, ed inesperti, e da chi non solo non sa di architettura, ma nè meno che cosa sia fabbrica, non posso abbastanza lodare quei padri di famiglia, che fidando nel proprio sapere, fanno essi da architetti, sul supposto, che una volta, che si ha a dare in mano d’ignoranti, sia di dovere, ch’essi medesimi spendano il proprio danaro a piacere loro piuttosto, che di altri. Quindi è, che nessuno si adatta a fare in casa propria verun’altra arte, come del calzolaio, dell’imbiancatore, o altra ancorchè sia facile, ma solo quella dell’architetto: appunto perchè quelli, che la professano, non a ragione, ma falsamente si chiamano architetti. Questo è il motivo, che mi ha indotto a stendere un trattato intero d’Architettura, e di tutte le sue regole, sulla lusinga, che questo dono non abbia a riuscire dispiacevole a qualunque sorta di persone. Nel quinto libro dunque ho trattato de’ comodi delle opere pubbliche; nel presente spiegherò le distribuzioni, e le simmetrie delle case private.

Share on Twitter Share on Facebook