Scoccavano le undici ore all'orologio della vecchia chiesa in fondo alla strada, quando nel silenzio e nel buio s’udì un improvviso tintinnìo di vetri cadenti che s’infrangevano nel selciato e un grido soffocato risuonò nella notte:
— Aiuto!
E in pari tempo una vampata rossastra infiammò la murata di fronte ad un vecchio palazzotto, per solito assai quieto e silenzioso.
La voce – di uomo – ripetè più forte:
— Aiuto! salite!...
Il portinaio della casa di fronte, che aveva chiuso da poco il portoncino, mise fuori la testa dalla sua finestruola e alla moglie, già in letto, che sbigottita lo interrogava, disse concitato:
— Gesummaria! brucia su in casa del signor Pompeo!
E siccome era un uomo piuttosto coraggioso si tirò in fretta dentro per rimettersi le brache e correre su, a dar aiuto.
Ma qualcuno, prima di lui, era stato più lesto a dare aiuto.
Cesare Vanzetti, che aveva la porta del suo quartierino proprio dirimpetto a quello della casa del signor Pompeo, e che era ancora alzato, a quell’ora, nel suo piccolo salotto a discorrere con la sua giovane sposa, aveva notato l’insolito tramestìo nell’appartamento vicino, poi il rumore dei vetri infranti e cadenti giù nella strada, e infine l’urlo rauco e fremebondo.
Era corso all’uscio, aveva aperto, s’era slanciato, sul pianerottolo, contro la porta del signor Pompeo, con due calci poderosi dei suoi ventisette anni l’aveva buttata giù e s’era sentito avvampare il volto da una fiamma densa e caliginosa e mozzare il fiato dal fumo nero ed acre.
Tra quelle fiamme e quel fumo il signor Pompeo s’agitava frenetico come un’anima dannata tra le vampe eterne.
— Son qua io, sor Pompeo, coraggio! – gridò il giovanotto.
Intanto qualcuno veniva a furia su per le scale, messe a rumore.
— Presto, delle secchie d’acqua! – gridò ancora Cesare.
Il signor Pompeo era nel suo studio, davanti alla sua cassaforte aperta a contar de’ denari, quando la lampada da lui posta sbadatamente troppo accosto ad una tenda aveva a questa comunicato il fuoco. La vampa era salita rapida come il baleno a lambire il soffitto, poi la tenda, tutta in fiamme, era caduta sulla scrivania ingombra di carte e vi aveva appiccato il fuoco. In un batter d’occhio, il tempo di vedere e comprendere la cosa, il povero signor Pompeo si era trovato circondato dalle vampe infernali. Si era stretto al seno il fascio de’ suoi biglietti di banca, s’era fatto al balcone, con un pugno aveva fatto cadere i vetri – e una mano gli sanguinava tutta – e aveva gettato giù nella notte quieta e silente i due urli che sappiamo.
Furon portate due, tre, parecchie secchie d’acqua e gettate sul vulcano ardente: che in un momento fu calmato, vinto, reso inerme. Un fumo nero ed acre seguitò ad innalzarsi ancora per qualche tempo da quel cumulo di cartaccie annerite e rese fangose dall’acqua: il pavimento fu tutto insudiciato dalla fuliggine e dalla mota, furon spalancati tutti i balconi per iscacciare il tanfo del bruciato che soffocava; poi fu detto al signor Pompeo, che pallido come un morto e tremante si era lasciato cadere sopra un divano:
— Coraggio, sor Pompeo, fatevi coraggio: tutto è finito.
La cassaforte era rimasta aperta e il signor Pompeo seguitava a tenersi stretto sul petto il fascio dei suoi biglietti di banca che aveva salvato, come un padre sviscerato, dalle fiamme divoratrici.
— Volete un cordiale, qualcosa, per ristorarvi, sor Pompeo?... – gli si diceva intorno.
— No, no, grazie, lasciatemi solo, – badava a dire egli, sempre stringendosi sul cuore il suo affetto; – voglio soltanto andarmene a letto: mi passerà tutto.
Cesare Vanzetti gli disse:
— Se vi occorresse qualcosa, siamo qua, a due passi.... non avete che a bussare.
— Grazie, grazie, – ripetè il signor Pompeo – non ho che bisogno di riposo e grazie a tutti.
E tutti se andarono e lo lasciarono solo.
Cesare Vanzetti fu l’ultimo ad andarsene e vide il signor Pompeo che cacciava in fretta della cassaforte spalancata come una gran bocca, tutto quel fascio di biglietti da cento, da cinquecento e da mille.
Appena anch'egli fu uscito il signor Pompeo sbarrò la porta, e tirò, rumorosamente il catenaccio, poi rassicurò, – poichè era rimasta malferma sui cardini, dopo i poderosi calci di Cesare nel momento dell’incendio, – con una pesante sbarra di ferro.
— Ha paura dei ladri, – mormorò Cesare rientrando in casa sua.
E corse dalla giovane moglie che lo attendeva tutta agitata, ancora nel piccolo salotto color di rosa.