II.

Bisogna sapere che quella sera Cesare era tornato da una bella passeggiata che aveva fatta con la sua giovane sposina lungo le vie piene di gente e di luce nella bella serata invernale, e si erano soffermati a lungo davanti alle vetrine sfolgoranti di luce elettrica e di cose magnifiche.

Specialmente una vetrina li aveva attratti: la giovane sposina Tina in particolar modo. Era quella di un negozio di pelliccerie: ove un bellissimo boa di martora aveva suscitato l'ammirazione della cara donnina. I suoi occhi si erano fermati a lungo nella morbidezza vellutata di quel pelo prezioso, il cui arcano tepore di belva vinta e doma ella intuiva con un delizioso fremito quasi sensuale. Ne aveva parlato allo sposo, di ciò: ed egli aveva riso.

— Come è bello! – aveva esclamato sinceramente ammirata la bella donnina.

E Cesare aveva sentito nel cuore tutta la soddisfazione ch’egli avrebbe goduta se avesse potuto comprare, per farne omaggio alla sua cara compagna, la spoglia di quella strana e selvaggia creatura che dopo morta eccitava in siffatto modo l’ammirazione delle belle signore.

Ma un feroce cartellino (più feroce ancora della belva) posto sopra il prezioso oggetto distruggeva in lui qualunque tentazione dell'omaggio desiato:

«Prezzo netto cinquecento lire

Però, dopo, nel salottino color di rosa, al ritorno della passeggiata, com’erano usi a trattenersi tutte le sere, dopo l’intimo pranzetto, avevano continuato a parlarne, un po’ sul serio, un po’ ridendo.

— Ah! se avessi i bei biglietti del signor Pompeo! – aveva esclamato ad un tratto Cesare.

E aveva pensato che lui, il giovane segretario del barone di E.... lo guadagnava appena appena in due mesi, il danaro necessario per possedere quel bel tesoro villoso e tepido.

Ed era stato giusto in quel punto che aveva sentito quanto avveniva di là, ed era accorso come sappiamo.

Ed ora che era ritornato di nuovo accanto a sua moglie, dopo il salvataggio, aveva esclamato scotendosi di dosso un po’ di fuliggine che gli s’era appiccicata:

— Li ho veduti sai, Tina, i famosi biglietti del signor Pompeo?

Poichè l’immagine del signor Pompeo che si teneva stretti sul cuore, come un padre sviscerato, tutti quei biglietti da cento, da cinquecento e da mille, gli era rimasta impressa nella mente con una strana fissità.

E si fece a descriverlo alla moglie che ne rideva, un poco turbata ancora dal pericolo corso da quel signor Pompeo, malgrado tutti i suoi biglietti, e dall’incendio.

Poi Cesare – sempre mezzo ridendo e mezzo serio – esclamò:

— Tò! un’idea!...

La moglie alzò verso di lui il volto interrogativo.

— Sì, un’idea.... Il signor Pompeo, se non era per me.... che con due calci gli mandavo giù la porta, chissà a quest'ora, in che stato si troverebbe!... Certamente mi sarà grato, non è vero? e penso bene mi vorrà ricompensare!... Forse mi farà regalo di uno – del più piccolo, mettiamo! – dei suoi bei biglietti! Che ne pensi, tu?...

— Mah!... – fece la signora Tina con un accento lungo e molto dubitativo.

— In questo caso io ti fo una bella sorpresa.... tu l'indovini?

— Il boa di martora!

— Come sei pronta ad indovinare ciò che ti è caro! una bella idea, no?

— Sicuramente.

— Vedremo, – concluse Cesare stropicciandosi le mani, – che cosa farà la generosità del nostro vicino e salvato signor Pompeo.

E per quella sera i due sposi se ne andarono a letto.

Venne l’alba a indorare il mattino del giorno seguente, seguì intera la bella giornata invernale che Cesare passò tutta al suo ufficio, lavorando e pensando ai biglietti del signor Pompeo e alla sua generosità; alle cinque del pomeriggio la bella signora Tina andò a prendere in ufficio, come soleva sempre nelle belle giornate, il suo Cesare per indugiarsi, prima dell’intimo pranzetto, lungo il corso e le vie popolate di signore eleganti e di giovanotti gaudenti; venne la sera... ma il signor Pompeo non si fece vivo.

E Cesare non potè a meno di pensare alla strana ingiustizia che regola i destini umani! Lui, giovane, bello, forte, pieno di fantasia e d’ingegno, innamorato e felice sposo d’una cara donnina che lo adorava, costretto a stare chiuso dieci ore in un ufficio buio e freddo per poter riscuotere alla fine d’ogni mese quelle duecentocinquanta lire che non servivano che a pagar l’affitto del quartierino e a non morir di fame; l’altro vecchio, brutto, sporco, esoso, padrone di quelle centinaia di biglietti che davano il mezzo di aspirare l'ebbrezza del sole libero, della gioia, della felicità, della voluttà, della vita bella e luminosa, insomma!...

E invano passò il giorno seguente, e l’altro ancora.

Cesare ne rise: ma il portinaio di fronte, che si era dovuto levare da letto, dopo una giornata di lavoro e di pulizia su per le scale – giacchè il fatto era avvenuto di sabato – cominciò a brontolare, e a parlarne ai vicini, della incredibile avarizia del signor Pompeo.

Le chiacchiere corsero e si moltiplicarono; tanto che ne’ giorni che seguirono l’incendio tutti gli abitanti della strada sapevano che il signor Pompeo, salvato miracolosamente dal pericolo di morire sotto forma di costoletta arrostita, non si era degnato di dare neppure cinquanta centesimi di mancia a quel poveraccio del portinaio di fronte, che nel cuore della notte, e in pieno dicembre, aveva arrischiato una polmonite per correre su, mezzo in camicia, a gettare delle secchie d’acqua sull’inferno che divampava intorno al ricchissimo e sordido signor Pompeo.

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