Il giovane professore Hermann rimase con la penna in aria. Un filo di sole passando fra le verdi imposte socchiuse del balcone era venuto a battere sulla caraffa di cristallo che da tempo immemorabile era solita stare davanti a lui, sulla sua scrivania, a tenergli compagnia insieme con i suoi libracci e il grosso calamaio di osso, bel modello tedesco del secolo passato. Quel mattino nella limpida acqua della caraffa prendeva il suo ultimo alimento il verde gambo di una rosa, da poche ore soltanto spiccata dal rosaio per opera delle vecchie mani premurose della buona Agnese, la padrona di casa del giovane prof. Hermann, la quale avea forse voluto mostrargli con quella bellissima rosa che il maggio odoroso, anche in quella picciola e dotta cittadina alemanna, era ormai nel suo pieno splendore. La bella rosa olezzante nella caraffa diceva anche che il giovane e sapiente professore, in mezzo ai suoi libracci preziosi e alle predilette cartacce, non isdegnava assaporare il profumo gentile di poesia delle cose belle e viventi.
Era forse appunto per questo che il professore aveva sospeso per un momento di scrivere, alla irruzione indiscreta di quel filo di sole venuto a posarsi sul vecchio cristallo. Egli si era formato, intento ad osservare la rivoluzione di luce che in quella cheta limpida acqua avea prodotto il raggio invasore.
Come una sottile polvere d’oro si era animata là dentro; una infinita popolazione di piccolissimi esseri irrequieti ed iridiscenti passava e ripassava con incalcolabile vivacità nella gran fascia luminosa venuta ad attraversare quell’acqua sì cheta sino allora. E la rosa, la splendida rosa, pareva tutta irradiata da quella calda luminosità di vita che sotto a lei, intorno al suo gambo, scintillava: essa apparve più rossa, più fragrante, più viva all’occhio del giovane prof. Hermann. Il quale, solito a ricercar fra le muffose pagine dei codici le fonti di un’altra vita, scoperse ben tosto, su le ardenti corolle della rosa, celato nel suo seno, un altro piccolo essere che sino allora si era tenuto nascosto. Era un piccolo coleottero, uno scarabeo dal dorso lucente di smeraldo, che il giovane professore con la punta della penna si affrettò a stanare dal profumato suo ricovero. L’insetto, sgomento, così brutalmente turbato da quel freddo contatto, si dette, con le esili zampette ad una corsa disperata su e giù pel suo olezzante rifugio, finchè si arrestò ansante sur un rilievo del calice, e di là sporgendo la testina arguta fissò il professore con i piccoli occhi scintillanti, quasi a chiedergli: – Ma che ti ho fatto io dunque?
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Ma il prof. Hermann più non pensava a lui. Egli si era alzato e aveva spalancato il balcone. Un’ondata di luce aveva fatto irruzione nello studio ed ora il professore, abbandonato sulla spalliera del suo seggiolone, davanti alla scrivania, la testa indietro e gli occhi fuori del balcone si beveva la calda luce di quelle undici ore del mattino. Sotto di lui, di fra le volute di ferro della ringhiera del balcone, la cittadina tedesca dalla famosa Università e biblioteca, si stendeva quieta, godendosi felice il non consueto bacio di sole che quel mattino tutte irradiava le sue gotiche casucce. Gli occhi del professore correvano giù, su quei tetti grigi, su quegli alti camini, giù giù, fino al nastrino lucido del fiume che attraversa e taglia in due la dotta cittadina. Là, su quelle rive, gli occhi del professore conoscevano bene la bianca casetta dal terrazzino pieno di vasi, di verde e di fiori, ove solevano fermarsi e riposarsi, dopo le lunghe ore di studio e di lavoro.
Là, in quella casetta, la piccola Margarette pensava a lui in quel momento, mentre le industriose sue dita intrecciavano le candide trine che poi dovevano involgere il suo collo come il calice di un fiore suole involgere la corolla.
Ora bisogna sapere che la sera innanzi il professore si era indugiato alquanto a tavolino intorno ad un vecchissimo manoscritto che molto gli avea dato da fare, onde buona parte delle ore da lui stabilite per il sonno erano andate perdute, quella notte. Perciò, adesso, una vaga sonnolenza gli avvolgeva la mente come in una sottil nebbia, mentre i suoi occhi, trasvolando sul velo luminoso di sole, andavano ad accarezzare la casetta dal terrazzino fiorito. E in quella sottil nebbia di sonnolenza egli vedea vagolar sull’azzurro, davanti a’ suoi occhi gravi, al di là della luce, la bianca figura di Margarette, la piccola amata.... E la gentil birichina lassù, così in alto, si bevea il sole come un ramarro fra il serpollo, gli sorridea maliziosa e con le ditine accennava minacciosa, forse ad una piccola vendetta, per quei brutti libracci vecchi e tarlati che a lei, fresca e giovinetta, tante belle ore di lui rubavano....
Hermann si scosse. La vaga sonnolenza minacciava trasformarsi in un vero sonno.... Alzò la testa, per esser sicuro ch’era ancora sveglio, e riportò gli sguardi sulla rosa.
Il piccolo scarabeo era sempre là, fermo, sulla sua foglia, che lo guardava fiso, con gli occhietti brillanti. Il professore lo toccò con un dito. Ahimè! l’urto era stato troppo brutale e la misera bestiola era caduta nell’acqua della caraffa. La disgraziata naufraga, coricata sul bel dorso smeraldino, agitava disperatamente nell’aria le zampette convulse. Al prof. Hermann parve scorgere, sempre nella solita nebbia, il visino triste e sollecito della sua Margarette atteggiarsi ad una smorfietta irresistibile: le veniva da piangere sulla morte crudele che attendeva il povero scarabeo. Egli pensò che cosa avrebbe fatto se in quel momento Margarette fosse stata lì, a due passi da lui. Avrebbe messo un dito nell’acqua per ridonare alla rosa, sano e salvo, il piccolo compagno.
E così fece.
Ma oh, maraviglia!... Appena in salvo, sulla rosa, il coleottero, rizzatosi sullo zampette e fissandogli gli occhietti scintillanti, prese a parlare.... Hermann lo guardò sgomentato. Ma l’animaluccio, con una vocina di vecchietto raffreddato, così parlò:
— Non aver paura, amico mio, di me: tu vedi come sono piccino: anche volendolo non potrei farti alcun male. Invece posso esserti utile, se tu lo vorrai. Io sono un piccioletto spirito, condannato a vagare da una rosa all’altra, per mille anni ancora.... Tu mi hai salvato dalla morte: io vo’ dunque ricompensarti. Chiedi e otterrai da me quel che desideri.
Hermann aveva spesso letto ne’ suoi libracci qualcosa di somigliante. Perciò non si meravigliò troppo e dopo aver alquanto pensato disse:
— Dammi il mezzo, se puoi, di sapere, in qualunque momento, in qualunque ora del giorno, ciò che fa Margarette, la mia fidanzata.
Il coleottero rise alquanto, alla sua maniera, poi mormorò in tono piuttosto ironico:
— Un sapiente come te non dovrebbe chiedermi una tal cosa!... Ma via: voglio contentarti. Guarda in questa caraffa pensando alla tua Margarette: e la vedrai, sul momento, come si trova, e saprai ciò che fa.
E lo scarabeo, dette queste parole, corse a rifugiarsi nel seno della rosa.
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Hermann pensò un momento, intensamente, a Margarette e poi fissò lo sguardo sulla caraffa. In mezzo alla limpida acqua si formò come un piccolo nucleo di ombra, che rapidamente ingrossando e svolgendosi, venne a schierarsi e a rendere assai nitidamente il contorno di una nota stanza: la saletta della casa di Margarette. Hermann aguzzò gli occhi. Ed ecco in un canto apparire una figurina in miniatura, anzi due. La prima – Hermann la riconobbe subito – era lei, l’amata: Margarette in persona insomma, ma l'altra?... Hermann non la riconobbe. Era un uomo: e da lui mai veduto. Il prof. Hermann non durò fatica a convincersene. – Diavolo! la cosa non cominciava bene!... Margarette, la cara, la pura, l’ingenua Margarette, sola con un uomo, e in casa sua, e nella sua saletta!... Sarebbe stato incredibile se la visione non avesse parlato chiaro. Hermann fremente e perplesso guardò meglio. Volle assaporare amaramente tutta la scena. Margarette rideva e l'uomo le teneva una mano nelle sue. Ma che strano tipo era costui!... dovea esser biondo: e d’un biondo sì tenue e slavato che parea bianco. Ma il volto, piccino come appariva, non potea definirsi se giovane o vecchio, bello o brutto. Ma era un uomo! e quest’uomo teneva stretta una mano di Margarette, e lei lasciava fare ed anche.... gli sorrideva!
Ma cos’è questo dunque? Ahimè! è troppo davvero!... Hermann chiude gli occhi per non vedere oltre. – L’audace miniatura-uomo ha osato (sacrilego!) baciare sulla guancia la pudica Margarette!...
— Ha ella dunque restituito o no il bacio?...
Quando Hermann riapre gli occhi per sincerarsi del dubbio crudele la miniatura-femmina era sola: l’altra era sparita. Margarette era dunque rimasta sola. E che diceva?... Pareva pensosa. Ecco si muove. Dove va? si accosta ad un mobile piccino piccino che solo gli occhi pratici di Hermann possono riconoscere: è la scrivania di fraülein. Ella l’apre, vi si siede davanti e scrive. Una lettera certamente; ma a chi scrive Margarette?... A lui, a Hermann? non gli passa neppur per la mente. A chi dunque, a chi?... Ma ecco: si apre la porticina, là in fondo: e si fa avanti una nuova miniatura, un altro uomo, sconosciuto anch’esso, con gli sproni, in uniforme: un uffiziale, in una parola, questa volta!... Ella parla a lungo con la guerresca miniatura, poi gli consegna la lettera e la miniatura-guerriero, prima di andarsene toc!... scocca un bel bacio sulla fronte di fraülein.
— Ah Dio! ciò passa il segno!... – Hermann prende la caraffa e la scaraventa sul pavimento. – Basta! basta! ha ormai veduto sin troppo! Sa che cosa gli resta a fare. Maledetta caraffa e maledetto scarafaggio infernale! Era sì felice, in passato, nella sua dolce illusione!... Ma meglio così: meglio esserne uscito d’un tratto, dall’illusione, bruscamente.
In quel momento s’ode un picchio alla porta.
— Avanti! – grida furibondo Hermann.
In quell'avanti egli ha scaricato un poco del furore che gli galoppava nelle vene.
È la vecchia Agnese, la padrona di casa.
Ella senz’accorgersi dello stato anormale del professore, dice:
— Una lettera per lei, professore – e dopo aver deposto la lettera sulla scrivania se ne va tranquillamente, senza neppur avvedersi della fine miseranda fatta dalla vecchia caraffa, da’ tempi immemorabili condannata, al solito posto sulla scrivania.
Hermann gitta un’occhiata sulla busta. Riconosce il carattere. È di Margarette!... Ha dunque scritto a lui, la traditrice?... Come ha fatto presto la lettera ad essere recapitata! Hermann l’apre. Margarette lo invita a non mancare la sera. «Vi aspetta una sorpresa» dice ella in fondo alla lettera nel suo grazioso gotico accurato. – Una sorpresa?... Oh! il buon Hermann l’ha già avuta – e non una sola! – e in qual modo!... La sera?... Ma egli andrà subito dall’infida, ah sì, andrà subito!... Sicuro. In fretta e furia indossa il pastrano e il cappello e giù a corsa per le scale, senza curarsi di avvertire la buona Agnese, che esce di casa: un fatto straordinario. Lungo le vie il professore corre come un forsennato: egli non vede le scappellate de’ suoi scolari dellaBurschenschaft che si voltano indietro curiosi a commentare il suo fulmineo passaggio. Eccolo giunto alla casina bianca. Suona. Meraviglia di quei di casa vedendo arrivare il professore così trafelato e ad ora così inaspettata.
Margarette (l’infida); – Avete ricevuta la mia lettera? – chiede sorridente, fresca e tranquilla. L’innocentina! sembra discesa allora allora dalla sua nube di purezza adamantina!
— Perfida! – mormora tra sè Hermann; poi a voce alta:
— Non si tratta di questo – risponde. Riesce a condurla in un angolo, un momento, e le dice all’orecchio, con voce e accenti degni di Faust nella prigione di Gretchen:
— E i baci di poco fa.... i baci che con tanto fervore avete regalato?...
— I baci?... – esclama Margarette trasognata.
— Ma sì, precisamente, i baci dati e ricevuti.... poco fa... nella vostra saletta, a due uomini diversi! mi capite dunque?
Margarette ha segno di grande meraviglia.
— I baci di poco fa... nella saletta...
Poi guardando fisso e sdegnata Hermann:
— Voi eravate dunque là, dietro le cortine, a spiarmi?
— Sicuro – grida Hermann, che ormai avuta la certezza dell'inganno, non sa più quel che si dica – sicuro; io so tutto e ho veduto tutto.
Margarette dà in una limpida risata.
Poi corre di là e chiama ad alta voce: – Zio! Arthur! venite, venite quà, venite subito!... –
Un bel vecchio, alto e maestoso, e un giovane uffiziale della guardia dell’imperatore, si precipitano nella saletta.
Margarette accennando loro Hermann grida allegramente:
— Vi presento il dottissimo e celebre professore Hermann... mio fidanzato.
E volta a Hermann:
— Mio zio, ambasciatore in Italia e mio fratello Arthur suo attachè militare, arrivati questa mattina, dopo cinque anni di esilio diplomatico a Roma, per rivedere la nipote e la sorellina in occasione delle fauste prossime nozze....
E sottovoce a Hermann, tutto confuso:
— Ecco la sorpresa della lettera.... cattivo geloso!...
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* *
La signora Agnese entrando nello studio di Hermann e scuotendolo delicatamente:
— Professore! professore! Le farà male dormire così, con la finestra aperta e con il sole che le batte sulla testa!... venga, venga a colazione... che è qui pronta da un pezzo!...
Hermann si stropicciò gli occhi e si guardò intorno. La rosa, nella sua vecchia caraffa davanti a lui, seguitava splendida e tranquilla ad effondere la sua fragranza....
Il prof. Hermann alzandosi sorrise e stropicciandosi gli occhi mormorò, un po’ ridendo e un po’ in collera con se stesso:
— Geloso! sempre geloso!... anche dormendo.