V.

Ferveva il maggio delle rose e nello studiolo che tutti i tetti dominava irrompeva gloriosa la luce del sole. Il giovinetto artista, solo e malinconico, guardava scorato fuori, sopra i tetti, lontano nella campagna, verso la morbida linea dei monti azzurri.... Egli aveva a sè davanti sul cavalletto una tavoletta che dovea terminare: per terra, dietro a lui, ad asciugare, altre quattro alla prima sorelle ridevan nelle tinte troppo vivaci e ne’ soggetti banali. Il giovane pittore ne dovea fare sei almeno al giorno, di quelle tavolette nelle quali si sciupavano i suoi colori e si avvilivano i suoi sogni di poeta.

Gli venivan pagate trenta soldi l’una dal bottegaio che trovava più facile vendere quei gingilli che non il bel paesaggio autunnale che il giovane pittore, pieno di speranza e di fede, gli avea un giorno portato e che da sei mesi dolorava nel grande suo abbandono, nella vetrina. Sei al giorno dovea farne il giovane per pagare la soffitta, per non morire d’inedia e procurarsi i colori e la tela su cui alimentava il suo sogno di arte, nelle ore lasciategli libere dal manuale ingrato lavoro....

Povero sogno d’arte e povero suo quadro!...

Egli lo guardava: là, nell’angolo dello studio-soffitta, che il bel sole di maggio ora empiva di tutte le sue promesse.

Ma aveva venti anni.... tanta fede nella sua Arte divina!...

Ed era così povero! Non possedeva nulla – tranne un gioiello, un prezioso ricordo del padre (pittore anch’egli) che morendo gli aveva lasciato due eredità: il grande amore per l’Arte e quell’anfora greca, un tesoro squisito di modellatura e di purezza.... Un raggio del bel sole di maggio, battendo sul breve cerchiello che ne adornava la bocca, traeva un debole raggio di luce da quel vecchissimo oro che i secoli avevano impallidito. Ma non scintillava, no, il cristallo di monte in cui la divina mano dell’artefice greco avea tratto la squisita sagoma che faceva pensare al mollissimo fianco d’una Dea.... Un’ombra di gelo fino ai più riposti meandri n’era padrona, e tutta offuscata la bellissima anfora.

Il giovane pittore teneva ora fissi su di essa gli sguardi tristi.

Era tutto ciò ch’ei possedeva. Era tutta la sua ricchezza, il suo tesoro....

E sentiva le parole che il barone di C. (ancora la sera innanzi) gli aveva ripetuto per avere quel modello di arte antica che bramava collocare nella sua già ricca pinacoteca, che con quel tesoro sarebbe divenuta ricchissima. Sentiva ronzargli nell’orecchio la cifra, favolosa per lui, che il ricco amatore gli avea mormorato per allettarlo, per sedurlo, per vincerlo.... No, no. Perchè privarsi dell’unica sua ricchezza? Di quel purissimo simbolo di un’arte ideale che tutta illuminava della sua luce la povera soffitta?... Non attingeva forse egli da quel sogno di artista antico fatto opera d’arte la fiamma, il coraggio, la fede per vincere la grande lotta che la sua povertà e la sua giovinezza rendeva sì scabrosa e difficile?...

Il raggio di sole, ora, tutta s’era presa l’anfora e le purissime forme irradiava del suo fulgore.

Il giovane pittore si alzò.

Una lagrima spuntò da’ suoi occhi.

Ah no!... egli era povero ma ardeva di tale amore per la sua Arte, per il suo Sogno!... Era sì intensa la sua fede nel suo altissimo ideale! Ah! quale oro del mondo avrebbe potuto pagare quella superba forza di fede e di amore ch’ei sentiva ardere sì intensa nel suo cuore?...

Si avvicinò all’anfora e chino sulla sua sagoma gentile depose un bacio sul vetustissimo cristallo.

In quel bacio era una essenza divina: egli non baciava l’anfora, baciava l’Arte, baciava la sua Amante divina, il suo Sogno immenso. In quel bacio era tutta la sua giovinezza, la sua fede, la sua speranza infinita....

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