Lo Sparviero.

Sulla più alta torretta del mio castello di C. avea posto il suo nido lo Sparviere di cui io dirò. Il mio castello di C. sorge sulla vetta d’una aridissima collina: intorno scendon, come una conca, le falde boscose e selvagge dei monti che l’attorniano; pochi casolari fra quei dirupi e quelle macchie di querceti che altissimi roveri qua e là sorvegliano, come meditabonde sentinelle, fra le cui rame canta il vento e cercan riposo i selvatici uccellacci del luogo. In quella torretta – dominante nell’azzurro la decrepita massa qua e là diroccata del vecchio castello de’ miei avi – io solevo passare alcune ore del giorno leggendo e studiando. Sulla mia testa le nere travi che sorreggevan l’ultimo avanzo del tetto, qua e là aperto al sole da grandi fenditure, cigolavano al vento, più di me padrone e signore di quell’alto recesso screpolato e pur saldo, sulle boscaglie che da secoli ci contemplava. E dentro un largo fèsso nella muraglia, sopra il balcone senza stipiti ormai nè imposta, io avea veduto talvolta – fatto audace dalla mia grande immobilità e dal mio silenzio – venir a rifugiarsi un bellissimo sparviere, l'accipiter nisus dei zoologi, il cui eccelso volo io avea tante volte seguito invidiando nell’azzurro intenso sopra la mia testa. Mi tenni molto quieto e tranquillo, nei primi giorni, poichè il selvaggio e libero animale, padrone del cielo, si abituasse a vedermi e prendere confidenza con la mia persona, schiava figliuola della terra. Nè la mia brama andò delusa. Chè l’uccello, vedendomi sempre così taciturno e innocuo, finì per non curarsi più affatto di me e liberissimamente veniva quando gli piaceva al ritorno dalle sue avventurate caccie nell’azzurro immenso – al suo nido. Così potei ammirarlo a mio beneplacito, studiarlo, e convincermi ch’ei era veramente un nobilissimo esemplare della bella razza che il gran Paolo Savi così laconicamente tratteggiò ne’ suoi studi ornitologici:

«Parti superiori di color fosco più o meno turchiniccio: parti inferiori bianche o biancastre con numerose longitudinali macchie nere. Penne brevi e rigide. Ali lunghe appuntate. Narici pestellate. Lunghezza dai quaranta ai sessanta centimetri.»

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Il selvaggio mio amico portava talvolta dalla vile terra per liberamente cibarsene nella sua regale dimora, che tutte le altre miserabili de’ dintorni dominava, degli uccellini spiranti, de’ topi, delle talpe, de’ pulcini, dei piccioni ancor vivi. Un giorno io gli vidi perfino tra gli artigli sanguinosi un gatto – un piccolo gatto nero rantolante – da’ cui occhi diabolici pieni d’odio sprizzava il furore dell’impotenza a cui il becco poderoso del signore dell’aria lo aveva ridotto. Ei finiva le sue vittime sotto i miei occhi: dilaniava la pelle, squarciava la carne e ricercava nel viscere il cuore e il fegato che voluttuosissimamente ingoiava. E quando sazio e sanguinoso egli aveva finito il suo pasto rimaneva fisso a guardarmi, con que’ suoi larghi occhi ove una fiamma selvaggia ardeva e quasi mi sgomentava....

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Un giorno pensai di lasciargli sulla pietra, avanzo del davanzale del balcone, un pezzo di cruda carne sanguinante.... L’uccello non osò, finch’io fui là presente. Ma ritornato io dopo non trovai più la carne. Alla seconda prova ei fu più audace. Titubò alquanto poi passando a volo afferrò con il becco puntato l’esca e per aria la divorò. Finì per farsi più sicuro: si fermò a divorare ciò ch’io gli metteva sulla pietra appollaiandosi sul balcone istesso.

Finchè prese con me assoluta confidenza.

Un giorno – aiutato da un mio servo – riuscii a catturarlo.

Per i primi giorni fu una cosa terribile.

Il furore, la disperazione del selvaggio prigioniero non si può dire. Impossibile avvicinarlo. Nel gabbione di ferro ove io lo avevo collocato ei fremeva, batteva furente le ali, dava terribili colpi di becco da spezzarselo. Per parecchi giorni rifiutò ogni cibo. Temetti volesse morire.

Poi parve rassegnarsi alla prigionia; cominciò a mangiare la carne sanguinante che io gli passava, dapprima, poi i cibi meno eccitanti per ammansarlo e calmarne gl’istinti rapaci.

Finì per abituarsi a vedermi, a lasciarsi toccare, a non ribellarsi a me più in alcun modo.

Si addomesticò.

E dopo alcuni mesi era tanto docile e sottomesso ch’io lo lasciavo girare per casa, sicuro.

Però l'accipiter nisus era morto in lui.

Era ingrassato; le sue ali tenute corte e obbligate all’ozio apparivano cadenti e rilassate: i suoi artigli si eran, per dir così, raddolciti e fatti innocui, i suoi occhi aveano perduto la fiera fiamma che sgomentava.

Io non potevo immaginare più in lui il selvaggio signore dell’aria di un giorno, il crudele tiranno dei topi e dei piccioni, il raffinato carnefice che si cibava del cuore delle sue vittime, voluttuosissimamente cercato con il rostro nelle loro viscere ancor vive e palpitanti....

Quello di ora era una povera creatura schiava e avvilita, accasciata sotto il peso della prigionia e divenuta debole e infingarda....

E diventò tanto debole e pauroso che un giorno trovandosi nella cucina del castello vicino ad un orgoglioso galletto dalla vivida cresta rubiconda, avendo osato sottrargli qualcosa caduto che l’altro stava per ingoiare, s'ebbe un iroso colpo di becco sul collo....

E il falco – il caduto signore – si allontanò vilmente, senza reagire, senza castigare col formidabile rostro il becco dell'audace galletto petulante....

Quel giorno io sentii per la misera larva dell'accipiter nisus un infinito disprezzo....

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Durò un intero anno la sua ignobile schiavitù.

Finchè un giorno – cominciava la primavera nei boschi d’intorno – ebbi vaghezza di portarlo lassù, sulla torretta, ove un giorno, libero e fiero, aveva la sua reggia di sangue....

Appena si trovò là in alto (io lo tenevo sul braccio, alla foggia de’ falconieri antichi) rialzò la testa: si guardò d’intorno. Poi fissò l’occhio nel sereno, in un vago punto lontano.

Sbattè le ali – arruffò le penne – sentii un fremito correre tutto il suo corpo.

Vidi accendersi ne’ suoi occhi – rapida e fulminea – l’antica fiamma che lo avea fatto terribile....

E dandomi due tremende beccate sulla mano – da cui spicciò vivido il sangue, e ne serbo ancora le traccie – ei fece un balzo, aprì le ali e scomparve fuori, nell’azzurro infinito....

Non l’ho mai più riveduto.

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