V

Non rividi miss Ethel che insieme con gli altri suoi due compagni: mister Charnwood e la piccola Doroty. Una sorta di legame, di comunanza si era stretta fra noi: qualcosa di più profondo che la semplice amicizia. Però come avevo promesso a mister Charnwood non feci più parola che potesse ricordare lo strano fatto di cui io e miss Ethel eravamo stati misterioso oggetto.

Io affettava di essere allegro e disinvolto: parlavo a lungo del mio paese, ch'era per essi l'argomento favorito; narravo aneddoti, spiegavo i costumi nostri più caratteristici, e mi era fatto grande amico della piccola Doroty. A questa io narravo le nostre più belle e più fantastiche leggende; ed io che pel passato mi era molto dilettato di folklore, mi trovava, in questo, in mio pieno elemento.

Però, malgrado i suoi sforzi per dissimularlo, io m'accorgeva che in miss Ethel il turbamento e l'agitazione non erano svaniti. Era pallida, inquieta, e si scorgeva chiaramente che le sue notti trascorrevano insonni Un sottil cerchio nero s'andava disegnando sotto i suoi occhi e mentre questo accresceva, è vero, fascino al suo bel volto severo e pensoso, faceva penosamente testimonianza dello stato anormale dello spirito della povera signorina.

Io sentiva che le mie parole, il fatto in sè stesso avevano scosso, in certo qual modo, data la spinta ad un cumulo di vaghe ombre misteriose che si addensavano inconscie e ignote sopra quell'anima.

Un mistero gravava su quella giovine vita, – aveva detto mister Charnwood – e la gentile fanciulla lo intuiva; una potenza misteriosa ne la faceva consapevole. E l'incomprensibile avvenimento da me narratole aveva messo in moto quel caos indefinito e sconosciuto di ombre, di tenebre e di mistero. Era come una nebbia che ci nasconde un antro buio e pauroso: un soffio di brezza l'agita, la scuote, la fa tremolare, ma non la squarcia. L'antro rimane buio e sconosciuto.

La povera miss Ethel soffriva, io me ne accorgevo. E anch'io soffrivo, vinto mio malgrado da una sorda preoccupazione che non riuscivo ad allontanare da me e da mille indecisi presentimenti.

In quella sorta di dimestichezza che s'era ormai venuta formando tra noi, io aveva potuto apprezzare tutti i meriti e le finezze di quella singolare creatura.

Una squisita sensibilità era in lei rattenuta e quasi rafforzata da una certamente precoce serietà, sorta forse dallo stato del suo animo, dai dolori che avevano dovuto attraversarla e addensarvisi. Ella aveva un senso finissimo e naturale di poesia: quel profumo, dirò così, che illumina le cose come il raggio palpitante abbellisce e vivifica tutto ove si posa.

Era molto còlta e dotata d'un delicato acume d'arte. Amava il nostro paese, il nostro canto, la nostra poesia, il nostro bel sole e il nostro mare che per lei era il miglior poema italiano.

In fondo a tutto il suo essere io sentiva però chiaramente aleggiare un'ombra vaga di melanconia e di tristezza. Anche quando era allegra, o mostrava allegria, ella era triste. Anzi, il fondo dominante della sua anima, si sentiva maggiormente in que' momenti. Aveva un breve riso, che pareva finire sempre soffocato da un sospiro. Nelle sue voci gaie palpitava sempre un misterioso accento accorato. Talvolta, quando parlava lentamente, a voce un poco bassa, nella sua voce c'erano delle lagrime lontane. In tutta lei, – ecco la sintesi delle mie impressioni, – era come l'eco lontano e indistinto di un grande dolore, di una grande sciagura, e forse, chissà? di una grande colpa da altri commessa, e da lei, povera e inconscia anima, penosamente espiata.

Share on Twitter Share on Facebook