XI.

Nell'oscuro corridoio che metteva in comunicazione le due ali del palazzo, Febo sostò alquanto e stette un momento in ascolto....

Il silenzio regnava profondo.

Di là lo doveano credere in sua camera, intento allo studio: nessuno poteva pensare a lui in quel momento.

Egli era pallido, ma sicuro.

Riprese il cammino lungo i vuoti appartamenti che un giorno aveva abitato la morta. Ivi nulla era stato tòcco e mutato dal giorno fatale.

Dalle imposte abbassate la luce filtrava scialba e scolorita in quelle mute stanze che il piccolo ultimo nipote ora attraversava, stretto il cuore da una vaga trepidanza, spinto innanzi da una misteriosa forza ch'ei non sapeva comprendere.

Quelle stanze fredde e piene di ombre, quelle stanze da tanti anni morte alla luce, sapevano il miserando dramma della povera anima che in esse i suoi ultimi tristi giorni aveva vissuto.

Ivi, il vecchio dramma che aveva gittato la sua livida ombra sul purissimo passato di Rosa Santa, doveva ancora palpitare.

Qualcosa doveva piangere ancora, là dentro, l'anima offesa strappata rudemente alla vita.

Qualcosa diceva a Febo, mentre a lievi passi attraversava quelle stanze ove forse aveva pianto la nonna, che Lei tutta non era morta, che qualcosa di Lei, della povera sua anima offesa, dovea aleggiare là intorno, fra quelle morte ombre della sua vita d'un giorno....

E il lieve alitare della povera anima offesa diceva al nipote ch'ella era contenta che lui fosse venuto, là, in quel suo mondo passato di cui il tempo e il silenzio s'eran fatti guardiani severi e solenni.

Febo si arrestò.

Davanti a lui, alta, cupa, tetra, era la grande porta di noce del salone da ballo.

Il ragazzo fremette.

Trasse dal picciol mazzo una chiave.... La vecchia toppa, da tanti anni dormente, resistette alquanto: poi cigolò.

E la porta si aprì.

Nel grande salone quasi buio un gelido soffio di aria senza luce e di chiuso colpì il fanciullo.

Egli entrò.

Il salone era immenso: nelle ombre che da anni se n'eran fatte padrone appariva sconfinato.

Lucevano qua e là gli ori dei vecchi mobili di broccato rosso. Folti tappeti erano per terra.

Nell'ombra, in alto, egli intravvide il grande lampadario a' mille guizzi indistinti, ai lievi barlumi di luce che filtravano fra le grandi tende abbassate.

Pareva un tempio: ed era una tomba.

Ivi era stata trovata morta la nonna.

Febo ebbe un nuovo brivido.

Dove, dove era dunque caduta? dove era stata dunque trovata – bianca, fredda, immota (così egli la vedeva, la povera nonna, da quel giorno che brutalmente avea saputo) – quale il luogo preciso ove la dolorosa avea esalata la povera anima affannosa?...

E Febo avanzò nel grande salone che aveva veduto morire la nonna.

Si chinò.

Ah! ecco. Era sicuro. Un'anima invisibile gli avea sussurrato che lì, in quel luogo, a' suoi piedi, la nonna era morta.

Febo guardò.

Era presso la parete: poco lontano dalla porta. In quel luogo, lì, il tappeto era un poco più scolorito.... Esso avea bevuto il sangue della morta.

Povera nonna!...

Febo alzò gli occhi.

Davanti a lui, sulla parete, era un immenso specchio.

Febo guardò riflesso nella lastra senza fondo il suo pallido volto esangue. Così dovea essere stato il volto della nonna.

Febo sobbalzò.

Lo sguardo perduto nella verde profondità piena d'ombre del vecchio specchio egli aveva avuto come una rapida rivelazione.

Quello specchio avea dunque veduto il delitto.

Il fanciullo riflettè....

Se qualcosa di ciò che fu e che è rimane in ciò che ne circonda, quello specchio serbar dovea nelle misteriose sue profondità la visione dell'attimo orrendo che davanti a lui si era svolto....

Febo s'inginocchiò sul tappeto dove era morta la nonna.

E pregò.

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