X.

Il consiglier Seghezzi schierò i suoi uomini nell'anticamera, li passò in rivista, disse sottovoce: – Siamo pronti? – e avutone un quadruplice borbottìo di affermazione concluse:

– Avanti dunque: entriamo.

Il primo ad apparire nel saloncino ove il conte attendeva i suoi buoni amici del paese, fu il loquace Seghezzi, al quale tennero dietro, in ordine d'importanza, ma non di persona, i quattro maggiorenti seco lui venuti a compiere l'altissima missione presso il nobilissimo conte di Rosa Santa.

In ordine d'importanza e non di persona: chè, dopo il magrolino e segaligno consiglier Seghezzi, veniva il corpulento dottor Anatolio, seguito dal microscopico signor Angiolino, il più ricco proprietario della valle dopo il conte, sopraffatto quasi dalla colossale mole, che lo seguìa immediatamente, del giovane mastodonte conosciuto in paese sotto il delicato nome di Amaranto de Nobili.

Quando i quattro rispettabili personaggi furono assisi in circolo, intorno al centro formato dal conte e dal Seghezzi, questi data un'occhiata d'intesa a' suoi, si alzò e volto al conte prese a parlare.

Veniva dal grande balcone aperto la brezza primaverile pregna di tutti i nuovi effluvi della Villa e un lontano odore di rose: e in quel sottile alito di primavera e di erbe ravvivate dal dolce sole della mattinata purissima, il mèle dell'eloquenza del signor consigliere prese poeticamente un dolce aire.

Ei parlò della nobile tradizione di Rosa Santa che nella valle da secoli imperava, molcendo i cuori sì de' ricchi come dei paesani, sino a' più umili bifolchi, di soave ammirazione e dolce venerazione per chi aveva avuto nei fulgidi rami della fulgidissima prosapia un Adriano luminoso di fede e di santità e una dama purissima e angelica come Cecilia la santa; commosse i suoi quattro amici e si commosse dipingendo a vivi colori il divino simbolo del Rosaio, mistica incarnazione floreale della nobilissima famiglia nei secoli; ebbe accorte parole pel Padre, morto lungi dal proprio nobil tetto in tempi calamitosi e difficili e finì – acceso in volto e raggiante, umidi gli occhi e protese le mani tremanti per vero entusiasmo – inneggiando a lui, al signor conte Pietro, ch'essi chiamavano, invocavano, desiavano ardentemente a lor guida e capo nelle politiche e difficili lotte del loro paese a Roma, in Parlamento....

A questa chiusa i quattro personaggi si alzarono in piedi come un sol uomo, gridando:

– Viva il nostro deputato!

Don Pietro aveva ascoltato in silenzio tutto il fiorito discorso del facondo Seghezzi.

Accanto a lui era Febo, il figliuolo, il quale pallido e stranamente turbato, aveva cercato più volte, durante l'interminabile parlata del consigliere, di sguisciar via. Il padre avea dovuto osservar suo malgrado lo strano contegno del ragazzo, il quale pareva tutto agitato e convulso....

Alla botta finale di Seghezzi, e al grido all'unisono dei quattro maggiorenti, don Pietro si riscosse e si alzò, ringraziando con il capo.

Quindi prese la parola.

Ringraziò i suoi cari amici dell'onore insigne di che lo facevan segno: parlò della sua famiglia, riconobbe la nobile traccia che in quelle vallate la storia e la memoria de' suoi avi avean lasciata, accennò sottilmente e malinconicamente alle tristezze che sulla sua casa eran discese in quegli ultimi anni (e il grasso Amaranto non potè far a meno, a questo punto, di ammiccar con gli occhi e urtar lievemente con il gomito il suo fido mingherlino compagno Angiolino, in modo sì poco accorto che tanto don Pietro quanto Febo se ne avvidero, sì che Seghezzi dovette mormorar fra i denti: asino!)

Quindi dopo una breve pausa egli concluse:

– Or dunque, signori, in vista appunto di queste ultime tristezze con che il cielo ha voluto provar in me la nobile casa de' miei avi, io non vedo il mio posto a Roma, nel frastuono e nella lotta della vita politica, a Roma d'onde vengo or ora....

E non continuò, volendo lasciar ad essi intender ciò ch'ei stimava potesser agevolmente comprendere.

Ma come si alzò, dai cinque suoi ascoltatori, un confuso clamore di proteste discrete, egli proseguì:

– Perdono, signori, non ho finito; non ho detto tutto.

E voltosi al figliuolo chiamò – Febo.

Il ragazzo si avvicinò al padre.

– Io declino, o signori, l'onore grandissimo che per le vostre autorevoli bocche voi oggi mi avete fatto, ma non lo declinerà un giorno, fra pochi anni, mio figlio, il contino Febo, che a voi io ora presento. Signori, il conte Febo, sarà un giorno il vostro naturale rappresentante in Parlamento, sarà egli il vostro deputato. A lui Rosa Santa affida un giorno l'avvenire e la continuazione della gloria di Rosa Santa e gl'interessi della valle ove sant'Adriano compiè prodigi di carità e Cecilia, angiolo di fede e di amore, riposa accanto al suo Rosaio divino.

E soggiunse, a bassa voce, quasi mestamente:

– In Lui non in me, Rosa Santa, deve attendere e fidare, ormai…. – E a più bassa voce ancora finì: – poichè io non sono stato fortunato.

I cinque personaggi erano commossi (almeno fingevano commozione) e non sapevano qual contegno tenere.

Il pingue Amaranto aprì la bocca per parlare ma un'occhiata imperiosa di Seghezzi gli fermò la parola che – Dio sa quale! – stava per scaturirne.

Gli altri imbarazzati rimasero muti.

Allora Seghezzi si avvicinò a Febo e gli strinse la mano in silenzio e con solennità, volendo con quell'atto indicare adesione e rispettosa sottomissione alle parole del padre.

Febo taceva, pallido, vieppiù convulso e turbato.

Il ragazzo nulla aveva compreso della scena, preso tutto dall'intimo turbamento che lo agitava.

Egli aveva in tasca la chiave del salone, del salone ove la nonna era morta; la chiave che dopo infinito studio e astuzia era riuscito alfine a procurarsi, pochi momenti prima....

E quella chiave terribile ora posava, come istrumento di morte e di mistero, nel fondo della tasca dell'ultimo dei Rosa Santa.

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