Parte prima

Per quanto importante sia, per ben giudicare dello stato naturale dell'uomo, il considerarlo dalla sua origine, e l'esaminarlo, per così dire, nel primo embrione della specie, io non seguirò già la di lui organizzazione a traverso i suoi successivi sviluppi, nè mi fermerò a ricercare nel sistema animale ciò ch'ei poteva essere al principio, per diventare alfine ciò ch'egli è adesso: nemmeno esaminerò se, come pensa Aristotile, le sue unghie allungate fossero nel principio adunche grinfe, se fosse peluto come un orso, e se camminando a quattro piedi co' suoi sguardi diretti verso la terra e ristretti ad un orizzonte di alcuni passi indicassero nello stesso tempo il carattere ed i limiti delle sue idee. Su tale soggetto non potrei formare che congetture vaghe e quasi immaginarie. L'anatomia paragonata non ha fatto finora che pochi progressi; e le osservazioni de' naturalisti sono ancora troppo incerte per potere stabilire sovra simili fondamenti la base d'un solido ragionamento: quindi senza ricorrere alle sovrannaturali cognizioni che abbiamo su questo punto, e senza aver riguardo ai cambiamenti che han dovuto sopravvenire nella conformazione tanto interna quanto esterna dell'uomo, a misura ch'egli applicava i suoi membri a nuovi usi, e che si nutriva di nuovi alimenti, io lo supporrò conformato in tutti i tempi come lo veggo al dì d'oggi, camminando a due piedi, servendosi delle sue mani, come noi facciam delle nostre', portando i suoi sguardi su tutta la natura, e misurando cogli occhi la vasta estensione del cielo.

Spogliando quest'ente così costituito di tutti i doni soprannaturali ch'egli ha potuto ricevere, e di tutte le facoltà artificiali che non ha potuto acquistare che per lunghi progressi, considerandolo, in una parola, tal quale ha dovuto uscire dalle mani della natura, io veggo un animale men forte che gli uni, men agile che gli altri, ma il·tutto preso, più vantaggiosamente organizzato di tutti; lo veggo satollarsi sotto una quercia, dissetarsi al primo ruscello, trovando il suo letto sotto lo stesso arbore che gli diè il suo pasto, ed ecco soddisfatti i suoi bisogni.

La terra abbandonata alla sua naturale fertilità, e coperta d'immense foreste che la scure non troncò giammai, offre ad ogni passo magazzini e ritirate ad ogni sorta d'animali. Gli uomini dispersi fra essi, osservano, imitano la loro industria, e s'inalzano così fino all'istinto delle bestie, con questo vantaggio, che cadauna specie non ha che il suo proprio, e che l'uomo non avendone forse alcuno che gli appartenga, se li appropria tutti; si nutre egualmente degli alimenti diversi ché gli altri animali si dividono, e trova per conseguenza la sua sussistenza più facilmente che non può farlo alcuno di essi.

Avvezzati fin dall'infanzia all'intemperie dell'aria ed al rigor delle stagioni; esercitati alla fatica, e sforzati di difendere nudi e senz'armi la propria vita e la loro preda dall'altre bestie feroci, o di scappar da esse colla corsa, gli uomini si formano un temperamento robusto e quasi inalterabile. I fanciulli portando con essi al mondo l'eccellente costituzione dei loro padri, e fortificandola coi medesimi esercizj che l'hanno prodotta, acquistano in tale guisa tutto quel vigore di cui è capace l'umana specie. La natura fa precisamente con essi ciò che faceva fa legge di Sparta coi funciulli de' cittadini: ella rende forti e robusti quei che sono ben costituiti, e fa perire tutti gli altri: differente in ciò dalle nostrè società, ove lo stato rendendo i fanciulli gravosi ai padri, li uccide indistintamente avanti la loro nascita.

Il corpo dell'uomo selvaggio essendo il solo strumento ch'egli conosca, ei lo impiega a diversi usi, di cui per difetto di esercizio i nostri sono incapaci, e la nostra industria è quella che ci leva la forza e l'agilità che la necessità lo obbliga di acquistare. Se avesse una scure, squarcerebbe egli col suo braccio rami sì forti? Se avesse una fromba, lancerebbe egli colla mano con tant'impeto una pietra? Se avesse una scala, s'arrampicherebbe egli sì leggermente sopra un arbore? e se avesse avuto un cavallo, sarebbe egli così snello alla corsa? Lasciate all'uomo incivilito il tempo di unire attorno di se le sue macchine, non si può dubitare che non superi facilmente l'uomo selvaggio; ma se volete vedere un combattimento più ineguale ancora, metteteli nudi e disarmati l'uno in faccia all'altro, e riconoscerete ben presto qual sia l'avvantaggio d'aver sempre le sue forze a sua disposizione, d'esser sempre pronto ad ogni avvenimento; e di portarsi, per così dire, sempre intero con se medesimo.

Hobbes pretende che l'uomo sia naturalte intrepido, e che non cerchi che ad attaccare e combattere. Un illustre filosofo pensa all'opposto, e Cumberland e Puffendorfio assicurano altresì, che nessun altro è tanto timido, quanto l'uomo nello stato di natura, e ch'egli è sempre tremante e pronto a fuggire al menomo strepito che lo colpisca, al menomo movimento che veda. Ciò può essereche divenga per que' tali oggetti che non conosce, ed io non dubito che non resti spaventato da tutti i nuovi spettacoli che se gli presentano, ogni qual volta non può distinguere il bene ed il male fisico che ne deve aspettare, nè può paragonare le sue forze coi pericoli che sta per incontrare; rare circostanze però nello stato di natura, ove tutte le cose sen vanno d'una maniera sì uniforme, e dove la faccia della terra non è soggetta a quegli improvvisi cambiamenti e continui che vi cagionano le passioni e l'incostanza dei popoli riuniti. Ma l'uomo selvaggio vivendo disperso fra gli animali, e trovandosi di buon'ora nel caso di misurarsi con essi, ne fa ben presto il paragone; e sentendo ch'egli li supera più in destrezza, ch'essi non lo superano in forza, impara a non più temerli. Mettete un orso, o un lupo alle prese con un uomo selvaggio robusto, agile, coraggioso, come essi son tutti, armato di pietre e di un buon bastone, e voi vedrete che al più sarà reciproco il periglio; e che dopo molte simili esperienze, le bestie feroci che non hanno piacere d'attaccarsi l'una coll'altra, lo faranno men volentieri coll'uomo che hanno trovato essere altrettanto feroce che esse. Per riguardo poi a quegli animali che hanno realmente più forza ch'egli non ha destrezza, egli non è in faccia ad essi nello stesso caso delle altre spezie più deboli, le quali non pertanto lasciano di sussistere, con questo avvantaggio per l'uomo, che essendo non meno disposto ch'essi alla corsa, e trovando sugli alberi un refugio quasi sicuro, sta a lui in tutti gli incontri il prender ed il lasciare, e la scelta della fuga o del combattimento. Aggiugniamo che non apparisce ch'animal veruno faccia naturalmente la guerra all'uomo, fuori del caso di sua propria difesa, o di un'estrema fame, nè dimostra contro di lui quelle violenti antipatie che sembrano annunziare che una specie è destinata dalla natura a servite di pastura all'altra.

Gli altri inimici più formidabili, e di cui l'uomo non ha gli stessi mezzi per difendersi, sono le infermità naturali, l'infanzia, la vecchiezza, e le malattie d'ogni spezie, tristi segni di nostra debolezza, di cui li due primi sono comuni a tutti gli animali, e di cui l'ultimo appartiene principalmente all'uomo vivente in società. Osservo parimenti circa all'infanzia che la madre portando per ogni dove il sue fanciullo con essa , ha una maggior facilità di nutrirlo, che non hanno le femmine di molti animali le quali sono costrette d'andare continuamente innanzi e indietro con molta fatica da una parte per procacciar l'alimento, e dall'altra per allattare o nutrire i loro parti. Egli è vero che se la femmina perisce, corre un gran rischio di perire il fanciullo con essa; ma questo pericolo è comune a cento altre specie, i di cui parti per lungo tempo non sono in istato d'andarsi a cercare da per se stesse il loro nutrimento; e se l'infanzia è più lunga fra noi, la vita essendo altresì più lunga, tutto è ancora allo incirca eguale in questo punto, abbenchè ci sieno sovra la durata della prima età, e sovra il numero de' fanciulli altre regole che non sono del mio soggetto. Appresso i vecchi, i quali operano e traspirano poco, il bisogno degli alimenti si diminuisce colla facoltà di provvederli; e siccome la vita selvaggia allontana da essi la gotta e le flussioni, e che la vecchiezza è di tutti i mali quello che i soccorsi umani possono il men sollevare, essi si annichilano alla fine senza accorgersi che cessano d'essere, e senza che neppure essi stessi se ne accorgano.

Riguardo alle malattie io non ripeterò le vane e false declamazioni che fanno contro la medicina la maggior parte delle persone che sono in salute; ma dimanderò se c'è qualche solida osservazione da cui concluder si possa, che ne' paesi ove quest'arte è più negletta, la mezzana vita dell'uomo sia più corta che in quella ov'essa è coltivata con maggior cura; e come mai ciò potrebbe essere se noi ci diamo più mali di quello che la medicina ci possa fornir rimedj; l'ineguaglianza estrema nella maniera del vivere, l'eccesso dell'ozio negli uni, l'eccessivo travaglio negli altri, la facilità di irritare, e di soddisfare i nostri appetiti e la nostra sensualità, gli alimenti troppo ricercati ne' ricchi che li nutriscono di calidi succhi, e li opprimono d'indigestioni, la cattiva nutritura de' poveri a cui talvolta questa pur manca, e la di cui mancanza fa che nelle occasioni si carichino avidamente lo stomaco; le vigilie, gli eccessi d'ogni specie, gli immoderati trasporti di tutte le passioni, le fatiche, fa dissipazione dello spirito, le noie, e le pene senza numero che si provano in tutti gli stati, e da cui sono perpetuamente consumate le anime; ecco i funesti garanti che la più parte dei nostri mali sono di nostra propria opera, e che noi li avressimo quasi tutti evitati, se conservata avessimo la maniera di vivere semplice, uniforme, e solitaria, che ci era stata prescritta dalla natura. Se essa ci ha destinato ad esser sani, ardisco quasi di assicurare, che lo stato di riflessione è uno stato contro natura, e che l'uomo che medita è un animal depravato. Quando si pensa alla buona costituzione de' selvaggi, almeno di quelli che non abbiam rovinato co' nostri liquori forti; quando si sa che non conoscon eglino altre malattie che le ferite e la vecchiezza, si sta per credere che facilmente si potrebbe fare la storia delle umane malattie, seguitando quelle delle civili società. Questa almeno è l'opinion di Platone, il quale giudica su certi rimedi impiegati, o approvati da Podaliro, o Macaone all'assedio di Troia, che diverse malattie che questi rimedi doveano eccitare, non erano per anco in allora conosciute fra gli uomini.

Con sì piccola sorgente di mali, l'uomo nello stato di natura non ha dunque bisogno di rimedi, meno ancora di medici: la specie umana a questo riguardo non è in nulla a peggior condizione di tutte le altre specie; egli è facile di sapere dai cacciatori se nelle loro corse trovino molti animali infermi. Ne ritrovano molti che hanno ricevuto delle considerabili ferite; benissimo cicatrizzate, che hanno avuto ossa e membra rotte, ed accomodate senz'altro chirurgo che il tempo, senz'altra regola che la vita ordinaria; e che sono rimasti perfettamente guariti ciò non ostante senza esser stati tormentati da tagli, avvelenati da droghe, ed estenuati da digiuni. Infine per quanto utile possa esser fra noi la bene amministrata medicina, egli è sempre certo che se il selvaggio ammalato abbandonato a se stesso non ha da sperare che dalla natura, in concambio ei non ha da temere che dal suo male; ciò che rende sovente preferibile la sua situazione alla nostra.

Guardiamci dunque dal confondere l'uomo selvaggio cogli uomini che abbiamo sotto gli occhi. La natura tratta tutti gl'animali abbandonati alle sue cure con una predilezione che sembra mostrare quanto ella è gelosa di questo diritto. Il cavallo, il gatto, il toro, l'asino istesso, hanno la più parte una statura più alta, tutti una costituzione più robusta, maggior vigore, forza e coraggio nelle foreste che nelle nostre case; essi perdono la metà di questi vantaggi nel diventar domestici, e si direbbe che tutte le nostre attenzioni a ben trattare e nutrire questi animali non tendono che ad imbastardirli. Egli è così dell'uomo stesso: divenendo egli sociabile e schiavo, diventa debole, timoroso, vile, e la sua maniera di vivere molle ed effeminata finisce di snervare insieme la sua forza ed il suo coraggio. Aggiugniamo che fra le condizioni selvaggia e domestica la differenza d'uomo a uomo deve essere maggiore di quella da bestia a bestia; imperciocchè l'animale e l'uomo essendo stati dalla natura egualmente trattati, tutte le comodità che si dà l'uomo a se medesimo di più di quelle che dà agli animali ch'egli addomestica, sono altrettante cause particolari che lo fanno più sensibilmente degenerare.

Non è dunque una sì gran disgrazia a questi primi uomini, nè molto meno un sì grande ostacolo alla loro conservazione, la nudità, il difetto d'abitazione e la privazione di tutte queste inutilità che noi crediamo sì necessarie. Se non sono peluti, non ne hanno alcun bisogno ne' paesi caldi; e ne' paesi freddi sanno ben tosto appropriarsi le pelli di quegli animali che hanno vinti; se non hanno che due piedi per correre, hanno però due braccia con cui provvedere alla loro difesa ed a' loro bisogni. I loro figliuoli camminano, può essere, tardi e con pena, ma le madri li portano con facilità: vantaggio che manca alle altre specie ove la madre essendo inseguita, si vede costretta d'abbandonare i suoi figli, o di regolare il suo coi loro passi. Alla fine lasciando di supporre que' concorsi singolari e fortuiti di circostanze, di cui parlerò in seguito, e che potean benissimo non arrivar giammai, egli è chiaro, in ogni stato di causa, che il primo che si fece degli abiti, o un'abitazione, si diede con ciò delle cose poco necessarie, poichè fin allora avea fatto di meno; e non si vede perchè non abbia potuto soffrire, uomo fatto, un genere di vita che avea sofferto dalla sua fanciullezza.

Solo, ozioso, e sempre vicinò al pericolo, all'uomo selvaggio deve piacere il dormire, ed avere il sonno leggero come gli animali, i quali pensando poco, dormono, per così dire, tutto il tempo che non pensano. La sua unica cura essendo quasi quella sola della sua propria conservazione, le sue facoltà le più esercitate debbono esser quelle che hanno per oggetto principale l'attacco e la difesa; sia per soggiogare la preda, sia per garantir se stesso dall'esser quella di un altro animale: al contrario gli organi che non si perfezionano che dalla morbidezza e dalla sensualità, debbono rimanere in uno stato grossolano, il quale esclude in lui ogni sorta di delicatezza; e i di lui sensi su questo punto trovandosi divisi, avrà egli il tatto ed il gusto d'un'estrema ruvidezza: la vista, l'udito, e l'odorato al maggior segno sottili. Tale è lo stato animalesco in generale; ed è altresì, secondo le riferte de' viaggiatori, quello della maggior parte degli uomini selvaggi. Non conviene stupirsi perciò se gli Ottentotti del Capo di buona Speranza scoprano colla semplice vista i vascelli in alto mare tanto lontano, quanto gli Olandesi con il canocchiale, nè che i selvaggi dell'America conoscessero gli Spagnuoli all'odore sulle tracce de' piedi, come avrebbero potuto fare i migliori cani; nè che tutte queste nazioni barbare sopportino senza pena la loro nudità, aguzzino il loro gusto a forza di peverone, e bevino i liquori Europei come l'acqua.

Io non ho considerato fin qui che l'uomo fisico, procuriam di riguardarlo adesso dalla parte metafisica e morale.

Io non veggo in ogni animale se non che una ingegnosa macchina, a cui la natura ha dati de' sensi per rimontarsi essa medesima, e per garantirsi, fino ad un certo punto, di tutto ciò che tende a distruggerla e a disordinarla. Ravviso precisamente le medesime cose nella macchina umana, con questa differenza, che la sola natura fa tutto nelle operazioni della bestia, in vece che l'uomo concorre alle sue in qualità di libero agente. L'uno sceglie o rigetta per istinto, e l'altro per un atto di libertà; lochè fa che la bestia non può allontanarsi dalla regola che gli è prescritta, neppur quando gli sarebbe vantaggioso di farlo, e che l'uomo s'allontana sovente a suo pregiudizio; in questa maniera un colombo morrebbe di fame vicino ad un bacino ripieno delle migliori vivande, ed un gatto morrebbe sopra un ammasso di frutti o grani, benchè l'uno e l'altro potrebbero benissimo nutrirsi dell'alimento che sdegnano se avessero pensato di farne la prova. In questa guisa gli uomini dissoluti si abbandonano a degli eccessi che loro producono la febbre e la morte; perchè lo spirito corrompe i sensi, e la volontà parla quando ancora la natura tace.

Ogni animale ha delle idee, poichè egli ha de' sensi, egli combina pure le sue idee fino ad un certo segno; e l'uomo non è differente in ciò dalla bestia che dal più al meno. Anzi alcuni filosofi hanno avanzato, esser una maggior differenza di tale uomo a tale uomo, che di tale uomo a tale bestia: non è dunque tanto l'intendimento che fa fra gli animali la distinzione specifica dell'uomo, quanto la sua qualità di libero agente! La natura· comanda ad ogni animale, e la bestia ubbidisce. L'uomo prova la stessa impressione, ma egli si riconosce libero per secondarla, o per resistere; ed è sovra tutto nella coscienza di questa libertà, che si mostra la spiritualità della sua anima: avvegnachè la fisica spiega in qualche maniera il meccanismo de' sensi e la formazione delle idee; ma nella potenza di volere, o piuttosto di scegliere, e nel sentimento di questa potenza non si trovano che atti puramente spirituali, quali spiegar non si possono colle leggi della meccanica.

Ma quand'anche le difficoltà che circondano tutte queste questioni, lasciassero qualche luogo a disputare su questa differenza dell'uomo e dell'animale, c'è un'altra qualità molto specifica che li distingue, e su cui non vi possono esser contese, questa è la facoltà di perfezionarsi; facoltà che coll'aiuto delle circostanze, sviluppa successivamente tutte le altre, e risiede fra noi tanto nella specie, quanto nell'individuo: in vece che un animale è alla fine di alcuni mesi, ciò ch'egli sarà tutta la sua vita, e la sua specie alla fine di mille anni, ciò ch'essa era il primo di questi mille anni. Perchè l'uomo solo è egli soggetto a divenir imbecille? non è egli forse perché ritorna così nel suo primo stato, e frattanto che la bestia che non ha nulla acquistato, e che non ha nemmen nulla a perdere, resta sempre con il suo instinto, l'uomo riperdendo, per mezzo della vecchiezza o d'altri accidenti, tuttociò che la sua perfezionabilità gli aveva fatto acquistare, ricade in tal guisa più basso che la bestia medesima? Sarebbe una cattiva cosa l'essere sforzati di convenire che appunto questa facoltà distintiva e quasi illimitata è la sorgente di tutte le disgrazie dell'uomo; che essa è quella che lo trae a forza di tempo da quella originaria condizione, in cui passerebbe i giorni tranquilli e innocenti; che essa è quella, la quale facendo nascere con i secoli i di lui lumi e i di lui errori, i suoi vizj e le sue virtù, lo rende a lungo andare il tiranno di se stesso e della natura. Sarebbe spaventevol cosa l'essere obbligati di lodar come un ente benefattore colui che il primo suggerì agli abitatori delle rive dell'Orenaco l'uso di quelle tavole che applicano sulle tempie de' loro fanciulli, a' quali assicurano, per tal mezzo, almeno una parte della loro imbecillità, e della loro originale felicità.

L'uom selvaggio abbandonato dalla natura al solo instinto, o piuttosto compensato forse di quello che gli manca con delle facoltà, capaci di supplirci da principio, e d'innalzarlo in seguito molto al disopra di quello, comincerà dunque dalle funzioni puramente animalesche. Vedere e sentire sarà il suo primo stato, il quale gli sarà comune con tutti gli altri animali. Volere e non volere, desiderare e temere, saranno le prime e quasi le sole operazioni della sua anima, finochè nuove circostanze vi cagionino novelli sviluppi.

Checchè ne dicano i moralisti, l'umano intendimento è molto debitore alle passioni, le quali di un comune assenso gli debbono molto altresì. Per l'attività delle passioni si perfeziona la nostra ragione: noi non cerchiamo a conoscere, se non perché desideriamo di godere; poichè non è possibile di concepire, come mai quello il quale non avesse nè desiderj, nè timori si dasse la pena di ragionare. Le passioni dalla lor parte traggono la loro origine da' nostri bisogni, ed il loro progresso dalle nostre cognizioni: imperciocchè non si può desiderare o temere le cose che sulle idee che se ne può avere, o sulla semplice impulsione, della natura. E l'uomo selvaggio , privo d'ogni sorta di lumi, non prova che le passioni di quest'ultima spezie; i suoi desiderj non oltrepassano i suoi fisici bisogni: i soli beni ch'egli conosca nell'universo, sono il cibo, una femmina, ed il riposo; i soli mali ch'ei teme, sono il dolore e la fame: io dico il dolore, e non la morte; poichè l'animale non saprà giammai ciocchè sia il morire: e la cognizione della morte e de' suoi terrori, è uno de' primi acquisti che l'uomo ha fatti nell'allontanarsi dalla animalesca condizione.

Mi sarebbe facile, se ciò mi fosse necessario, l'avvalorare questo sentimento coi fatti, e di far vedere che appresso tutte le nazioni del mondo, i progressi dello spirito si sono precisamente proporzionati ai bisogni che i popoli avevano ricevuti dalla natura, oppure a quelli a cui le circostanzeli avevano assoggettati, e per conseguenza alle passioni che li portavano a provedere a questi bisogni. Mostrerei in Egitto le arti nascenti, e dilatantisi colle inondazioni del nilo; seguirei i loro progressi appo i Greci, ove si videro germogliare, crescere, ed innalzarsi fino ai cieli fra la sabbia e i scogli dell'Attica, senzachè potessero prender radice sulle fertili sponde dell'Eurota; rimarcherei che in generale i popoli del Nord sono più industriosi che quelli del Mezzogiorno, perchè non possono far a meno di non esserlo; come se la natura volesse in tal guisa uguagliare le cose, dando agli spiriti la fertilità ch'essa rifiuta alla terra.

Ma senza ricorrere agl'incerti testimonj della storia, chi non vede che tutto sembra allontanare dall'uomo selvaggio la tentazione e i mezzi per cessar di esserlo? nulla gli dipinge la sua immaginazione; nulla gli domanda il suo cuore. Trova facilmente con che soddisfare i suoi modici bisogni, ed è sì lontano dal grado di una necessaria cognizione per desiderar d'acquistarne de' più grandi, ch'egli non può avere nè previdenza, nè curiosità. Lo spettacolo della natura gli diventa indifferente a forza di diventargli famigliare. E' sempre lo stesso ordine, vede sempre le medesime rivoluzioni, ed egli non ha lo spirito per stupirsi delle meraviglie le più grandi; non è già appresso di lui che convenga cercare la filosofia, di cui l'uomo ha bisogno per saper osservare una volta ciò che ha veduto tutti i giorni. La sua anima che nulla lo agita, si abbandona al solo sentimento di sua attuale esistenza, senza alcuna idea dell'avvenire, per quanto vicino che possa essere; ed i suoi progetti, ristretti come le sue mire, si estendono appena fino alla fine del giorno. Tal è ancora al dì d'oggi il grado di previdenza del Caraibo: vende egli la mattina il suo letto di cotone, e viene la sera a piangere per riscuoterlo, per difetto di non aver preveduto· che ne avrebbe bisogno la notte ventura.

Più che si medita su questo soggetto, tanto più s'ingrandisce a' nostri sguardi la distanza delle pure sensazioni alle più semplici cognizioni; ed è impossibile di concepire come un uomo avesse potuto colle sue sole forze, senza il soccorso della comunicazione, e senza lo stimolo della necessità sormontare con sì grande intervallo. Quanti secoli forse saranno scorsi pria che gli uomini sieno stati a portata di veder altro fuoco che quello del cielo! quanti accidenti non gli saranno abbisognati pria d'imparare gli usi i più comuni di questo elemento! quante volte non lo avranno lasciato essi estinguere prima di aver acquistata l'arte di riprodurlo! E quante volte forse ciascuno di questi secreti non sarà egli morto con colui che lo aveva scoperto! Che diremo noi dell'agricoltura, arte che richiede tanto travaglio e tanta previdenza, che ha relazione con altre arti, la quale evidentissimamente non è praticabile che in una società almeno cominciata, e che non ci serve tanto per trarre dalla terra degli alimenti ch'ella ci fornirebbe senza ciò, quanto a sforzarla ad alcune preferenze che sono di nostro maggior gusto? Ma supponiamo che gli uomini avessero talmente moltiplicato, che le produzioni naturali non avessero più bastato per nutrirli, supposizione che per dirlo di passaggio mostrerebbe un grande vantaggio per la specie umana in questa maniera di vivere; supponiamo che senza fucine e senza artefici, gli strumenti da lavoro fossero caduti dal cielo fra le mani de' selvaggi; che questi uomini avessero vinto l'odio mortale che eglino tutti hanno per il continuo lavoro; che avessero imparato a prevedere i loro futuri bisogni, che avessero indovinato in qual guisa convenga coltivare la terra, seminare i grani, e piantare gli arbori; che avessero trovata l'arte di macinare il formento, e di por l'uva in fermentazione; cose tutte che ha convenuto fargli insegnare dagli dei per non poter concepire come avessero potuto impararleda se medesimi; qual sarebbe dopo ciò quell'uomo tanto insensato per tormentarsi alla coltura di un campo che sarà spogliato dal primo venuto uomo, o bestia indifferentemente a cui converrà questa raccolta? e come alcuno potrà risolversi a passare la sua vita in un penoso lavoro, di cui egli è d'altrettanto più sicuro di non raccogliere il prezzo quanto più gli sarà necessario? In una parola come questa situazione potrà ella portar gli uomini a coltivare la terra, fintanto ch'ella non sarà divisa fra essi, cioè tanto che non sarà annichilato lo stato di natura?

Quando noi volessimo supporre un uomo selvaggio altrettanto abile nell'arte di pensare, quanto ce lo fanno i nostri filosofi; quando noi facessimo, a loro esempio, un filosofo esso medesimo, scoprendo egli solo le verità più sublimi; facendosi col mezzo di astrattissimi ragionamenti, delle massime di giustizia e di ragione tratte dall'amore dell'ordine in generale, o dalla conosciuta verità del suo creatore; in una parola, quando noi gli supponessimo nello spirito tanta intelligenza e tanto lume, quanto egli deve avere, e che se gli trova in effetto di peso e di stupidezza, qual utilità n è trarrebbe la specie da tutta questa metafisica che non si potrebbe comunicare, e che perirebbe coll'individuo che l'avesse inventata? Qual progresso potrebbe far il genere umano sparso ne' boschi fra gli animali? E fino a qual punto potrebbero perfezionarsi ed illuminarsi scambievolmente uomini, i quali non avendo nè domicilio fisso, nè verun bisogno l'uno dell'altro si incontrerebbero forse appena due volte in vita loro, senza conoscersi e senza parlarsi?

Che si pensi di quante idee noi siamo debitori all'uso della parola; quanto la grammatica esercita e facilita le operazioni dello spirito; e che si pensi alle inconcepibili pene, al tempo infinito che ha dovuto costare la prima invenzione delle lingue; che si uniscano queste riflessioni alle precedenti, e si giudicherà quante migliaia di secoli sono trascorse per successivamente sviluppare nello spirito umano le operazioni di cui egli era capace.

Che mi sia permesso di considerare uno istante gli imbarazzi dell'origine delle lingue. Potrei contentarmi di citare, o di ripetere qui le ricerche che il sig. abate di Condillac ha fatte su questa materia, le quali tutte confermano il mio sentimento, e che può essere me n'abbiano data la prima idea, ma la maniera con cui questo filosofo risolve le difficoltà ch'egli fa a se stesso sull'origine de' segni instituiti, mostrando ch'egli ha supposto ciò ch'io pongo in questione, cioè una sorte di società già stabilita fra gl'inventori del linguaggio, io credo, che nel riportarmi alle sue riflessioni, debba unirvi le mie, per esporre chiaramente le medesime difficoltà che convengono al mio soggetto. La prima che mi si presenta è quella d'immaginare come esse abbiano potuto divenir necessarie; poichè non avendo gli uomini veruna corrispondenza fra loro, nè alcun bisogno di averne, non si concepisce nè la necessità di questa invenzione, nè la sua possibilità, s'essa non era indispensabile. Io direi bene, come molti altri, che le lingue sono nate nel commercio domestico dei padri, delle madri, e dei figliuoli: ma oltre che ciò punto non risolverebbe le obbiezioni, ciò sarebbe commettere il difetto di quelli i quali ragionando sullo stato della natura, vi trasportano le idee prese nella società, vedendo sempre la famiglia riunita in una medesima abitazione, e guardando i suoi membri fra essi una unione tanto intima e tanto permanente quanto fra noi, ove tanti comuni interessi gli riuniscono; in vece che in questo primitivo stato, non avendo nè case, nè capanne, nè proprietà di alcuna sorte, ciascuno si alloggiava all'azzardo, e sovente per una sola notte; i maschi e le femmine si univano secondo l'incontro, l'occasione e il desiderio, senza che la parola fosse un interprete molto necessario delle cose che avevano a dirsi: essi si abbandonavano colla medesima facilità. La madre allattava da principio i suoi parti per il suo proprio bisogno; in seguito l'abitudine avendoglieli resi cari, essa li nutrisce poi per il loro bisogno: sì tosto ch'essi avevano la forza di cercare il loro nutrimento, essi non tardavano ad abbandonare la loro stessa madre; e come essi non avean quasi altro mezzo di ritrovarsi che quello di non perdersi di vista, essi erano ben presto al punto di riconoscersi l'un l'altro. Rimarcate ancora che il fanciullo avendo a spiegare tutti i suoi bisogni, e per conseguenza più cose da dire alla madre, che la madre al fanciullo, egli è quello che deve fare le più grandi spese dell'invenzione, e che il linguaggio ch'egli impiega deve esser in gran parte sua propria opera: ciò che moltiplica tanto le lingue, quanto vi sono degl'individui per parlare, al che contribuisce ancora la vita errante, o vagabonda, che non lascia a verun idioma il tempo di prender consistenza; imperciocchè il dire che la madre detta al fanciullo le parole di cui dovrà servirsi per dimandargli la tale cosa, o la tal altra, questo ben mostra come s'insegnino le lingue già formate, ma ciò non ci fa conoscere come esse si formino.

Supponiamo vinta questa prima difficoltà:·sorpassiamo per un momento lo spazio immenso che dovette essere fra il puro stato di natura ed il bisogno delle lingue; e cerchiamo, nel supporle necessarie, come esse poterono cominciar a stabilirsi. Nuova difficoltà peggior ancora della precedente: poichè se gli uomini hanno avuto bisogno della parola per imparar a pensare, essi hanno avuto più bisogno ancora di saper pensare per trovar l'arte della parola. E quando si comprendesse come i suoni della voce sieno stati presi per interpreti convenzionali delle nostre idee, resterebbe sempre a sapere, quali abbiano potuto essere gli interpreti parimenti di questa convenzione per le idee, le quali non avendo un oggetto sensibile, non potevano indicarsi nè col gesto, nè colla voce: di maniera che appena si può formare conghietture soffribili sulla nascita dell'arte di comunicare i suoi pensieri, e di stabilire un commercio fra gli spiriti. Arte sublime, che già sì lungi è dalla sua origine, ma che il filosofo vede ancora a una sì prodigiosa distanza di sua perfezione, che non c'è uomo abbastanza ardito per assicurare d'arrivarci giammai, quando anco le rivoluzioni che il tempo conduce necessariamente fossero sospese in di lui favore, che li pregiudizi sortissero dalle accademie, o d'innanzi ad esse tacessero, e ch'esse potessero occuparsi diquesto spinoso oggetto per interi secoli senza interruzione.

Il primo linguaggio dell'uomo, il linguaggio il più universale, il più energico, ed il solo di cui egli avesse bisogno avanti che bisognasse persuader uomini uniti, è il grido della natura. Come questo grido non era strappato che da una sorta d'istinto nelle premurose occasioni per implorar soccorso nei gran pericoli, o ne' mali violenti sollievo, egli non era d'un grand'uso nel corso ordinario della vita, ove regnano sentimenti più moderati. Quando le idee degli uomini cominciarono ad estendersi e moltiplicarsi, e che fra essi si stabilì una comunicazione più strttta, cercarono segni più numerosi, e un linguaggio più esteso: moltiplicarono le inflessioni della voce, e vi unirono i gesti, i quali per lor natura sono più espressivi, e il di cui senso da una determinazione anteriore meno dipende. Essi esprimevano dunque gli oggetti visibili e mobili per mezzo dei gesti; e quelli che colpiscono l'udito col mezzo d'imitativi suoni: ma come il gesto non indica guari che gli oggetti presenti, o facili a descriversi, e le visibili azioni, ch'egli non è di un'uso universale, poiché l'oscurità; o l'interposizione di un corpo lo rende inutile, e ch'egli esige l'attenzione piuttosto ch'eccitarla; si pensò infine di sostituirgli le articolazioni della voce, le quali senza aver il medesimo rapporto con certe idee, sono più proprie a rappresentarle tutte come segni instituiti: sostituzione che non si può fare che di un comune consentimento, e di una maniera molto difficile a praticarsi da uomini, i di cui organi grossolani non avevano per anco verun esercizio, e più difficile ancora da concepirsi in essa medesima, poichè questo unanime accordo deve esser motivato, e perchè la parola stessa sembra esser stata molto necessaria per stabilire l'uso della parola.

Si deve giudicare che le prime parole di cui gli uomini fecer uso ebbero nel loro spirito una significazione molto più estesa di quelle che s'impiegano nelle lingue già formate: e ch'ignorando la divisione del discorso nelle sue parti constitutive, eglino diedero subito a ciascuna parola il senso d' una intera proposizione. Quando cominciarono a distinguere il soggetto dall'attributo, ed il verbo dal nome, ciò che non fu un mediocre sforzo di talento, li sostantivi non furono nel principio che altrettanti nomi propri, l'infinito fu il solo tempo de verbi: e riguardo agli addiettivi, la nozione non dovè svilupparsi che molto difficilmente, perchè ogni addiettivo è una parola astratta, e le astrazioni sono operazioni penose e poco naturali. Ciascun oggetto ricevè dapprincipio un nome particolare, senza riguardo ai generi, ed alle specie, che questi primi institutori non erano in istato di distinguere; e tutti gli individui si presentarono isolati al loro spirito, come lo sono nel quadro della natura. Se una quercia si chiamava A, un altra quercia si chiamava B: di maniera chè quanto più eran ristrette le cognizioni, tanto più diveniva esteso il dizionario. L'imbarazzo di tutta questa nomenclatura non potè esser facilmente levato; avvegnachè per ordinare gli enti sotto comuni e generiche denominazioni, bisognava conoscere le proprietà e le differenze: occorrevano delle osservazioni e delle definizioni, cioè a dire, dell'istoria naturale e della metafisica, molto più di quanto ne potessero avere gli uomini di quel tempo.

Dall'altra parte le idee generali non possono introdursi nello spirito che coll'aiuto delle parole, e non le concepisce l'intendimento che per mezzo di proposizioni. Questa è una delle ragioni per la quale gli animali non potrebbero formarsi tali idee, né giammai acquistare la perfezionabilità, che da queste idee dipende. Quando una scimia passa senza esitare da una noce all'altra, si pensa forse ch'essa abbia l'idea generale di questa sorte di frutto, e ch'essa paragoni il suo archetipo a questi due individui? nò senza dubbio; ma la vista d'una di queste noci richiama alla sua memoria le sensazioni che ha ricevute dall'altra, e li suoi occhi modificati di una certa maniera anunziano al suo gusto la modificazione che sta per ricevere. Ogni idea generale è puramente intellettuale; per poco che se ne impacci la fantasia, l'idea divien ben tosto particolare. Procurate di delinearvi l'immagine d'un arbore in generale, voi non ci verrete giammai al fine; vostro malgrado vi converrà vederlo piccolo o grande, raro o folto, di color chiaro o bruno: e se dipendesse da voi di non vederci che ciò che si vede in ogn'albero, codesta immagine non somiglierebbe più ad un albero. Gli enti, puramente astratti in tal guisa si vedono, oppure non si concepiscono che dal discorso. La sola definizione del triangolo venne dalla vera idea: appena che voi ve ne figurate uno nel vostro spirito, egli è un tal triangolo, e non già un altro, e voi non potete evitare di rendere sensibili le linee, o colorito il piano. Bisogna dunque enunziare delle proposizioni, bisogna dunque parlare per aver delle idee generali; imperciocchè tosto che l'immaginazione si ferma, più non cammina lo spirito che coll'aiuto del discorso. Se dunque i primi inventori non hanno potuto dar nomi se non che a quelle idee ch'essi già avevano, ne segue che i primi sostantivi non hanno potuto essere che nomi propri.

Ma allorchè i nostri grammatici, per via di que' mezzi ch'io non concepisco, cominciarono a estendere le loro idee e a generalizzare le loro pàrole, l'ignoranza degli inventori, dovè assoggettare questo metodo a confini molto ristretti, e come essi avevano nel principio troppo moltiplicati i nomi degli individui, per difetto di conoscere i generi e le specie, fecero in seguito troppo poco di specie e di generi, per mancanza di non aver considerato gli enti in tutte le loro differenze. Per spinger più oltre le divisioni conveniva loro maggior esperienza e cognizione di quella che potessero avere, e maggiori ricerche e fatiche di quelle ch'essi volevano impiegare. Ora siccome al dì d'oggi si scoprono ogni giorno novelle specie ch'erano fin qui scappate alle nostre osservazioni, che si pensi quante ne dovettero sfuggire a uomini che non giudicavano delle cose che al primo aspetto. Quanto alle primitive classi, ed alle più generali nozioni, egli è superfluo di aggiugnere, ch'esse dovettero pure sfuggir loro: per esempio, come avrebbero essi potuto immaginarsi, o intendere le parole di materia, spirito, sostanza, modo, figura, moto, posciacchè i nostri filosofi, i quali se ne servono dopo sì lungo tempo hanno della gran difficoltà per intenderli; ed essendo le idee che si attaccano a queste parole, puramente metafisiche, eglino non ne trovavano alcun modello nella natura.

Mi fermo a questi primi passi, e supplico i miei giudici di sospender quivi la lettura, per considerare, su l'invenzione dei soli sostantivi fisici, cioè a dire, su la parte della lingua la più facile a trovarsi, il cammino che loro resta a fare per esprimere tutti i pensieri degli uomini, per prender una forma costante onde poter essere parlata in pubblico, e influir sulla società: io li supplico di riflettere a quanto vi abbia convenuto di tempo e di cognizioni per trovare i numeri, le parole astratte, gli aoristi (tempi indefiniti) e tutti i tempi dei verbi, le particole, la sintassi, legar le proposizioni, li ragionamenti, e formare tutta la logica del discorso. Quanto a me, spaventato dalle difficoltà che si moltiplicano, e convinto dell'impossibilità quasi dimostrata che le lingue abbino potuto nascere e stabilirsi da mezzi puramente umani, io lascio a chi vorrà intraprendere la discussione di questo difficile problema: Qual sia stato più necessario, o la società già legata all'instituzion delle lingue, o le lingue già inventate all'instituzion della società?

Checchè ne sia di queste origini, si vede almeno la poca cura che si ha preso la natura per avvicinare gli uomini con mutui bisogni, e di facilitar loro l'uso della parola, quanto ella abbia potuto preparare la loro sociabilità, e quanto ella abbia potuto porvi del suo in tutto ciò ch'essi hanno fatto per stabilirne i legami. In fatti, egli è impossibile d'immaginarsi perchè, in questo primitivo stato, un uomo avesse piuttosto bisogno di un altro uomo, che una scimia o un lupo del suo simile: nè supposto questo bisogno, qual motivo potesse impegnar l'altro a provederci; neppure in quest'ultimo caso, come potessero convenire fra loro delle condizioni. So che ci viene continuamente ripetuto che nulla più sarebbe stato tanto miserabile, quanto l'uomo in un tale stato: e s'egli è vero, come io credo di averlo provato, che se non dopo molti secoli egli abbia potuto avere il desiderio e l'occasione di sortirne, questo sarebbe un processo da fare alla natura, e non a quello ch'essa avesse talmente constituito. Ma se io bene intendo questo termine di miserabile, questa è una parola che non ha verun senso, o che non significa che una dolorosa privazione, ed il patimento del corpo, o dell'anima: or io vorrei che mi si spiegasse qual può essere il genere di miseria di un ente libero, il di cui cuore è in pace, ed in salute il corpo. Io domando, se la vita civile o naturale, è la più soggetta a divenir insoffribile a quelli che ne godono? Noi non vediamo quasi attorno di noi, che persone le quali si lagnano della loro esistenza; molti pure che se ne privano, per quanto è in loro potere: e la riunione delle leggi divine e umane, basta appena per fermar questo disordine. Io domando se giammai s'abbia sentito dire che un selvaggio in libertà abbia solamente pensato a lagnarsi della vita e a darsi la morte. Che si giudichi dunque con meno orgoglio da qual parte sia la vera miseria. Nulla al contrario sarebbe stato più miserabile quanto l'uomo selvaggio abbagliato da cognizioni, da passioni tormentato; e ragionando sovra uno stato dal suo differente. Ciò fu per disposizione di una savissima provvidenza, che le facoltà ch'egli aveva in potere non dovessero svilupparsi che colle occasioni di esercitarle, affinché non gli fossero nè superflue e a carico inanzi il tempo, nè tardive ed inutili al bisogno. Egli aveva nello istinto tuttociò che gli bisognava per vivere nello stato di natura, egli non ha in una coltivata ragione che ciò che gli bisogna per vivere in società.

Si vede subito che gli uomini in questo stato non avendo fra essi veruna sorte di morale relazione, nè di conosciuti doveri, non potevano essere nè buoni nè cattivi e non avevano nè vizj nè virtù, quando non si volesse prendere queste parole in un senso fisico: si chiamano vizi nell'individuo le qualità che possono nuocere alla sua propria conservazione, e virtù quelle che possono contribuirci; nel qual caso converrebbe chiamar più virtuoso quello che meno resisterebbe alle semplici impulsioni della natura. Ma senza allontanarci dal senso ordinario, egli è a proposito di sospendere il giudizio che potressimo portare su una tal situazione, e di non fidarci de' nostri pregiudizi, finochè colla bilancia alla mano, non s'abbia esaminato se vi sieno più virtù che vizi fra gli uomini inciviliti, o se le loro virtù sieno più vantaggiose di quanto sieno funesti i loro vizi, o se il progresso delle loro cognizioni sia un'adequata compensazione dei mali che si fanno vicendevolmente a misura che s'instruiscono del bene che dovrebbero farsi, o per abbracciar tutto, se non sarebbero in una più felice situazione di non aver a temer il male, né a sperar il bene da chicchesia, di quello sia l'essersi sottomessi ad una universale dipendenza d'obbligarsi a ricever tutto da quelli, i quali non si sono obbligati di dar loro nulla.

Guardiamci sovra tutto dal concluder con Hobbes, che l'uomo sia naturalmente cattivo, perchè non ha idea della bontà, che sia vizioso, perchè non conosce la virtù, che ricusi sempre a' suoi simili i servigi che non gli crede dovuti, nè che in virtù del diritto che con ragione si attribuisce alle cose di cui ha bisogno, egli pazzamente s'immagini d'essere il solo proprietario dell'universo. Hobbes ha benissimo veduto il difetto di tutte le definizioni moderne del diritto naturale: ma le conseguenze ch'egli tira dalla sua mostrano ch'egli la prende in un senso che non è meno falso. Ragionando su i principi ch'egli stabilisce, questo autore doveva dire che lo stato di natura essendo quello ove la cura di nostra conservazione è la meno pregiudizievole a quella degli altri, questo stato era per conseguenza il più proprjo alla pace, ed il più convenevole al genere umano. Egli dice precisamente lo contrario, per aver fatto entrar mal a proposito nella cura della conservazione dell'uom selvaggio il bisogno di soddisfare una moltitudine di passioni, che sono opera della società, e che hanno renduto necessarie le leggi. Il cattivo dic'egli è un robusto fanciullo: resta a sapere se il selvaggio sia un fanciullo robusto. Quand'anche se glielo accordasse, che ne concluderebbe egli? Che se quando è robusto quest'uomo fosse così dipendente dagli altri come quando egli èdebole; non vi è sorte d'eccessi ai quali non si portasse: ch'egli non battesse sua madre quand'ella tardasse troppo a dargli le mammelle, che non strangolasse uno de' suoi giovani fratelli quando gli fosse incomodo, che non morsicasse la gamba all'altro quando ne fosse urtato o sturbato. Ma queste sono due contradditorie supposizioni nello stato di natura, cioè esser robusto e dipendente: l'uomo è debole quando egli è dipendente, ed è emancipato pria d'esser robusto. Hobbes non ha veduto che la medesima causa che impedisce i selvaggi di usare della loro ragione, come lo pretendono i nostri giureconsulti, li impediste nel medesimo tempo di abusare delle loro facoltà, come lo pretende egli medesimo: di maniera che si potrebbe dire che li selvaggi non sono precisamente cattivi; perchè non sanno ciò che sia l'esser buono; imperciocchè non è nè lo sviluppamento de' lumi, nè il freno della legge, ma la calma delle passioni e l'ignoranza del vizio che gli impediscono il mal fare: tanto plus in illis proficuit vitiorurn ignoratio, quam in his cognitio virtutis. Vi è dall'altra parte un altro principio che Hobbes non ha veduto, e il quale, essendo stato dato all'uomo per raddolcire in certe circostanze la ferocità del suo amor proprio, o il desiderio di conservarsi avanti la nascita di questo amore, tempera l'ardore ch'egli ha per il suo ben essere da una repugnanza innata di veder a soffrir il suo simile. Io non credo di aver a temere veruna contraddizione, accordando all'uomo la sola virtù naturale che è stato sforzato di riconoscere il più gran detrattore delle umane virtù. Io parlo della pietà, disposizion convenevole ad enti così deboli, e soggetti ad altrettanti mali come noi lo siamo; virtù tanto più universale, e tanto più utile all'uomo, ch'ella precede in lui l'uso di ogni riflessione; e tanto naturale che le medesime bestie ne danno alcune volte sensibili segni. Senza parlare della tenerezza delle madri verso i loro piccoli figli, e i pericoli che affrontano per garantirneli, si osserva tutti i giorni la ripugnanza che hanno i cavalli di calpestar co' piedi un corpo vivente; un animale non passa senza inquietezza vicino un'animale morto della sua specie; ve ne sono pure che gli danno una sorte di sepoltura: ed i tristi muggiti del bestiame ch'entra in una beccheria annunciano l'impressione ch'egli riceve dall'orribile spettacolo che lo colpisce. Si vede con piacere l'autor della favola delle api, costretto di riconoscere l'uomo per un ente pietoso e sensibile, uscire, nell'esempio che ci dà, dal suo stile freddo e sottile, per offrirci la patetica immagine di un uomo rinchiuso, che scorge al di fuori una bestia feroce strappare un funciullo dal seno di sua madre, rompere co' suoi denti omicidi le deboli membra, e squarciar colle sue unghie le viscere palpitanti di questo fanciullo. Quale spaventevole agitazione non prova questo testimonio di un avvenimento, di cui egli non ne ha verun personale interesse! Quali angosce non soffre egli a tal vista di non potere recar soccorso alcuno alla svenuta madre, nè allo spirante fanciullo!

Tal è il puro moto della natura, anteriore ad ogni riflessione: tale è la forza della naturale pietà, che i più depravati costumi non possono distruggere, poichè si vede tutti i giorni nei nostri spettacoli intenerirsi, e piagnere alle disgrazie d'uno sfortunato quel tale, che se fosse in vece del tiranno aggraverebbe di più i tormenti del suo nemico. Mandeville ha molto ben capito che con tutta ha la loro morale gli uomini non sarebbero stati che mostri, se la natura non avesse loro data la pietà per appoggio dalla ragione; ma egli non ha veduto che da questa sola qualità scaturiscono tutte le virtù sociali ch'egli vuol disputare agli uomini. Ed in fatti, che cosa èla generosità, la clemenza, l'umanità, se non se la pietà applicata ai deboli, ai colpevoli, o alla specie umana in generale? La benevolenza e la stessa amicizia sono, a ben esaminarle, produzioni d'una costante pietà fissata sovra un particolare oggetto: imperciocchè desiderare che alcuno non soffra, è ella altra cosa se non che desiderare ch'egli sia felice? Quand'anche fosse vero che la commiserazione altro non fosse che un sentimento il quale ci metta nel luogo di quello che soffre, sentimento oscuro e vivo nell'uom selvaggio, sviluppato ma debole nell'uom civile, che importerebbe questa idea alla verità di ciò ch'io dico, se non se a dargli una maggior forza? Ed in fatti la commiserazione sarà tanto più energica, quanto più l'animale spettatore s'identificherà più intimamente coll'animale che soffre: ora egli è evidente che questa identificazione ha dovuto essere infinitamente più intensa nello stato di natura, che nello stato di raziocinio. La ragione è quella che genera l'amor proprio, e la riflessione è quella che lo fortifica; essa è quella che ripiega l'uomo sovra se stesso, e lo separa da tutto ciò che lo molesta e lo affligge: la filosofia lo rende isolato, ed è per essa, che all'aspetto di un uomo che soffre, egli dice in secreto: perisci se tu vuoi, io sono in si curo. Non vi sono che i pericoli della società intera, i quali turbano il tranquillo sonno del filosofo, e che dal suo letto lo staccano. Si può impunemente scannare il suo simile sotto alla sua finestra; egli non ha che a mettere le sue mani sulle sue orecchie, ed argomentarsi un poco, per impedire alla natura che in lui si rivolta, dall'identificarlo con quello che si assassina. L'uomo selvaggio non ha dunque questo ammirabile talento; e per mancanza di saviezza e di ragione, lo si vede sempre a storditamente abbandonarsi al primo sentimento dell'umanità. Nelle sollevazioni, nelle querele delle strade, il popolaccio si unisce, l'uomo prudente si allontana: la canaglia, e le femmine de' mercati sono quegli che separano i combattenti, e che impediscono le oneste persone di uccidersi.

Egli è dunque ben certo che la pietà è un sentimento naturale, il quale moderando in ciascun individuo l'attività dell'amor di se stesso, concorre alla mutua conservazione di tutta la specie. La pietà è quella che ci porta senza riflessione al soccorso di quelli che noi vediam soffrire: ella è quella che nello stato di natura tien luogo di legge, di costumi, e di virtù; con questo vantaggio, che non c'è alcuno che sia tentato di disobbedire alla sua dolce voce: ella è, quella che rimoverà ogni robusto selvaggio dal levare ad un debole fanciullo, o a un vecchio infermo la sua sussistenza acquistata con pena, s'egli medesimo spera poter trovare altrove la sua: ella è quella, la quale in vece di questa sublime massima di giustizia ragionata: fa ad altri quello vorresti che fosse fatto a te medesimo, inspira a tutti gli uomini quest'altra massima di naturale bontà, ben meno perfetta, ma più utile può esser che la precedente: fa il tuo bene col minor male degli altri che ti sia possibile: egli è in una parola, in questo naturale sentimento, piuttosto che nei fini argomenti, dove convien cercare la ripugnanza che proverebbe ogni uomo a mal fare, indipendentemente ancora dalle massime dell'educazione. Abbenchè appartenga a Socrate ed agli spiriti della di lui tempra, d'acquistar la virtù per mezzo della ragione; sarebbe lungo tempo che il genere umano più non esisterebbe, se la sua conservazione non avesse dipenduto che dai ragionamenti di quelli che lo compongono.

Con passioni sì poco attive, ed un freno sì salutare , gli uomini piuttosto feroci che cattivi, e più attenti a garantirsi dal male ch'essi potevano ricevere, che tentati di farne agli altri, non erano soggetti a risse molto pericolose. Come non avevano fra essi alcuna sorta di commercio; che non conoscevano per conseguenza nè la vanità, nè la considerazione, nè la stima, nè il disprezzo; che non avevano la minima ragione del tuo e del mio, nè alcuna vera idea della giustizia; che riguardavano le violenze che potevano provare, come un male facile a ripararsi, e non come una ingiuria da punirsi; e che non procuravano la vendetta, se non forse macchinalmente e sullo stesso momento, come il cane che morde la pietra che se gli getta; le loro dispute avrebbero avuto raramente conseguenze sanguinose, se esse non avessero avuto un oggetto più sensibile della pastura; ma ne veggo uno più pericoloso, di cui mi resta a parlare.

Fra le passioni che agitano il cuor dell'uomo, ve n'è una ardente, impetuosa, che rende l'un sesso necessario all'altro; terribile passione che sfida tutti i pericoli, rovescia tutti gli ostacoli, e che ne' suoi furori sembra propria a distruggere il genere umano ch'essa è destinata a conservare. Che diverranno gli uomini in preda a questa rabbia sfrenata e brutale, senza pudore, senza ritegno, disputandosi ogni giorno i loro amori al prezzo del loro sangue?

Bisogna convenir subito, che quanto più le passioni sono violenti, tanto più le leggi sono necessarie per contenerle: ma oltre che i disordini e i delitti che queste tutti i giorni fra noi cagionano, mostrano molto l'insufficienza delle leggi a questo riguardo, sarebbe ancora cosa buona da esaminarsi se questi disordini sieno nati colle leggi stesse; imperciocchè alloraquando elleno fossero capaci di reprimerli, questo sarebbe il meno che se ne dovesse esigere, cioè di fermare un male che non esisterebbe senza di esse.

Incominciamo dal distinguere il morale dal fisico nel sentimento dell'amore. Il fisico è quel desiderio generale che ha l'un sesso ad unirsi all'altro; il morale è quello che determina questo desiderio, e lo fissa sovra un solo oggetto esclusivamente, o che almeno gli dà per questo oggetto preferito un più alto grado di energia. Ora egli è facile di vedere che il morale dell'amore è un sentimento fattizio, nato dall'uso della società, e celebrato dalle femmine con molta abilità e cura per istabilire il loro impero, e render dominante quel sesso che dovrebbe obbedire. Questo sentimento essendo fondato su alcune nozioni di merito, o di bellezza che un selvaggio non è in istato di avere, e su alcuni paragoni che non è in istato di fare, questo sentimento deve essere quasi nullo per esso: poichè, come il suo spirito non ha potuto formarsi idee astratte di regolarità e di proporzione, del pari il suo cuore non è suscettibile di que' sentimenti d'ammirazione, di amore, i quali senza neppure accorgersene, nascono dall'applicazione di queste idee; egli ascolta unicamente il temperamento che ha ricevuto dalla natura, e non il gusto che non ha potuto acquistare; ed ogni femmina è buona per esso.

Ristretti al solo fisico dell'amore, e molto felici per ignorare queste preferenze che irritano il sentimento, e accrescono le difficoltà, gli uomini debbono sentire con minor frequenza, e men vivamente gli ardori del temperamento, e per conseguenza essere fra essi le dispute più rare e meno crudeli. L'immaginazione che fa tante stragi fra noi, non parla a cuori selvaggi; ciascuno attende tranquillamente l'impulso della natura; vi si abbandona allora senza scelta con maggior piacere che furore; e soddisfatto il bisogno, resta estinto ogni desiderio.

Ella è dunque una cosa incontrastabile, che l'amor medesimo, come pure tutte le altre passioni, non ha acquistato che nella società quell'impetuoso ardore che lo rende così sovente funesto agli uomini: ed egli è tanto più ridicolo di rappresentare i selvaggi continuamente intesi l'un l'altro ad ammazzarsi per soddisfare la loro brutalità, quanto più questa opinione è direttamente contraria all'esperienza; e che i Caribi, quello che di tutti i popoli esistenti si sia fino a quest'ora il meno allontanato dallo stato di natura, sono precisamente i più pacifici ne' loro amori, e i meno soggetti alla gelosia, tuttochè vivano sotto un clima ardente, il quale sembra che dia sempre a queste passioni una più grande attività.

Riguardo alle induzioni che trar si potrebbero in diverse specie di animali dai combattimenti dei maschi, i quali insanguinano in ogni tempo i nostri cortili, o che fanno risuonare nella primavera i nostri boschi delle loro grida per disputarsi la femmina, convien subito cominciare dall'escludere tutte le specie, in cui la natura ha manifestamente stabilito, nella potenza relativa dei sessi, rapporti differenti dai nostri; così il combattimento de' galli non forma un'induzione per la specie umana. E nella specie ove la proporzione è meglio osservata, codesti combattimenti non possono avere per causa che il poco numero delle femmine riguardo a quello de' maschi, oppure gli esclusivi intervalli, duranti i quali la femmina ricusa costantemente l'avvicinamento del maschio, locchè ritorna alla prima causa; poichè se ciascuna femmina non soffre il maschio che per due mesi dell'anno, egli è lo stesso come se il numero delle femmine fosse minore di cinque sesti: ora veruno di questi due casi non è applicabile alla specie umana, in cui il numero delle femmine sorpassa generalmente quello degli uomini, e in cui non si è giammai osservato, neppure fra i selvaggi; che le femmine abbiano, come quelle delle altre specie, il tempo di calore e di esclusiva. Di più, fra molti di questi animali, tutta la specie entrando nel medesimo tempo nellaeffervescenza, ne viene un momento terribile di comune ardore, di tumulto, di disordine, e di combattimento: momento il quale non ha luogo fra l'umana specie, in cui non è giammai periodico l'amore. Non si può dunque concludere dal combattimento di certi animali per il possesso delle femmine, che la stessa cosa accadrebbe all'uomo nello stato di natura; e quand'anche si potesse trarre questa conclusione, come queste dissensioni non distruggono le altre specie, si deve pensare almeno che non sarebbe più funesta alla nostra; ed ella è cosa chiarissima ch'esse vi produrrebbero ancora minore strage che non fanno nella società, sovrattutto nei paesi ove i costumi essendo ancora contati per qualche cosa, la gelosia degli amanti, e la vendetta degli sposi cagionano ogni giorno duelli, omicidj, e peggio ancora; ove il dovere di una eterna fedeltà non serve che a far degli adulteri, e dove le leggi stesse della continenza e dell'onore dilatano necessariamente la dissolutezza, e moltiplicano gli aborti.

Concludiamo che errando nelle foreste senza industria, senza linguaggio, senza domicilio, senza guerra, senza alleanze, senza alcun bisogno de' suoi simili, come senza verun desiderio di loro nuocere, può essere ancora, senza giammai riconoscerne alcuno individualmente, l'uomo selvaggio soggetto a poche passioni, e bastandosi a se medesimo, non aveva che i sentimenti ed i lumi proprj a questo stato; ch'egli non sentiva che i suoi veri bisogni, non riguardava che ciò che credeva aver interesse di vedere, e che la sua intelligenza non faceva maggiori progressi della di lui vanità. Se per azzardo faceva qualche scoperta, egli poteva tanto meno comunicarla, che non conosceva nemmeno i suoi figliuoli. L'arte periva coll'inventore: non vi era nè educazione, nè progressi: le generazioni si moltiplicavano inutilmente: e partendo ciascuna dallo stesso punto, scorrevano i secoli con tutta la rozzezza delle prime età; era già invecchiata la specie, e restava l'uomo sempre fanciullo.

Se mi sono troppo esteso sulla supposizione di questa condizione primitiva, egli è, che avendo da distruggere antichi errori e inveterati pregiudizj, credei dovere scavare fino alla radice, e mostrare nel ritratto del vero stato di natura, quanto l'ineguaglianza stessa naturale è lontana dall'avere in questo stato tanta realità ed influenza, quanto lo pretendono i nostri scrittori.

In fatti è facile a vedersi che fra le differenze che distinguono gli uomini, molte passano per naturali, le quali non sono unicamente che l'opera dell'abitudine, e dei diversi generi di vita che gli uomini adottano nella società. Così un temperamento robusto, o delicato, la forza, o la debolezza che ne dipendono, vengono sovente più dalla maniera dura, o effeminata con cui si è stato allevato, che dalla costituzione primitiva de' corpi. Egli è lo stesso delle forze dello spirito; e non solamente l'educazione mette della differenza fra gli spiriti coltivati e que' che non lo sono, ma essa accresce quella che si trova fra i primi a proporzione della cultura; poichè se un gigante e un pigmeo camminassero sulla medesima strada, ciascun passo che facessero l'uno e l'altro darebbe un nuovo vantaggio al gigante; così se si paragona la diversità prodigiosa di educazione, e de' generi di vita che regna nei differenti ordini dello stato civile, colla semplicità e uniformità della vita animalesca e selvaggia, ove tutti si nodriscono cogli stessi alimenti, vivono alla stessa maniera e fanno esattamente le medesime cose, si comprenderà quanto deve esser minore la differenza da uomo a uomo nello stato di natura, che in quello di società, e quanto l'ineguaglianza naturale deve crescere nella specie umana per l'ineguaglianza d'istituzione.

Ma quando la natura affettasse nella distribuzione de' suoi doni tante differenze quante si pretendono, qual vantaggio ne trarrebbero i più favoriti a pregiudizio degli altri in uno stato di cose che non ammetterebbe quasi alcuna sorte di relazione fra essi? Là dove non v'è amore, che serve la beltà? che sarà lo spirito a persone che non parlano, e la scaltrezza a chi non ha affari? Io sento sempre ripetermi, che i più forti opprimerebbero i più deboli, ma vorrei che mi si spiegasse ciò che vuol dire questa parolaoppressione. Gli uni domineranno con violenza, gli altri gemeranno soggetti a tutti i loro capricci: ecco precisamente ciò che osservo fra noi; ma non veggo come ciò potrebbe dirsi d'uomini selvaggi, a' quali si avrebbe anzi una gran difficoltà a fargli intendere cosa sia servitù e dominio. Un uomo potrebbe bensì impadronirsi dei frutti che un altro ha raccolti, della cacciagione che ha uccisa, della caverna che gli serviva d'asilo; ma come verrà egli a capo di farsi obbedire, e quali potranno essere le catene della dipendenza fra uomini che non posseggono nulla? Se mi cacciano da un albore, sono in libertà di andarmene ad un altro; se mi tormentano in un luogo, chi m'impedirà di passar altrove? Si trova un uomo d'una forza molto alla mia superiore, ed assai più corrotto, abbastanza pigro, e molto feroce per costrignermi a provvedere alla di lui sussistenza intanto ch'egli resta ozioso? bisogna ch'ei si risolva a non perdermi di vista un solo istante, a tenermi legato con grandissima cura durante il suo sonno, per timore che non gli fugga, o non lo ammazzi: cioè a dire, egli è obbligato di esporsi volontariamente ad una pena molto più grande di quella ch'egli vuol evitare, e di quella ch'egli dà a me stesso. Dopo tuttociò, la sua vigilanza si stanca ella un momento? uno strepito improvviso gli fa volger la testa? io fo venti passi nel bosco, sono rotti i miei ferri, ed egli mai più non mi rivede.

Senza prolungare inutilmente questi detagli, deve veder ciascuno che i legami della servitù non essendo formati che dalla mutua dipendenza degli uomini, e dai reciprochi bisogni che li uniscono, egli è impossibile di assoggettare un uomo senza averlo prima posto nel caso di non poter fare a meno dell'altro: situazione che non esistendo nello stato di natura, vi lascia ciascuno libero dal giogo, e rende vana la legge del più forte.

Dopo aver provato che l'ineguaglianza è appena sensibile nello stato di natura, e che la sua influenza vi è quasi nulla; mi resta, a mostrare la sua origine e i suoi progressi nei successivi sviluppi dello spirito umano. Dopo aver mostrato che la perfezionabilità, le virtù sociali, e le altre facoltà che l'uomo naturale aveva ricevute in potenza, non potean giammai svilupparsi da se medesime, ch'esse avean bisogno perciò del concorso fortuito di molte cause straniere, le quali non potevano giammai nascere, e senza le quali egli sarebbe eternamente rimasto nella sua primitiva condizione; mi resta a considerare e a raggiugnere i differenti azzardi che hanno potuto perfezionare la ragione umana nel deteriorarne la specie, rendere un ente cattivo, riducendolo socievole, e da un termine sì lontano condurre in fine l'uomo e il mondo al punto in cui noi lo veggiamo.

Confesso che gli avvenimenti, che sono per descrivere, avendo potuto succedere in molte maniere, non posso determinarmi su la scelta che per conghietture: ma oltrecchè queste conghietture diventano ragioni quando elleno sono le più probabili che si possano trarre dalla natura delle cose, e i soli mezzi che si possano avere per iscoprire la verità, le conseguenze ch'io voglio dedurre dalle mie, non saranno perciò conghietturali, poichè sui principj che ho stabiliti, non si saprebbe formare qualunque altro sistema, il quale non mi fornisse i medesimi risultati, e da cui non potessi trarre le medesime conclusioni.

Ciò mi dispenserà dallo stendere le mie riflessioni sulla maniera con cui il decorso del tempo compensa la poca verisimiglianza degli avvenimenti; sulla sorprendente potenza di leggerissime cause allorchè esse agiscono senza interruzione; sull'impossibilità, in cui da una parte si è di distruggere alcuna ipotesi, se dall'altro canto si è fuor di stato di dar loro il grado di certezza de' fatti; su ciò che due fatti essendo dati come reali per legare un seguito di fatti intermedj, sconosciuti, o riguardati come tali, tocca alla storia, quando la si ha, di dare i fatti che li legano, ed in di lei mancanza, tocca alla filosofia a determinar i fatti simili che possono legarli; infine su ciò, che in materia di avvenimenti la similitudine riduce i fatti a un assai minor numero di classi differenti, che non si può immaginarselo.

Mi basta di offrire questi oggetti alla considerazione de' miei giudici: mi basta di aver fatto in guisa che i volgari lettori non avessero bisogno di considerarli.

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