I

L'atto di accusa narra seccamente, se bene non senza certo pomposo sfoggio di stile aulico, come la mattina del 23 maggio 1879 Mariantonia Desiderj di anni ventisei, moglie di Giatteo Baciccia, detto lu Sfrusciate, di anni trentadue, contadino, nato e domiciliato in Guardiagrele, entrasse nella farmacia del paese e vedendola frequente di avventori, posasse in un cantuccio un cestellino coperto di pampani freschi che aveva recato seco, e sedesse aspettando che la bottega si spopolasse.

Lo speziale, vedendola più fresca del solito e simile a una pianta fruttifera madida ancora di rugiada, ebbe nell'animo un ricorso di spirito cavalleresco, e ripiegando un pezzo di carta intorno al collo d'una bottiglia, affacciò il capo tra due cafoni che stavano con le mani pronte a ricevere le medicine e coi soldi nelle mani, e fece un cenno interrogativo. Mariantonia gli rispose con un altro cenno, significante che voleva aspettare; e poiché lo speziale sorrise interpretando a modo suo quel desiderio, Mariantonia, che non intese l'interpretazione, rispose anche al sorriso; poi si nettò il naso con un lembo del grembiale, e stette pazientemente contemplandosi le dita inanellate, con la giogaia della gola increspata sotto il mento abbassato. Gli avventori maschili e femminili sgomberavano l'uno dopo l'altro, poiché il farmacista si affrettava a servirli; e quando l'ultimo ebbe la sua dose di chinino, e si mosse per escire, Mariantonia raccolse il cestellino che aveva deposto, si levò, e andò a metterlo sul banco davanti allo speziale. Questi, meravigliato a quel dono non aspettato, tolse i pampani guardando la donatrice con un'aria interrogativa; e vedendo che erano ciliegie, lo ricoperse e lo mise da parte: «Che vuoi?» domandò, non sapendo più che si pensare.

Mariantonia, che stava ritta dall'altra parte del banco e non aveva nell'aspetto nulla di straordinario, ma era sempre quella bella giovenca sciocca che era stata sino a quel dì, rispose: «Nu puchétte de veléne».

Lo speziale la guardò in faccia, più stupito in vero che sospettoso; ma quella faccia era così serena nell'armonia delle linee non turbata dalla crescente prosperità della carne, che il provveditore alla salute del popolo di Guardiagrele rise del suo stupore, e del non aver subito pensato che quello doveva essere un pretesto per venire ai patti della resa.

E domandò ancora, con un risolino e un accento scherzoso come per proseguire la celia:

«E che ne vu' fa?»

«Serve pe' li surge».

Questa risposta così naturale, detta con voce placida, sconquassò il ragionamento egoistico e artificioso dello speziale, e lo ferì nella vanità:

«Va, va. Che surge t'accunte! Nen ti' la jatta?».

Ma Mariantonia insisteva con un accento di verità così calmo e così serio insieme, che il farmacista pensò di approfittare di quel bisogno, per dettar lui i patti della dedizione; e, mentr'essa perorava non già con sillogismi, ma con un ragionamento immaginoso:

«... Me se magneno tuttu lu rano...» cominciò a ridere con un'aria che avrebbe voluto essere mefistofelica:

«Nen te le pozzo dà».

«Ma pecché?».

«Esse pecché. Pecché nen pozze».

«'Mbe', a Graziella la fija de lu Scupinare je le si' date e a me nne me le vu' dà? Te le facce scuntà».

«Si' viste? A te 'n le voje dà».

E seguitarono, ella incalzando nell'esortazione, egli cocciuto in una negativa seminata di piccoli sorrisi furbeschi e di occhiate maliziose; poi escì di dietro il banco, e andò a chiudere uno dei battenti della porta; così il sole, che fino a quel momento aveva empita tutta la bottega rimbalzando dalle vetrine e frangendosi per le boccette, fu scacciato.

Un'ombra discreta seminascose pietosamente quei due, e parve che li consigliasse di fare presto. Infatti lo speziale vedendo che Mariantonia non veniva alle panie dialettiche ov'egli l'invescava, le andò quasi addosso e le disse a mezza voce:

«Se tu me dì chell'affare, i' te denghe lu veléne».

Mariantonia, senza ombra di turbamento, semplicemente, come se si fosse trattato di dare cinque soldi, disse:

«'Mbé' scí, te le denghe».

Lo speziale la guardò di nuovo, questa volta più sospettoso che stupito. Più d'un diritto di prima o di una seconda notte egli aveva goduto, e più volte da qualche povera diavola che non aveva denari s'era fatto pagare in natura; ma quella cessione così facile, senza né pure un accenno di resistenza, e volontaria, senza un'insurrezione del pudore e senza uno stimolo del desiderio, da parte di Mariantonia che non aveva mai badato né alle lusinghe, né alle promesse, né alle canzonature di quel don Giovanni villereccio era proprio una cosa strana. Però l'aspetto di quella donna era tanto schiettamente tranquillo, e nei bellissimi occhi oleati la naturale sciocchezza dormicchiava con tanta pace, che quel macinatore di droghe rivolse ogni cosa a beneficio della sua vanità mascolina, senza un pensiero di gratitudine pei topi.

E cominciò allora un'altra discordia: lo speziale voleva esser pagato subito, Mariantonia invece diceva che non era possibile, poiché in casa l'aspettavano, poiché poteva entrare qualcuno.

«Chiudéme la porta» diceva lui.

«Ti si' 'mmattite? Lu Sciancate m'ha viste a hentrà' e po' nen me vede a rescì».

E dava con accento di tanta sincerità l'ora del convegno, che bisognò cedere. Tuttavia lo speziale, indispettito, avendo ella ripigliata una parte (così almeno gli parve) della sua parola, volle anch'egli riprendersi qualcosa della sua, e cominciò a cavillare: «Però lu veléne n' te le denghe. Te denghe le pizzélle velenose che so' date pure a Graziella».

Mariantonia tornò all'assalto, quetamente:

«Che pizzélle! Sse pizzélle n' so bóne. Se me vu' dà lu veléne pròpie, béne; sennò statte bóne».

In fine si accordarono. Lo speziale, a cui il concitamento lussurioso cominciava a intorbidare le facoltà mentali, domandò:

«Ma 'nsomma, addó se le vu' mètte' stu veléne?».

«Dentr'a lu casce».

«'Mbe' curre, va a pijà ssu casce, e pòrtele».

E le aprì quel battente che aveva chiuso.

Mariantonia escì di corsa; ed egli aspettandola, come il prurito sensuale scemava, andava tormentandosi con un rinascimento di dubbio; ma il ritorno della magnifica femmina con una scodella di creta turchiniccia piena di formaggio grattugiato troncò di colpo l'adito ai cattivi pensieri. Aperse una vetrina, tolse in mano un vasetto pieno d'arsenico, e ne gettò un pizzico sul formaggio.

«N'atre puchétte» insinuò Mariantonia, e lo speziale obbedì. Ma per compenso, prima di lasciarla partire, volle un acconto di ciò che gli spettava.

«Scì, ma spíccete» disse Mariantonia; e mentre il farmacista la palpava e la premeva e la manometteva come lo ingombro delle vesti concedeva, ella con la scodella velenosa in mano e con la faccia vòlta alla porta, guardava se qualcuno li vedesse. Poi d'un tratto scappò via, accennando di sì col capo senza rivolgersi allo speziale che le ricordava la promessa, e ritornò a casa. Giatteo, venuto allora dalla campagna, s'era tolto le scarpe e le ingrassava col sevo; la vecchia suocera stava alla porta di casa a far la calza. Mariantonia entrò in cucina, chiuse quel formaggio nell'armadio, attizzò il fuoco; poi si tolse la veste turchina, e restò con la sola gonnella e col busto anche turchino; si sciolse dal collo il fazzoletto rosso fiorato di giallo, trasse dal petto l'abitino della Madonna un po' sucido che le dormiva sempre fra le mammelle, lo baciò divotamente come per supplicarla d'aiuto a qualche grande impresa, e prese a tagliare i maccheroni dalla pasta, che distesa prima in un foglio sottile, aveva rotolata e lasciata ad asciugare sulla tafferia.

Le braccia di Mariantonia, brunite dal sole, ma pur sempre belle nella loro robustezza come quelle del Bacco, e infarinate, tagliavano la pasta sicuramente, e gli occhi limpidi guardavano senza turbamento il mucchietto dei maccheroni che andava lestamente crescendo. Quand'ebbe terminato, li prese sbattendoli su per la tafferia per farli svolgere; e, poiché l'acqua bolliva nella caldaia, ve li gettò. Poi, così infarinata, andò a dimandare alla suocera: «Lu vu' 'nche ll'òje u 'nche li pepedinei, li maccarune?».

«'Nche ll'òje».

Mariantonia, che s'aspettava questa risposta perché era giorno di vigilia, e la vecchia non mangiava di grasso, ritornò in cucina; trasse dalla mesa, che è l'arca chietina, un pezzo di cacio pecorino, e cominciò a grattugiare, poi staccò dal muro una padella, vi versò dell'olio e qualche spicchio d'aglio, e la mise sul fuoco. E scoperchiò la caldaia per vedere a che ne stavano i maccheroni. Erano cotti. Staccò dunque la caldaia dalla catena, e versò la vivanda in uno scolatoio. Così curva, col volume ampio delle ànche eretto come la groppa d'una cavalla e la persona piegata tra il fumo dei maccheroni, era stupenda. Quando tutta l'acqua fu caduta nella terrina deputata a quest'ufficio, si rialzò con lo scolatoio nelle mani, minestrò i maccheroni parte in una scodella, parte in un piatto grande, e tratto dalla credenza il formaggio medicato, aperse la mesa e tolse l'altro formaggio che aveva grattugiato. Era calma come prima: la sua bella faccia plenilunare aveva la serenità dell'innocenza. Versò sul piatto grande un condimento di peperoni e conserva di pomodori, e sopra il formaggio innocuo; sulla scodella sparse l'olio fritto e il cacio velenoso. E portò ogni cosa sulla mensa, con le sue belle braccia bacchiche non animate da un fremito.

Giatteo, che aveva una fame grande e poco desiderio di parlare, si servì largamente dal piatto grande e subito si mise a mangiare; ma la vecchia, che dalla porta ove stava tutto il giorno in sentinella vedeva di molte cose, e che soffriva di stomaco, non potendo appiccar discorso col figlio, prima di toccar la minestra cominciò a brontolare una preghiera. Mariantonia la stava a guardare con la forchetta e con l'animo sospesi, non visibilmente commossa per altro, con quell'ansia d'aspettazione con la quale un cacciatore novellino va, con le funi in mano, riguardando un branco di lodole che avvolge il volo sopra le reti. E quando infine la vecchia mise in bocca il primo boccone, anch'ella si cacciò in furia la forchetta tra i denti, e non rialzò più gli occhi finché non si vide il piatto vuoto davanti. Allora di nuovo spiò la suocera, la quale mangiava chetamente e pareva che quel giorno i maccheroni le piacessero più del solito. Giatteo, che aveva appagata la fame, prese a parlare, e la vecchia discorrendo pur mangiava. Se non che Mariantonia cominciava a moversi sulla sedia come ci fossero delle spine: avrebbe voluto esser lontana di lì, o almeno che quella maledetta vecchia terminasse di mangiare. Un terror vago le si levava nello spirito, e la sua mente formulava questo pensiero silenzioso.

«Che sci' ccisa! Vide se fenisce, vide!».

Ma la vecchia pasteggiava quel cibo micidiale, schiacciandolo tra le mascelle vacue con quella strana voluttà che provano gli sdentati a masticare le vivande molli. Finalmente, quando non ci furono più maccheroni, con un pezzo di mollica raccolse tutto l'unto che restava tuttavia nel piatto, e mise in bocca anche quello. Allora Mariantonia si levò per sparecchiare, Giatteo andò a cercare la pipa nelle tasche della giacca, e la vecchia che si sentiva grave di cibo, salì alle stanze di sopra per dormire. Ora Mariantonia era inquieta come un ragazzo che ne abbia fatta una grossa e si senta in punto di essere scoperto. La vecchia aveva in corpo tanto arsenico da accoppare una mandra di bovi:

«E chi je le léve?» pensava Mariantonia, che sentiva l'invasione del terrore crescere in ogni momento. Sperò per qualche tempo che quel veleno non uccidesse la vecchia; che le désse solamente una malattia passeggera, qualche gran colica; ma una voce orribile che veniva di sopra, e chiamò due volte «Mariantò'! Giattè'!» la fece tremare. Stette un istante in ascolto, sperando che la paura l'avesse ingannata, ma di nuovo l'urlo scoppiò dall'alto con un così terribile accento di minaccia o di preghiera, che Mariantonia non poté più stare, e si lanciò alle scale. E come fu in sull'uscio, e vide la vecchia nel mezzo del letto, paonazza, con la faccia orribilmente contratta, con le mani al ventre, uno spavento e un ribrezzo indomabili la respinsero indietro; e, ridiscesa con uno sbalzo solo, corse alla cucina pazza di terrore.

Giatteo, con la pipa in bocca, stava al fresco presso la porta; e all'aspetto della moglie fece con gli occhi e con la bocca un movimento di curiosità, e domandò: «Ched'è?».

Mariantonia, poiché lo sgomento già sfogava col pianto, non poté parlare speditamente; ma s'appoggiò all'uscio dell'armadio, col grembiale alla faccia e prese a brontolare tra i singhiozzi:

«Mammaaa... mammaaa... O Die me! o Giasù Criste me! o Madonna mea!».

Giatteo, che era ancora stanco del gran zappare che aveva fatto e si sentiva il dolce peso del cibo sullo stomaco, si rizzò malcontento di quella interruzione e pauroso delle noie e della spesa di una disgrazia, e domandò ancora:

«Ma 'nsomma, ched'è? Che dice ca vu'?».

«O Jesucriste me, e mo' coma facce, coma facce?».

«Ched'è? Ched'è? se po' sapé?» gridò Giatteo bruscamente andandole addosso, e strappandole il grembiale dalla faccia. Allora un altro urlo della vecchia, accompagnato da un romore dubbio di gemiti o di singhiozzi o di sforzi di vomito, risonò di sopra. Giatteo lasciò la moglie e si volse alla scala; ma Mariantonia lo prese per la camicia, e lo trasse addietro con violenza:

«'N ce j', 'n ce j' sopra».

«Ma pecché? ma che j' è successe a mamma? che je si' fatte?».

«Je so' date lu veléne» gridò Mariantonia lasciandolo; e di nuovo uno scoppio frenetico di pianto le impedì la voce e la vista. Giatteo restò un momento inebetito, e sentì la sua pelle aggricciarsi come per effetto del freddo; poi, attraversò la cucina ed escì. Mariantonia restò sola, un po' più tranquilla per la confessione fatta; ma pur sempre sbalordita. In quel punto il sole, che aveva superato il muro della casa di rimpetto, s'affacciò all'uscio. Sopra, il gemito della vecchia moribonda si arrochiva in rantolo. Poco dopo, entrò il pretore, col maresciallo dei carabinieri: «Bene» disse il pretore salutando Mariantonia con un sorriso canzonatorio «l'hai fatta bella». E si voltò indietro per vedere se qualche aspettato giungesse:

«Il cancelliere non si vede ancora» soggiunse parlando al maresciallo. E domandò alla donna, questa volta con un'aria seria e con accento secco: «Dov'è il cadavere?». Mariantonia non rispose. Il terrore freddo l'aveva percossa, e batteva i denti, con le spalle alla parete traendosi indietro quasi volesse cacciarsi entro il muro.

«Dev'essere sopra» disse per lei il maresciallo.

«Andiamo dunque» concluse il giudice, invitando con un gesto l'avvelenatrice ad andar innanzi.

«I' 'n ce venghe» rispose Mariantonia. Ma il maresciallo la prese per un braccio e se la trasse dietro.

Intanto la popolazione accorreva come la notizia si propagava pel borgo, e dinanzi alla casa era un assembramento e un vociferio confuso intorno a Giatteo, che non osava entrare, e stava là fuori, pallido, sbigottito, ma pur col cuore più leggero di poc'anzi a guisa d'uomo che per miracolo non fu sepolto da una frana, e sta stupito guardando i sassi che gli son caduti proprio davanti, e ancor mandano polvere. Strani romori correvano tra la folla, ove la leggenda di Mariantonia nasceva d'un tratto da quelle fantasie mosse dal concitamento dell'orrore. Gli amori di Mariantonia e le circostanze del delitto erano il materiale in via di elaborazione. I nomi degli amanti correvano di bocca in bocca. Si cercava un complice; ma chi mai poteva essere? Finalmente qualcuno raccontò che Pasquale Spatocca aveva raccontato come Mariantonia gli avesse chiesto un modo di avvelenare le zòccole, e come egli le avesse consigliato di mescolare il veleno con il formaggio. In questa sopraggiunse il cancelliere con due carabinieri, ed entrarono nella casa. Poi il maresciallo apparve alla porta, esortando coi gesti e con la voce la gente a sgomberare; dietro di lui, fu vista Mariantonia tenuta dai carabinieri. Una voce minacciosa si levò:

«Purcèlle! Puttana! A morte!».

E in mezzo a quell'irruzione della coscienza popolare, Giatteo si aggrappò al maresciallo, raccomandandosi:

«J' nen c'entre, gnure mariscialle, j nen so' fatte ninte».

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