II

Il processo, per la volgarità del delitto, per la sciocca imprudenza con cui fu commesso, infine per la confessione della delinquente al marito prima e poi al pretore, fu fatto speditamente. Il giudice istruttore del tribunale di Chieti, che non trovava modo d'esercizio alla sua attività indagatrice, poiché ogni cosa era chiara e piana, poiché la vita anteriore di Mariantonia narrata concordemente da tutti i testimoni esplicava le cause del misfatto, confermando le dichiarazioni della donna al pretore di Guardiagrele, era malcontento.

Il giudice istruttore che tiene quel faticoso officio da parecchio tempo, e ha dato più prove di sagacità, per quanto tranquillo sembri tra i mucchi di processi coperti di verde o di rosso, a ogni novo crimine è scaldato e turbato da due passioni ardenti e successive: prima, il desiderio di scoprirne l'autore o gli autori, poi di rischiararne tutte le parti tenebrose.

La Corte, con quel grande apparato di carabinieri, di uscieri, di toghe, di avvocati, di testimoni di pubblico mascolino e femminino, di giuramenti, di giurati, con quella gabbia di ferro, con quella inscrizione ammonitrice che la legge è uguale per tutti, parrebbe il punto più caldo dell'eterno dramma della giustizia; ma quella non è che una pomposa ripetizione delle parti. I giudici sonnecchiano, il presidente si move sbadigliando sul seggiolone, il procuratore del Re guarda in alto apparecchiando l'eloquenza sonora, i giurati scarabocchiano i cassetti o incidono i banchi, il pubblico va e viene come fosse in piazza, l'accusato misura con lucido e tranquillo raziocinio la probabilità della pena. Nessuno bada ai testimoni, perché le testimonianze loro sono già scritte negli atti del processo; nessuno bada agli argomenti dell'accusa o della difesa, poiché si sa che quello è un esercizio ginnastico fra un uomo pagato dallo Stato per accusare e un uomo pagato dal delinquente per difendere.

Il processo non si fa in Corte aperta, come in Inghilterra, ove due avvocati si contendono i testimoni e accumulano prove pro e contra.

Le prove sono state già raccolte, il processo è già fatto: non resta che ad esporre i dati al giurì, a quei dodici uomini rispettosi del diritto che, costretti, debbono esercitare, e dal cui giudizio pende l'ultimo anelito del dramma.

Ma il vero sviluppo drammatico accade dietro le quinte, nelle stanze del giudice istruttore, in quelle poche stanze piccine e male in arnese, che sono per lo più un'anticamera per l'usciere e i testimoni, una cameraccia pel personale della segreteria, un gabinetto pel giudice, e una soffitta pei corpi di reato.

E il drammaturgo vero è il giudice istruttore, quel modesto uomo borghese nell'aspetto e nei panni, che non porta in dosso nessun segno dell'autorità sua, che chiuso nella sua stanzetta con una stufa ardente nell'inverno e colle persiane chiuse nell'estate, mezzo sepolto tra i fasci di carte, mezzo annegato nel fumo del suo sigaro, scrive e scrive tranquillamente un'ordinanza dopo l'altra, sempre con le medesime formule, variando solo con la varietà dei crimini e delle pene, e, più che d'un magistrato, dà l'immagine d'una di quelle centomila marmotte che servono per quarant'anni la Patria riportando sopra un registro le fatture d'una qualunque branca dell'amministrazione pubblica. Alla prima occhiata in quella stanza appare la prima emanazione del dramma, poiché, qua e là, sullo scrittoio e sulle sedie, sulla stufa e sul canapé, si veggono sparpagliati in un bel disordine i più strani stromenti del delitto: coltelli a molla e pugnali nel fodero, pistole rugginose e accette dentate, mazzetti di chiavi false e panni sporchi di sangue rappreso, contatori di molino e vasi di vetro pieni d'interiora umane, schioppi sferrati e bastoni massicci, ogni cosa suggellata e documentata d'un cartellino con l'indizio del proprietario, e del malo uso che ne fu fatto, e del processo a cui serve il corollario. Poi, se poteste fermarvi qualche ora là dentro, vedreste uno strano spettacolo: avvocati, sostituti procuratori del Re, carabinieri, testimoni entrare ed uscire: nella segreteria gl'impiegati sfogliar registri, o sigillare corpi di reato, o scrivere: nell'anticamera intorno all'usciere, come intorno a qualche arbitro dei destini umani, i testimoni non ancora chiamati, con l'animo sospeso, affollati in crocchi davanti alle finestre nel mezzo della sala, parlottanti a bassa voce, seri, quasi paurosi del conspetto del giudice. Il quale passa da una cosa all'altra, da un esame d'un teste a un colloquio con un avvocato, da un confronto fra due imputati a una perizia medica, da una perquisizione domiciliare a una visita carceraria, spiando, fiutando, divinando le emanazioni del delitto negli indizi più tenui, passando da un delitto all'altro, accumulando lentamente la materia per lo spettacolo del giudizio del pubblico. In Italia ove, segnatamente nelle città piccole, la forza, l'acume, la solerzia della polizia sono in condizione disperata, deve l'istruttore supplire al difetto accoppiando al suo officio di magistrato anche quello di inquisitore, riparando gli errori che per eccesso o per difetto di zelo, commettono gl'incaricati della pubblica sicurezza. Così egli è costretto ad esercitare una finezza d'olfatto veramente canina; deve andare sul teatro del delitto, deve scovare la verità tra le contraddizioni e il balbettìo dialettale dei testimoni, deve carpire degl'indizi nelle parole e nella confusione del colpevole. L'opera sua è dura e grande: le sue facoltà fantastiche si fortificano per la tensione e per l'associazione continua dei piccoli fatti, il suo intuito si acuisce. A poco a poco la rigidezza della sua mente, già cristallizzata per l'esercizio dell'applicazione sistematica e quasi meccanica del codice, si scioglie; accade nel suo cervello una evoluzione progressiva; egli diventa un osservatore sicuro, e, prima che l'attività inquisitrice non si sia invecchiata e mutata in un'abitudine meccanica anch'essa, per la chiaroveggenza del suo spirito egli acquista tutta la potenza intuitiva dello scienziato e dell'artista. Così necessariamente si appassiona all'opera sua: egli ama il suo processo come uno scrittore può amare il suo libro, lo ama come un criminalista o come un tragico: ne ricerca le cause e le modalità, non tanto per guadagnare onestamente quelle quattrocento lire l'anno che lo Stato gli dà in più sullo stipendio di giudice, quanto per soddisfazione di quel bisogno d'indagine che s'è novamente destato nell'animo suo. Egli tratta i più feroci delinquenti con una certa affabilità amichevole, raccoglie una prova testimoniale con la voluttà di un geologo che scopra un fossile sconosciuto, fa un viaggio faticoso a cavallo in pieno inverno o nella grande estate per vedere se una data finestra poteva essere scalata senza aiuto di corde e se una schioppettata poteva colpire un uomo a quella data distanza. Però non si salva dalle malattie dei ricercatori: egli ama le difficoltà, e si compiace delle indagini penose, e si diletta stranamente dei delitti mostruosi; e quando il crimine è volgare, e le prove nascono ad ogni passo, e quando la confessione del colpevole taglia la via alla sottigliezza sagace dell'istruttore, egli è malcontento come un medico di curare una bronchite facilmente guaribile e senza speranza di conseguenze pericolose.

Tale fu il processo di Mariantonia: da prima, qualche bell'ostacolo parve che ci dovesse essere, poiché Mariantonia, al primo interrogatorio del giudice istruttore, negò. Questi, con un manifesto movimento di gioia, la guardò; poi le disse, con dolcezza: «Ma come? Se hai già confessato davanti al pretore? Vuoi che ti faccia leggere la tua dichiarazione?».

Mariantonia si turbò; disse due o tre volte «Nen ne sacce ninte», infine assentì. Allora il giudice volle sapere il motivo del reato. Quella poveraccia, che non s'era ancora riavuta dal terrore, vagava col discorso da una cosa all'altra, s'ingarbugliava, si confondeva. Ed egli pazientemente, quasi paternamente, andava frugandole nell'animo con la voce tranquilla, con gli occhi castanei. Seppe che la suocera la tormentava, che le suscitava contro il marito. Perché, non fu possibile di saperlo. Non le domandò nemmeno se avesse avuto complici: la cosa era troppo chiara, poiché le cause del dissidio fra suocera e nuora erano palesate da una folla di testimoni. Solamente le domandò chi le avesse dato il veleno. Ella dubitò un poco, poi disse di averlo avuto da un certo orefice col pretesto di ripulire il suo oro. Non altro. Mariantonia fu ricondotta in carcere dai due carabinieri che l'avevan menata lì, e attraversando l'anticamera la trovò piena di testimoni che discutevano con l'usciere intorno al grado di pena che sarebbe toccato all'avvelenatrice: «Ci sta la pena di morte» diceva Domenico D'Addesso, l'usciere, quando l'uscio della segreteria si aperse e si vide Mariantonia. Tutti i testimoni conversero gli occhi a quell'uscio, per vederla: erano contadini di Guardiagrele e di Pretoro, alcuni benestanti, e il parroco di Guardiagrele.

Appresso nacquero due altri incidenti, che parvero dover intorbidare l'evidenza della procedura.

L'orefice citato da Mariantonia dichiarò di non aver dato mai dell'arsenico a colei: citò anzi a sua volta lo speziale, da cui egli si provvedeva pei bisogni del suo mestiere, a dichiarare se egli avesse tanto arsenico da poterne dare a Mariantonia. Lo speziale confermò.

Allora, naturalmente, il sospetto si riversò sullo speziale; ma questi negava. Tutti i testimoni affermarono ch'egli non aveva mai consegnato materie venefiche senza ordine scritto del medico, e che per la distruzione dei topi vendeva di piccole focacce che non potevano uccidere una donna, poiché assai spesso i topi le mangiavano con ottimo appetito e le digerivano senza danno: d'altra parte l'arsenico trovato nei visceri della vecchia era tanto, da togliere ogni sospetto delle focacce topicide. Si congetturò dunque che Mariantonia avesse comperato da sé medesima o per mezzo di qualcuno l'arsenico in Chieti; e poiché, quando non ci è la flagranza di reato o una prova sicura, la giustizia lascia in pace il provveditore del veleno, non ci si pensò più.

Ma ci era un altro fatto: molti testimoni asserivano che un Pasquale Spatocca, piccolo proprietario di Guardiagrele, ebbe cognizione del delitto. Fu chiamato questo Spatocca, che era un contadino un po' più civile degli altri, con anelli d'oro agli orecchi, e una giacchetta di lana a quadrettoni scuri sopra la camicia non inamidata. Confessò con un accento di verità così sicuro, da distruggere ogni ulteriore sospetto, che Mariantonia due giorni prima del fatto gli aveva domandato come si dovesse fare per avvelenare le zòccole, ed egli le aveva consigliato di mescolare il veleno nel formaggio grattugiato. Pasquale Spatocca fu subito rimandato.

Così, in quei primi due mesi dell'estate, la procedura fu spinta innanzi alacremente, e gli atti, dopo molti viaggi dal gabinetto del giudice istruttore a quello del procuratore del Re, si raccolsero in fine in un grosso volume coperto d'una copertina rossa e legata con filo rosso. Intanto Mariantonia, nelle carceri di San Francesco di Paola, tra una folla di ladre, di infanticide, di procuratrici d'aborti, a poco a poco si riaveva dallo scompiglio. Il caldo era grande e il fastidio degl'insetti penoso, e la tavola messa davanti ai ferri delle finestre proibiva la vista della campagna.

Mariantonia trovò un sollievo strano, poiché ottenne di far la pulizia della stanza ove donn'Angelamaria Chiola, che aveva fatto assassinare un suo nipote, stava carcerata; e in compenso, donn'Angelamaria le dava gli avanzi del buon desinare che le mandavano di fuori. Quei pasti consolavano Mariantonia, e le ridonavano la sua tranquilla sciocchezza.

Quando venne a vederla il suo avvocato, don Pietro Saraceni, guardò con la compiacenza di un artista quella stupenda femmina e quella delinquente meravigliosa, che per la voluttà della gola dimenticava la sorte che le era serbata e placava il rimordimento della coscienza. E poiché ella voleva sapere che pena le sarebbe toccata, egli scrollò le spalle:

«Che ti posso fare? Tu je si' date nu chile d'arsenico! La pena degli avvelenatori è la stessa dei parricidi: a morte, e s'ha da j' all'esecuzione 'n che nu panne nere 'n cape. Ma ti daranno le circostanze attenuanti, per le quali la pena scema de nu rade, e te ne ví a li lavure furzate a vita».

Poi guardò di nuovo Mariantonia. Quella donna nella sua impassibilità d'idiota e nel pallore carcerario aveva tanta serenità di bellezza, che egli non sapeva staccarsi da lei, e in presenza di lei non aveva che pensieri d'arte: il Codice si era dileguato dalla sua memoria. Ad un tratto le disse:

«Tu si' de Rapino?».

«Gnorsì, gnor avvucate».

«Ti' 'na vesta de seta?».

«Gnorsì».

«Ti' 'nu belle fazzulétte de seta?».

«Gnorsì, signò'. Tenghe nu fazzulétte tòtte fiurate».

«Ti' li recchìne, cullane, anèlle?».

«Gnorsì, tenghe tòtte cóse».

«Mbe', sa' che vu' fa? Quann'è lu jòrne de la causa véstete da spósa, mittete tutte chelle che ti', fatte chiù belle che pu', c'ass' affare lu meje avvucate si' tu. Si' capite? Me', statte bóna mo'».

E don Pietro se ne andò gioiosamente, come se invece d'un ripiego a un affare spinoso avesse trovata l'ultima inspirazione d'un romanzo o d'un dramma.

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