III

Il processo a carico di Mariantonia fu dibattuto dalla Corte d'assise di Chieti, nella prima quindicina di dicembre. Il presidente, un consigliere della Corte d'appello d'Aquila, era un rigido magistrato che in tutta la sua vita aveva derivato dall'abitudine del dibattimento un che di glaciale e di pomposo insieme. Dei giudici uno era vecchietto piccinino magro membranaceo giallo, una mummia coperta d'una toga di venerabile antichità, l'altro era un bell'uomo muscoloso, con una barba spessa e morbida e castanea. Il procuratore del Re era un giovine di trent'anni, biondo, miope, con grosse labbra, bonario nell'aspetto.

Il pubblico fu insolitamente numeroso: la fama del fatto e della donna si era propagata per la città, e molte signore infioravano la tribuna. I giurati occupavano la doppia fila di banchi, e parevano poco contenti dell'autorità momentanea che conferiva loro un diritto di vita e di morte. Dalla cancelleria all'aula era un continuo traffico. Il popolo occupava una metà della sala. Al tavolo degli avvocati sedeva don Pietro Saraceni solo, con poche carte e qualche libro; e senza darsi pensiero di ciò che gli accadeva intorno, scriveva gli ultimi martelliani di una commedia.

Mariantonia stava ripiegata in sé stessa, con un fazzoletto bianco agli occhi. Davanti al presidente ci era il vaso di vetro con gli intestini avvelenati della vecchia. Dopo l'appello dei testimoni, la lettura dell'atto d'accusa, il fervorino del presidente ai giurati e le altre formalità ordinate dalla legge, cominciò l'interrogatorio dell'accusata.

Disse il presidente:

«Imputata Mariantonia Desiderj, alzatevi».

Mariantonia si levò pianamente, togliendo il fazzoletto dalla faccia; e per tutta la sala fu un mormorio repentino.

«Pe' Cristo, com'è bóna!» mormorò uno dei giurati all'orecchio del giurato vicino. Don Pietro volse un'occhiata alla gabbia, e subito ritornò ai martelliani contento.

Mariantonia era una creatura stupenda. La sua persona grande e florida, non guasta ancora dalla pinguedine, vestita d'una veste di broccatello chiaro con fiorami gialli, pareva modellata in creta da un qualche scultore voluttuario: tutto il petto era coperto di collane d'oro a grandi acini, e il fazzoletto rosso fiorato di nero stava annodato secondo l'uso delle maritate sotto il mento, mal nascondendo la gola grassa che s'increspava ad ogni mossa come la giogaia d'una giovenca: la faccia rotonda, pallida per la lunga clausura, aveva nell'armonica purità delle linee una perfezione di bellezza nuova pei cittadini di Chieti. Gli occhi di quella locusta villereccia, grandi, limpidi, lenti, lacrimavano; e sulle guance di sotto il fazzoletto escivano certi strani e lunghi orecchini. Sotto le collane, tre immensi spilloni che parevano insegne di qualche barbarico ordine cavalleresco, stavano infissi in fila, e le dita non si vedevano per i troppi anelli.

Ella rispose confusamente alle domande. Confessò il delitto, ma quando fu interrogata intorno alle cause che ve la indussero non trovava più le parole, guardava il presidente con certe occhiate melense, poi d'improvviso le refluì il pianto, tornò a sedere, di nuovo si nascose la faccia. Né si poté cavarne altro. Pure l'effetto primo sugli animi era stato buono, per causa duplice: la lettura dell'atto di accusa, così esplicitamente sicuro, così piano, fondato sulla confessione della colpevole, rendeva il giudizio dei giurati vano poiché Mariantonia s'era con la sua propria bocca pronunziato il verdetto di colpabilità; non si trattava dunque che d'una determinazione di pena. Così, non essendo in quel processo cosa che potesse eccitare la curiosità o la vanità indagatrice, restò aperto l'adito al sentimento: e il sentimento universale fu, al primo levarsi di Mariantonia, benevolo e qua e là ammirativo.

Un'altra circostanza crebbe la benevolenza, e toccò le corde della pietà: la deposizione del marito.

Giatteo escì dalla stanza dei testimoni anch'egli in abito da festa, coi calzoni di rigato marrone calanti sulle scarpe nuove, con la sottoveste e la giacchetta di fustagno, con la camicia pulita, con un cappello tondo e molle che aggirava tra le mani mostrandone la fodera color di rosa. Era giallo, meschino, brutto, col naso schiacciato da un gran pugno che gli fu dato in una rissa, con la faccia tutta rasa. Tremava parlando, quasi avesse paura della giustizia, raccontò il fatto, per filo e per segno, raccontò i dissidi tra la madre e la moglie. Quando il presidente gli domandò la causa di questi dissensi egli tremò più forte, quasi avesse paura della moglie, poi disse che la causa era la cattiva condotta di Mariantonia.

«Che era questa cattiva condotta: mancava forse a' suoi doveri di moglie?».

«Come dicete? 'N so' capìte».

«Aveva degli amanti?».

Lu Sfrusciate guardò di nuovo l'interrogatore come chi non abbia inteso.

«Ti faceva le corna?» disse infine il presidente.

«Gnorsì».

Alle prime parole di Giatteo, Mariantonia s'era drizzata sulla persona, e stette con le lagrime sospese negli occhi, ascoltando. All'ultima, sorrise. Un secondo mormorìo corse per tutta la sala: quel piccolo brutto maschio che aveva freddamente consegnata la moglie alla giustizia per paura di essere involto nella sua disgrazia, che confessava ora pubblicamente la sua vergogna, parve spregevole. Gli uomini non gli sapevano perdonare i suoi diritti su quella magnifica femmina. Seguitò l'interrogatorio.

«Voi sapevate la mala condotta di vostra moglie?».

«Gnorsì».

«Come lo sapevate?».

«Me le dicéve mamme».

«E non avete mai procurato di rimediarvi?».

Il testimone crollò le spalle.

«Da quando ciò è cominciato?».

«Chi le sa? crede da quanne spusassemo».

«Sapreste dirci il nome degli amanti di vostra moglie?».

«Chi le sa? Mamme me dicéve mo' ca éve Ciccantonie Peloso, mo' Pascale Spatocca, mo' Dunate Cece, mo' ca éve Menanze Croce; ma j' 'n ne sacce ninte».

«I dissidi tra le due donne erano frequenti? Erano ardenti? Si veniva mai a vie di fatto?».

«S'appeccecàvene sempre, gnore presidente: s'ammenàvene e po' se mettevene a chiagne».

Quando Giatteo fu rimandato, prima che il secondo testimone entrasse ci fu tra i giurati, nelle tribune, in mezzo al pubblico plebeo, un breve commento e quasi una comunione di sentimento. L'elemento drammatico dallo sviluppo del processo, che già appariva manifesto a tutti, si era riversato nella vita e nella persona di Mariantonia che a poco a poco si levava dinanzi agli occhi degli spettatori. Il dramma giudiziario, per effetto d'uno spostamento naturale, era soffocato dal dramma morale ed estetico. Don Pietro Saraceni aveva terminata la sua commedia martelliana, e stava ora con le mani nelle tasche, con la schiena abbandonata alla spalliera della seggiola un po' inclinata a dietro, visibilmente contento.

Pensava alla Frine di Riccardo Castelvecchio, e la sua gli pareva migliore. E aveva ragione.

Intanto la sfilata dei testimoni continuava. Era una leggenda di amori adulterini che da un grosso borgo e da due villaggi, da Guardiagrele, da Pretoro, da Rapino, confluiva per settanta fonti nell'aula della Corte d'assise in tutta la freschezza nativa delle emanazioni dialettali: erano le maldicenze e le vociferazioni villerecce che dovevano, miste alle ultime elaborazioni delle storie brigantesche, ingrossare il patrimonio narrativo del comune di Guardiagrele.

Crocifissa Vicoli di Rapino narrò un aneddoto curioso. Mariantonia, che in Rapino era nata e viveva, conobbe Giatteo che lavorava in Pretoro con un fusaro una volta che venne a Rapino a vender fusi. Da quella volta, Giatteo ritornò assai spesso; e in breve la notizia del matrimonio fu pubblica. Or una sera, quando in chiesa si era fatta già la prima pubblicazione, Crocifissa ritornava dalla campagna con un fascio di rampa lupina per le bestie, e passando davanti alla fontana vide Mariantonia che aveva dimenticata la conca di rame già traboccante, e rideva lottando in quella ombra del sole tramontato e delle fratte di sambuco con don Giovannino Coletti, lu fije de lu Signore. Poi, prima di partire col marito per Guardiagrele, Mariantonia medesima le rammentò quell'incontro, e le disse che don Giovannino le girava attorno da un pezzo, ma ella finché fu zitella non gli volle dar retta mai; e quella sera ancora resisteva alle tentazioni de lu signerine, promettendogli un convegno pel dì seguente agli sponsali. Don Giovannino Coletti, interrogato, confermò la deposizione di Crocifissa.

Nella sala, sebbene fuori la piazza di San Giustino, e i tetti delle case intorno e di là dalle Tre porte tutta la valle della Pescara biancheggiassero di neve, cominciava a far caldo. Le signore discorrevano a bassa voce se non dovessero andarsene: gli uomini sempre più sentirono il potere d'un singolare senso di attrazione che convergeva gli animi loro a quella meretrice campestre. Quando venne Pasquale Spatocca, ci fu un universale movimento di curiosità. Si presentiva in lui il don Giovanni contadino, il villanzone arricchito per la virtù o pei vizi del padre, che si mangia tranquillamente quel poco avere senza darsi pensiero di aumentarlo, che ha trovato il modo di godersi la vita anche in campagna, riponendo il diletto sommo nel pranzo e nel vino, conquistando i favori delle maritate, accaparrandosi per l'avvenire quelli delle zitelle. Venne con quella sua giacchetta a quadrettoni, con una cravatta di lana rossa, con gli orecchini d'oro, e una catenella d'argento per l'orologio sul ventre. Era tarchiato, bene in carne, bene in colore, se bene intorno al naso una tinta rossa cominciasse a minacciare. Non pareva impacciato, e non posava da conquistatore: parlava un po' goffamente, cercando invano di dare una politura italiana al suo dialetto, ma non s'imbrogliava. Narrò con molta semplicità gli amori suoi con Mariantonia; riferì l'aneddoto dell'arsenico con le parole medesime dette al giudice istruttore. Pareva che non avesse altro da dire. Il pubblico ne era un po' scontento: si aspettava qualcosa di più. Ad un tratto il procuratore del Re, che sino a quel punto non aveva aperto bocca, gli fece domandare da quanto tempo durassero le sue relazioni con l'imputata. Rispose che erano cominciate da tre mesi dopo la venuta di Mariantonia col marito a Guardiagrele. Di nuovo fu interrogato se i suoi amori fossero continuati anche mentre Mariantonia, a notizia di tutti, aveva altri amanti, e se egli sapesse di questi ingannamenti.

Pasquale Spatocca arrossì vivamente, e accennò di no. Allora don Pietro Saraceni pregò il presidente di fare la stessa domanda a Mariantonia. Costei disse di sì. Un terzo mormorio si levò dalla folla: il don Giovanni si permutava in un volgare monsieur Alphonse in giacchetta di mollettone a quadrettoni.

Di nuovo invitato a dire la verità, Pasquale accennò di sì; ma un turbamento lo aveva sopraffatto, e la vergogna gli accendeva la faccia. Rispose a sbalzi, per lo più con cenni affermativi o negativi, non sapendo bene quel che si dicesse; e con molta fatica il presidente giunse a fargli confessare che egli, dopo una tresca di qualche mese, era tuttavia rimasto nelle buone grazie di Mariantonia, non per virtù d'amore o di denaro, ma per certo qual senso di rispetto o di ammirazione che in quella femmina destava la sua reputazione di libertino, e perché egli non le proibiva né le rimproverava i tradimenti, anzi era il suo confidente. Non era il suo amante di cuore, perché Mariantonia non ne aveva mai avuti. Mariantonia era una di quelle donne che non fanno un gran caso all'amore, come certi ricchi non fanno un gran caso delle sostanze, e cedeva senza difficoltà, con l'aria di dire: «Prendimi, se ciò ti può fare contento».

Interrogato se credeva che l'arsenico potesse essere stato dato dal farmacista, rispose di no, perché Mariantonia non aveva mai voluto cedere alle istanze dello speziale. Interrogato intorno alle cause di questa repugnanza, rispose:

«Perché rassumijave a lu marite».

Tutta questa deposizione, segnatamente l'ultima risposta, crebbe il favore a Mariantonia. Quella generosa d'amore, quella inconscia Ninon de Lenclos, cominciava ad essere avviluppata d'un'aureola romantica che concitava la fantasia dell'uditorio. Il presidente volse uno sguardo inquieto alle tribune, ma le signore oramai erano state vinte dal calore del dramma, e non sapevano persuadersi a non assistere sino alla fine. D'altra parte che altro di più osceno potevano dire i testimoni seguenti? Il decadimento di Pasquale Spatocca nell'opinione del pubblico, si converse, come l'abiezione di Giatteo Baciccia, tutto in vantaggio di Mariantonia. Due giurati che, o per spirito di contraddizione, o per iscarso senso estetico, o per zelo della giustizia, avevano sino a quel momento badato poco al dibattimento, tralasciarono di scarabocchiare di geroglifici grafici il fondo dei loro cassetti, e si misero ad ascoltare.

Seguirono altri testimoni dei due sessi, che raccontarono questo o quel fatto della vita di Mariantonia, questa o quella circostanza del delitto, che esplicarono la discordia della suocera e della nuora, i battibecchi continui, gli screzi, le scene brutali. Poi fu chiamato il parroco. Don Teodoro Cianci si avanzò modestamente, col cappello in mano, e salutò la Corte con un lieve cenno del capo. La sua bella faccia onesta spirava quasi un'emanazione di virtù cristiana: era già tutto incanutito e appassito, ma nella bocca fresca aveva un'impronta di tanta dolcezza, e negli occhi quieti raccolti all'ombra delle sopracciglia folte e imbiancate un così mite lampo di pazienza e di bontà, che bastò l'aspetto suo per purificare l'ambiente dal fluido afrodisiaco che cominciava a propagarvisi.

Don Teodoro Cianci, giurando di dire tutta la verità, null'altro che la verità, dichiarò che quel giuramento implicava per lui una restrizione, e non poteva indurlo a palesare le cose che avesse sapute in confessione. Concessogli, sedette, e con molta parsimonia di gesti, e con accento pietoso, disse che la condotta di Mariantonia era nota a tutta la popolazione di Guardiagrele, e che invano egli s'era adoperato a pacificarla con la suocera e a ricondurla sulla via dell'onestà.

«Quella donna» diceva il parroco «non peccava per perversità d'animo, o per uno sfrenato e indomabile istinto di licenza. Mancava ai suoi doveri per una sciocca debolezza di volontà e di mente, e pel predominio della gola».

A queste parole, di nuovo per tutta la sala fu un vocìo di stupore. Il dramma si allargava: una passione nuova veniva a innestarvisi. Don Teodoro fu ascoltato con un silenzio religioso. Disse:

«Questo vizio, per la miseria delle nostre campagne, facilmente vince i contadini: la scarsezza e la cattiva qualità del cibo e il soverchio lavoro eccitano il desiderio di un nutrimento più copioso e più succulento. Il contadino che per tutta la vita mangia la pizza di granturco senza sale cotta al fuoco di casa tra due lastre di ferro, che per tutta la vita si nutre di vegetali, broccoli o legumi o rape o peperoni, sogna come godimento massimo il pane bianco col sale e la carne. Così nelle nostre campagne il porco, comunque cucinato, in forma di salame o di vivanda, raccoglie in sé tutte le vaghe aspirazioni al benessere materiale. Le domeniche d'inverno la porchetta è segno e materia di letizia, e si raduna intorno nella piazza tutto il villaggio. Costei appunto si è lasciata trarre dal peccato della gola: tutti i suoi mali procedono di qui. Ella non sapeva resistere alle tentazioni, quando l'esca allettava lo stomaco. Ella non si dava, si vendeva. La cosa che più l'allettava erano i salami: ne faceva delle vere orge con Pasquale Spatocca; e questa era la causa vera de' suoi dissidi con la suocera. Perché come accade sempre, un peccato ne aveva tratto seco un altro. Mariantonia era diventata anche accidiosa, non voleva lavorare; in campagna non ci andava quasi più affatto, in casa lasciava tutte le cose in disordine, trascurava la cucina della famiglia: di qui, un'acredine perpetua». Egli aveva combattuto il male con tutte le sue forze, aveva fatto una predica sul peccato della gola; ma soggiungeva don Teodoro, levando gli occhi al crocefisso inchiodato sopra il capo del presidente, «ma la natura umana è fragile e cieca: essa non ascolta la voce di Dio che scende dall'alto, e cede alle tentazioni terrene che la lusingano dal basso».

Quindi il parroco tacque; ci fu nella folla una universal sospensione d'animo: l'aureola romantica che si era diffusa intorno alla persona di Mariantonia cominciava a svaporare. Tutti gli sguardi si conversero a lei, come per rimprovero di quel disinganno; ma ella di nuovo s'era accovacciata sulla panca ammucchiandosi in sé medesima, e piangeva con la faccia nelle mani inanellate, sbattuta dalla violenza del singhiozzo.

Intanto gli altri testimoni rischiaravano sempre più questa nuova faccia del prisma morale di Mariantonia: tutte le domande battevano su quel tasto, e le parole del parroco erano pienamente confortate da molte testimonianze. Così i signori di Chieti, i quali non sono proprietari di grandi latifondi, ma hanno una proprietà frantumaria sparpagliata in molte piccole masserie che dànno a coltivare singolarmente a mezzadria senza pensare che una famiglia di contadini non può ritrarne un nutrimento sufficiente, trovandosi a fronte di quel problema in modo tanto inaspettato, non badarono alla causa, ma davanti all'effetto furono colti da un accesso di pietà accademica. Una nuova evoluzione dell'opinione pubblica accadeva dunque in favore di Mariantonia: non era più ella una donna tratta alla colpa da un vizio brutalmente volgare, era la vittima d'una trista condizione di cose.

Così quando il lungo esame dei testimoni fu terminato, l'attenzione comune era assorta in questi pensieri, e l'esordio della requisitoria del procuratore regio si smarrì nella distrazione generale.

Costui fu secco e reciso. Era giovine, l'abbiamo detto; e nel primo esercizio dell'officio suo recava un'ardenza giovanile ed il dogmatismo rigido dell'apostolo che ha fede nella sua missione. Per lui non ci erano dubbi, né oscurità: la cosa era chiara: entro quella gabbia di ferro stava chiusa una donna, un mostro a cui un capriccio della natura volle dare una bella faccia, che fece del suo corpo il più vergognoso ludibrio, che fu macchiata dei più bestiali vizi, che assassinò brutalmente a sangue freddo la madre di suo marito. Questo era il fatto, confessato da lei, narrato da settanta testimoni. Egli dunque non vedeva né un attenuante né una scusa qualsiasi. La sua requisitoria gli pareva superflua e il verdetto dei giurati non dubbio. La decisione di quella causa era nelle mani della Corte, la quale non poteva non colpire l'accusata con tutto il rigore dell'articolo 531 del Codice Penale.

Questo discorso suscitò un senso repulsivo.

L'entusiasmo troppo austero è come il fuoco bianco, genera nello spirito di quelli a cui si vuol apprendere una specie di fenomeno sferoidale: passa senza scottare. Di più, mentre egli parlava accaddero due fatti di piccolo momento in sé stessi, ma che in quel concitamento conferirono non poco alla distrazione degli attori principali di quest'ultima parte del dramma. Uno dei giurati aveva portato seco in un cartoccio del grano, onde voleva forse vendere o comperare una partita; e per alleviare l'animo suo di mercante di granaglie dalla noia della lunga seduta, si dilettava di contare quei granelli ad uno ad uno; e già tre volte aveva rifatto il conto, quando proprio nel mezzo della requisitoria, gli si piegò il cartoccio in mano e il grano traboccò sul tavolato con un romore d'acqua cadente. Seguì un vocìo misto di risate, poi subito tornò la quiete.

Poco dopo, il presidente, il quale cominciava a pensare con qualche desiderio al pranzo che lo aspettava, fu ferito da uno spettacolo strano: il vecchio giudice che gli sedeva a destra stendeva cautamente la mano lungo l'orlo della tavola; giunto presso al calamaio del presidente lo prese, lo trasse a sé con una pazienza mirabile, e ne versò tutto l'inchiostro nel calamaio suo. Poi tolse pianamente questo, se lo calò sulle gambe, e cominciò a versare tutto l'inchiostro in una bottiglia che si teneva stretta fra i ginocchi. Il presidente, che, venuto da poco da Aquila, non sapeva il vizio del suo collega e non avrebbe mai pensato che un magistrato potesse essere ammalato di cleptomania, gli toccò il braccio, quasi per domandargli che diamine stesse facendo. Il giudice colto in flagrante aperse le ginocchia e la bottiglia cadde frangendosi sul tavolato con un fragore terribile, e di nuovo le risa e il movimento della folla soffocarono la voce dell'oratore. Così la causa di Mariantonia guadagnava sensibilmente terreno: il pubblico era tutto per lei; i giurati, stanchi della lunga immobilità e trascinati nel comune sentimento di benevolenza, volentieri sarebbero stati indulgenti. Ma come potevano negare la confessione dell'imputata? Al più potevano accordarle le circostanze attenuanti, alleviandole la pena di morte in quella dei lavori forzati a vita. Questa contrapposizione del sentimento e della legge angustiava tutta la gente.

In tale perplessità sorse don Pietro a parlare. L'unica cosa savia che fra tante sciocchezze avesse fatto Mariantonia, era stata di eleggersi quell'avvocato. Più artista che cavillatore di materia giuridica, più volentieri romanziere, drammaturgo e professore di storia, che difensore delle vedove e dei pupilli, egli recava anche alla Corte d'assise una chiaroveggenza e quasi un intuito poetico e una eloquenza calda, viva, briosa. Sino nella sua persona di gladiatore pacifico, nel suo ampio torace, nella faccia buona aveva degli elementi di simpatia e persuasione.

Nel dubbio generale, egli si alzò sereno in vista, quasi sicuro del fatto suo, sorridente. Non volle cercare attenuanti né scuse al delitto: il delitto, come bene aveva detto il procuratore del Re, era là, in quel vaso di vetro, in quelle interiora avvelenate, confessato dalla colpevole, narrato concordemente da settanta testimoni. L'opera dell'avvocato, come quella del procuratore del Re, era superflua. «Perciò io ho consigliato la mia cliente di non addurre testimoni a discarico. Che potevano i testimoni? Che può l'avvocato? La mia cliente ha commesso un delitto previsto dall'articolo 531 del Codice Penale: ella deve subire le pene ordinate dalla legge. E sia. Ma i giurati sono essi delle macchine di giustizia deputate a classificare i delitti nel casellario del Codice, o sono i depositari d'una missione morale superiore a tutte le legislazioni umane? Non debbono i giurati rimediare all'inevitabile rigidezza del Codice Penale, tenendo conto di tutte le sfumature, di tutte le circostanze, di tutte le modalità del delitto? Non debbono i giurati essere psicologi e artisti insieme, e discendere nell'anima dei colpevoli sui quali hanno diritto di vita o di morte? L'opera dei giurati non è simile a quella dell'artista, il quale nell'esame dei fatti e degli uomini che rappresenta trova non solo le ragioni e il modo e le conclusioni dell'opera sua, ma anche lo sviluppo e l'interpretazione sana della legge morale, cooperando alle innovazioni di quelle convenzioni morali che la società umana s'impone? Dunque, o signori, dimenticate il vostro officio giuridico, come io dimentico il mio: io sono un artista, voi degli uomini che avete intelletto d'arte: esaminiamo serenamente questo fatto morale che il caso ci ha recato davanti. E prima, io richiamo l'attenzione vostra a un argomento che per certo non è stato ancora violato dall'aria pestifera d'una Corte di assise. La morale greca, o signori, aveva per fondamento l'estetica: il bello e il bene erano inseparabili; e una cortigiana greca famosa per lo splendore della sua bellezza, Frine, tratta davanti ai giudici, fu assolta senz'altra difesa che della bellezza sua. Ora questa donna, o signori, voi lo vedete, è bellissima: un tribunale greco la rimanderebbe senz'altro libera. Ma noi, purtroppo, non siamo in Grecia; e il senso estetico si è andato rapidamente pervertendo. Io non vi chieggo dunque l'assoluzione, ma vi domando: credete che quel canone della morale greca sia in tutto falso? Credete che una donna di bellezza perfetta possa avere in sé le radici e le cause del male, possa essere affetta da una malvagità quasi istintiva? No, o signori: domandatelo alle vostre belle mogli, domandatelo alle belle signore che mi ascoltano; e tutte ad una voce risponderanno: no. Mancherebbe la ragione fisiologica del delitto, che procede assai spesso dalla coscienza e dal rancore della propria inferiorità.

Dunque il movente del delitto dev'essere esteriore e accidentale. Ricerchiamolo. Facile ricerca, poiché settanta testimoni ve lo hanno detto: l'impedimento a uno sregolato e illegale esercizio dell'amore determinato dal vizio della gola. È su questo singolare fatto fisiologico che io richiamo di nuovo e più caldamente l'attenzione vostra».

E don Pietro Saraceni, con la sua eloquenza sonora e brillante, con una serie di argomentazioni qualche volta scientifiche e qualche volta paradossali, schizzò e colorì vivacemente il carattere di Mariantonia: mostrò come in lei l'animalità predominasse, la dipinse come una bella bestia, in cui, per la felice constituzione organica, per le tristi condizioni della classe contadinesca, gli appetiti sensuali non potevano essere vinti dal freno morale. «Se non che», disse «se qualche altra causa non ci fosse, noi non potremo spiegarci come questa donna anche dominata dai suoi brutali appetiti abbia serbata una virtù relativa. Come non fu ella tratta al furto? Come non cercò di nascondere con la dissimulazione le sue consuetudini? Ella fu sempre di una sincerità strana: aveva dei confidenti, raccontava le sue avventure. Non vedete voi in questa femmina che largisce la bellezza sua con una serena indifferenza, che non ha il senso del pudore, che non ha forse neppure il senso dell'amore, che fra tanta furia di fecondazione pare destituita della potenza della fertilità, non vedete voi in costei qualcosa di strano, qualche malattia del corpo e dello spirito nascosta da quella prosperità esteriore? Sì, o signori: la colpa di questa donna non è nel cuore, è nel cervello. Gli appetiti suoi son quelli appunto dei cretini e degl'idioti: questa donna, e la sciocca ingenuità del delitto ve lo prova, è ammalata di mente. Come la maschera della favola di Fedro, è tanto bella di fuori quanto è vuota dentro. Essa dunque non ricade nell'àmbito dell'articolo 531, ma in quello dell'articolo 35».

Tale fu la tesi sviluppata da don Pietro con un colorito e con un calore e un fuoco d'artifizio di sofismi che avrebbero fatto la fortuna d'un finale d'una commedia del Dumas. Quando sedette, sorrideva come in principio, perché da tutti i punti della sala sentì le correnti d'un fluido simpatico convergere a lui. Il pubblico e i giurati erano giunti per sé medesimi alle conclusioni dell'oratore: essi cercavano una scappatoia legale, un qualche articolo del Codice che li autorizzasse all'indulgenza.

Votarono dunque, senza quasi discutere, il vizio parziale di mente previsto dall'articolo 35, e le circostanze attenuanti previste dall'articolo 684 del Codice Penale. In conseguenza, il procuratore del Re chiese cinque anni di carcere, la Corte li ridusse a tre.

Il pubblico applaudì. Mariantonia restò sbalordita, poiché non aveva bene inteso se l'avessero condannata a morte, o no. Don Pietro Saraceni incontrò per le scale della Corte l'avvocato Carusi, che lo fermò per congratularsi con lui.

«Eh, car'amico» rispose don Pietro ridendo «lu mònne è dle puttane!».

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