Gl'Intellettuali

Spesso è capitato agli anarchici di vedere alcuni intellettuali entrare nelle loro file con delirante entusiasmo, per poi uscirne a breve scadenza e vendersi turpemente ai preti o alla borghesia. Un tempo tali spettacoli erano più frequenti; ma negli ultimi anni, a dire il vero, si sono fatti molto più rari, forse perché il proletariato anarchico, e più specialmente gli anarchici militanti, incominciavano a diffidar di loro e a trattarli con una certa noncuranza per non dire disprezzo.

Ora sembra che la commedia voglia ripetersi, senza contare che già principia a manifestarsi un certo ritorno di disertori, di rinnegati e di voltagabbana, che, se può riuscire utile per scopi elettorali al pus, se può essere conforme alle tendenze e alle tradizioni di altre mandre più o meno deformate, non ha però nulla di comune coll’anarchismo.

Fortunatamente nelle nostre file l’intellettualismo e il dilettantismo borgheseggianti non possono trovare un campo adatto di diffusione per la natura stessa dell’idea, che non ammette né urne, né schede, né botteghe, né circhi equestri, né banchi, né greppie. Chiunque viene a noi sa bene di trovare solo quello che Garibaldi offriva ai suoi volontarii in una memorabile ritirata, più gloriosa di cento vittorie: cioè battaglie e tempeste, ferro e fuoco, odii e dolori. Perciò gli arrivisti, i mestatori, gl'impostori o se ne tengono lontani fin da principio o se ne dipartono alle prime avvisaglie e ai primi pericoli. E se adesso vogliono tentare anche fra noi il giuoco dell’arrivismo, ciò avviene perché credono di poter pescare facilmente nel torbido, sfruttando senza fatica la rivoluzione sociale, che sentono vicina.

Invece si vede che tutta una sterminata caterva di avvocati senza cause. di medici senza visite, di studianiente cerretani, di funamboli spostati, di scribi a corto di quattrini, di nobili spiantati, di Rabagas in grande e piccolo formato, di pagliacci a spasso, di politicanti in cerca di fortuna si affolla senza posa nelle stalle di Augia del socialismo, adatte più che mai alla cultura d’ogni sorta di bacilli d’infezione e di putrefazione.

In ogni modo è bene che i compagni si ricordino del passato e non abbocchino più all’amo dei cosiddetti intellettuali, che tante disillusioni ci hanno procurato e tanto male hanno fatto alla nostra propaganda.

Chi non ricorda Sem Benelli, l’anarchico individualista, collaboratore del zarathustriano "Vir"? Allora era un affamato in balia della fortuna, che portava in giro la sua miseria, imprecava contro le iniquità sociali e contro le umane ingiustizie, cantava le ribellioni dell'intelletto e dell’animo, inneggiando ad un migliore avvenire di libertà, di civiltà, di giustizia.

Or sento che nel mio spirito cova
una rivolta; cresce un’azione;
si prepara un incendio e non mi giova
a domarli la rassegnazione.

Umanità, tal quale sei non t'amo.
nel petto tuo molteplice e deforme
non sta il mio cuore; un’altra madre io chiamo
pel figlio che non crede e più non dorme.

(Vir. 15 Luglio 1907)

Quando andò a Milano in cerca di fortuna, si presentò ad alcuni anarchici con una commendatizia di un compagno di Roma. Dopo qualche giorno non si fece più vivo: aveva trovato la sua strada nel giornalismo trippaiuolo e nella letteratura borghese. Il resto è venuto da sé.

Nello stesso tempo i giornali borghesi si compiacevano di dare al mondo la seguente notizia:

' 'Un poeta anarchico francese, Adolfo Retté, che ebbe il suo momento di fama all'epoca della scuola decadente, si è fatto frate. La sua conversione data da un paio d'anni. L’anno scorso egli si recò a piedi in pellegrinaggio al Santuario di Lourdes e scrisse in seguito un volume di impressioni. Ora il Figaro annunzia che il poeta è entrato definitivamente in un convento di benedettini presso Namur, nel Belgio".

Il Retté era già stato preceduto molti anni prima sulla stessa via da Alain Gouzien, che da individualista bisognista finì missionario non so dove; alcuni dicono comprato dai preti, come il massone libero pensatore Leo Taxil, l’ebreo rinnegato Rocca d’Adria e tante e tante altre simili canaglie d'ogni partito e di ogni idea.

E non può essere altrimenti. Chi discende per quella china è o un degenerato mentecatto o un maiale venduto, come sono oggi Libero Tancredi , Maria Rygier e compagni in sudiciume.

Per altro questa è la fine comune di tutti gl’intellettuali e i dilettanti dell'anarchismo, pei quali l’anarchia è una pura contemplazione estetica del momento, una palestra di prova per illusi e disillusi, un campo da sfruttare a sangue caldo e a pancia vuota.

Lo stesso, oltreché in Francia e in Italia, è successo un po’ dappertutto. Né ciò capita soltanto ai delicati e tarlati rampolli della borghesia; ma avviene anche, e più di frequente, coi figli del proletariato, che per casi fortunati arrivano a conquistare un posto nella scienza, nella letteratura o nell’arte, ovvero a indossare una gabbanella qualsiasi d’intellettuale.

Chi non rimase disgustato della fine miseranda di Ada Negri, di cui, svanita l’ispirazione ribelle, non è restato altro se non la villana rifatta, o, per meglio dire, la ciana rimpannucciata? Chi non provò nausea profonda allorché la "vaporosa", la "graziosissima", la "figlia della rivoluzione" Andreina Costa si fece battezzare, cresimare, confessare, comunicare, benedire e lisciare dai preti per potere sposare un ricco sfruttatore clerico-moderato, col consenso del padre naturale Andrea Costa, del padre putativo Filippo Turati e della madre Kulo … scoffa? Chi non s’indispettì nel sentire che l’ex scarpellino e figlio di scarpellini Arturo Dazzi , dopo avere con entusiastica ispirazione anarchica modellato il busto di Pietro Gori, per diventare celebre e ricco volse la mente e l’animo all'"altare della patria" e di casa Savoia? Chi non ebbe parole di sdegno quando quel sudiciume di Ruffo Titta , nato e cresciuto in famiglia di anarchici, divenne un vilissimo contastorie al servizio dello czar e dei suoi cosacchi, sotto la direzione di Pietro Mascagni?

Massimo Gorki , il vagabondo cantore di vagabondi, il rivoluzionario agitatore di folle, il nihilista mangiacosacchi, rimpannucciatosi per bene, andò a imborghesirsi tra le delizie di Capri. E, come se ciò non bastasse, anni addietro rientrò nel grembo della chiesa, di cui lo czar era sommo pontefice. Ecco infatti che notizia ci davano i giornali di allora:

''Nell’intimità di pochi e fidati amici, quasi tutti connazionali, fu celebrato qui a Napoli, ieri l'altro, il matrimonio tra il giovanissimo figlio di Massimo Gorki, Zinavi, e la bellissima signorina russa Livia Buracoff, figlia di un valoroso colonnello al servizio dell'impero.

"Celebrò il servizio nuziale il Pope della chiesa greco-russa di Napoli e assistevano il console e varie notabilità dell'impero Moscovita.

Massimo Gorki, dopo breve soggiorno a Napoli, è ritornato a Capri."

Oggi il pennaiuolo di Capri (lo credereste?) è diventato bolscevico o giù di lì.

Chi però fornisce il maggior numero di siffatti intellettuali è la borghese genìa degli studianiente, che nello stesso tempo provvedono di magazzinieri di carne umana, di ammanettatori, di cerretani, di sfruttatori, di mali arnesi di ogni genere, tutto quanto l'infame baraccone della presente società.

Quanti non ne abbiamo visti intrufolarsi in mezzo a noi coi capelli arruffati e in maniche di camicia per poi uscirne delegati di pubblica schifezza, beccamorti togati, giornalisti venduti, sfruttatori e prebendati? Quanti non sono passati a popolare i circhi equestri e le botteghe dei socialisti, dove riesce loro facile trovare medagliette, onori, sinecure e pagnotte?

Che cosa, per altro, potrebbe aspettarsi di meglio da costoro? Un tempo l’Università poteva non solo dirsi il tempio della scienza ma anche il gran vivaio dei militi del libero pensiero e della libertà. Oggi invece l’Università pare diventata una palestra di pescicani e di sfruttatori, un vivaio di crumiri e d’agenti ausiliarii della questura, un campo sperimentale d’arrivismo e di farabuttismo.

Guardate, per esempio, la facoltà di giurisprudenza, spaventosa fucina di spostati, di pagnottisti, di cavalocchi, di politicanti, di sbirri, di trappolieri d’ogni fatta. Tutto vi è, nell’insegnamento, allo stato metafisico e casuistico di un secolo fa, se non peggio, e rarissimamente vi penetra da qualche spiraglio un soffio vivificatore, che presto è sopraffatto dall'afa e dai miasmi ivi dominanti senza contrasto alcuno.

I professori da parte loro, tranne rarissime eccezioni, sono ingialliti parrucconi della borghesia, veri fossili del pensiero da riporre in un museo di paleoetnografia; degni maestri di tali alunni in tutto e per tutto, anche nel crumiraggio, anche nello sfruttamento, anche nell'infamie borghesi.

L’Università presentemente sotto ogni aspetto è la logica e naturale continuazione delle scuole che la precedono: scuole medie e scuole elementari. Pietro Kropotkin scrisse, mi pare, nelle Prigioni : "Se mi ponessero nell’alternativa di fare educare i miei figli in una pubblica scuola dello stato o alla Petite Roquette (carcere di minorenni a Parigi), io non so quale delle due sceglierei".

Se il grande pensatore ed educatore dell’anarchismo avesse scritto la sua stupenda conferenza oggi dopo l'immane guerra, certo senza esitare, per l'educazione dei suoi figli sceglierebbe la Petite Roquette o un'altra galera qualsiasi.

Ho fra le mani un numero (16 Maggio 1915) degli Avvenimenti, "settimanale illustrato di otto pagine a colori e in gran formato", patriotticamente educativo e pedagogicamente guerrafondaio. In esso trovo un articolo su le Battaglie dei piccoli, scritto da una certa donna Paola, in cui fra l’altro leggo:

"Il 25 marzo 1522, ‘il magnifico signore Hieronimo Pechio Ducal capitaneo generale in tuto el dominio de Milano’, emanava un bando che vietava le ‘unione de putti con pertiche bastoni bandere et tamborri’ per ‘combattere e fare combattere sotto la penna a tali contrafacienti da essere fustigati per la città de Milano’. Il predetto signor capitaneo, nel caso che i ‘putti’ non si fossero lasciati prendere ordinava ‘che li patri di tali contrafacienti cascheno in la penna di ducati cinquanta, senza alcuna remissione et ulterius sotto la penna de quattro squassi de corda in publico’.

"Questa publica crida, emanata quando francesi e imperiali si contendevano il possesso del Milanese, potrebb'essere emanata oggi... se, oggi, potessero ‘accadere molti scandali et generare diversi odî’, per il solo dato e fatto che gruppi di monelli si divertono a scimmiottare tedeschi e inglesi, austriaci e serbi. Tutt'al più, coloro che ne escono con qualche... proiettile di rimbalzo, si augurerebbero che ‘li patri’ dei monelli si buscassero un certo numero di ‘squassi de corda’; il che li renderebbe meno corrivi all’indulgenza verso la loro turbolenta prole.

"Una cosa dimostrerebbe la grida... se ve ne fosse bisogno: che l’argomento di questo articolo e le fotografie prese dal vero che l’accompagnano, pur ispirati dal momento, sono vecchi come il mondo: la guerra è, di tutti gli avvenimenti pubblici, quello che più appassiona la generalità, e, per conseguenza, quello che più giunge ad appassionare anche l’ignara e vergine infanzia. E questo, perché la tragedia della guerra, oltre che tragedia di popoli, di dinastie, di razze, di politiche, di diplomazie, è tragedia di istinti, che l’educazione avrà potuto assopire, ma non spegnere, che la civilizzazione avrà potuto mascherare, ma non distruggere".

Le conseguenze pedagogiche che trae donna Paola da queste graziosissime vignette sono stupefacenti, tolte di peso dal più vieto e falso darvinismo. In ogni modo io domanderei a donna Paola: che cosa fa oggi la scuola per correggere sì bestialissimi istinti?

Nulla, assolutamente nulla. Essa non li corregge, non li assopisce, non li spegne affatto; ma piuttosto li alimenta e li inasprisce. L'histoire bataille, il catechismo guerraiuolo, l’epopea dell’odio, della strage e della rapina incominciano proprio nelle scuole elementari e vanno su su fino all’Università. Il vostro Chi s’aiuta Dio l’aiuta e il vostro Volere è potere sono diventati l’evangelo dell’arrivismo, dell’astio, dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, che fanno proprio rimpiangere la 'publica crida' emanata dal ''magnifico signore Hieronimo Pechio Ducal capitaneo generale in tuto el dominio de Milano''.

Anni or sono la proverbiale insipienza, che domina sovrana nel ministero della pubblica istruzione, diede il seguente tema da trattare per la licenza liceale:

"Io non sono di quelli che stoltamente o scelleratamente sognano che la miseria e il dolore abbiano da finire; ma sono di quelli che fermamente credono e vogliono che la miseria debba essere alleviata e il dolore sollevato".

Questo tema fu tolto a casaccio dal discorso che Giosuè Carducci, già imbarbogito e incanaglito, pronunziò a S. Marino.

Veramente che cosa c’entri la scelleratezza nel sognare la fine delta miseria e del dolore, io non riesco proprio a comprenderlo. Chi farnetica su quella fine è certo un sognatore, un utopista; potrà essere anche uno stolto, ma non sarà mai solo per questo uno scellerato. Si tratta dunque di una parola di qualificazione esageratissima e che esce fuori di ogni proprietà di linguaggio; di una di quelle parole che ricordano, se non le metafore secentesche, certo qualche personaggio ferravilliano.

Io già trattai a lungo quest’argomento nell’altro mio lavoretto Il Contadino e la questione sociale, né è qui il caso di tornarvi sopra. In ogni modo, scellerato non è chi ripete col Buddha: "Il dolore è il retaggio della vita: tutti gli uomini sono uguali in faccia al dolore"; ma chi dei dolori e delle miserie altrui si serve per rubare, corrompere, opprimere, devastare, torturare, assassinare. Scellerato è chi copre la terra di stragi e di rovine. Scellerato è il vampiro che vive e gode dissanguando il prossimo.

Ma tutto questo è possibile che si apprenda e s'insegni nelle scuole? Oibò, non sarà mai e poi mai!

Che cosa dunque volete che si producano in esse se non crumiri, sbirri, sfruttatori borghesi o tutt'al più demagoghi e impostori della peggiore specie?

L’anarchismo non può, non deve servire di sgabello alle esercitazioni dei funamboli e dei cerretani intellettuali.

L’emancipazione dei proletarii dev’essere opera dei proletari stessi.

Ecco la nostra insegna!

Con questo però non intendo dire, come il Jack Cade di Guglielmo Shakespeare, che bisogna impiccare tutti quelli che sanno leggere e scrivere. Ah, no perdio!

Innanzi tutto nessuno, che non sia un grullo da carote, s’è mai sognato di dividere gli anarchici in operai e non operai, indicando la seconda schiera col titolo d’intellettuali, come se si trattasse del deformatissimo quarto stato. Pel solo fatto di ragionare in tal modo, si cesserebbe addirittura d’essere anarchici, non avendo noi nulla a vedere, neppure in sogno, colle distinzioni in caste anarchiche o in categorie libertarie.

Gli anarchici vanno piuttosto divisi in militanti e intellettuali: ai primi appartengono tutti quelli che lottano e lavorano per l’idea, siano essi operai, o contadini, o rivenduglioli, o principi, o poeti. Nessuno che ha fior di senno si sognerebbe mai di chiamare intellettuali il Bakunin, il Kropotkin, Luisa Michel, i Reclus, il Cafiero, il Covelli, il Ferrer, il Faure e cento e cento altri, solo perché non avevano, prima di diventare anarchici, né potato viti, né cucito scarpe, né spaccato pietre o altro di simile.

Il Bakunin, il Cafiero ecc, sono stati più militanti di tutti gli operai di questo mondo, e ciascuno di loro nel campo anarchico ha seminato più di un esercito di lavoratori.

Intellettuali invece bisognerebbe chiamare, come una volta del resto si chiamavano, tutti quelli che non militano punto, e perciò né lottano né operano. Per gl’intellettuali l’idea è una pura contemplazione estetica; un soggetto per esercitazioni, declamazioni, elucubrazioni da salotto; una specie di vetrina in cui mettersi in mostra, o uno sgabello per guardare il cielo a un palmo da terra. L’intellettuale in questo senso non può nemmeno esser confuso collo scienziato e coll’artista novatori, che, pur restando nel campo teorico, son sempre ribelli e non tradiscon l’idea.

Noi siamo più che mai alteri di contare fra gli anarchici molti dei sommi pensatori e scrittori contemporanei, che maggiormente onorano il genio umano e che colle loro opere hanno spesso imposto l’anarchismo all'ammirazione e al rispetto degli stessi avversarii. Non dimentichiamo poi che tutti i precursori, i filosofi e gli agitatori dell’idea sociale vennero dalla più pura aristocrazia e dalla più eletta borghesia dappertutto: in Russia e in Spagna, in Francia e in Italia, in Inghilterra e in Germania, in America e nel Giappone.

Intendo perciò concludere che per essere veramente con noi e per noi è necessario innanzi tutto rompere ogni ponte che tenga uniti per qualsiasi parte alla borghesia e al passato; occorre rinnovarsi radicalmente e acquistare mente ed intelletto di ribelli in lotta perpetua contro tutto e contro tutti; occorre diventar proletari nelle aspirazioni e nelle tempeste della lotta.

L’anarchismo non è menomamente l’idealità degli straccioni e dei poverelli, ma l’idea per eccellenza della vita e della forza; e la nostra povertà, il nostro sacrificio, la nostra rinuncia non sono fini a sé stessi, ma conseguenze della lotta e mezzi di lotta nello stesso tempo. Noi non abbiamo e non possiamo avere nulla di comune con San Francesco d’Assisi, che sposa la povertà per ricevere le stimmate divine e con esse salire in paradiso. La nostra rinuncia è come quella del cavaliere barbaro, che abbandona la sua terra e la sua casa per marciare alla conquista d'un impero; la nostra povertà è la povertà del combattente, che sul campo di battaglia butta giù ogni fardello per impugnare meglio le armi e correre più spedito all'assalto; il nostro sacrificio è il sacrificio eroico dell'"uomo nuovo", che giuoca tutto sopra una carta e trae la sua sorte da una lama d’acciaio.

L’animo eroico e l’intelletto luminoso certamente non sono di tutti; nemmeno tra le file anarchiche, che pure d’eroi invitti e d’ingegni ribelli ne contano più di qualsiasi altra idea e di qualsiasi altro partito. Non tutti possono sentire e pensare come il Proudhon, il Bakunin, la Michel, il Kropotkin, il Cafiero, il Covelli, il Most, il Parsons, l’Henry, il Ferrer e mille altri, che han formato e formano la forza e la gloria dell’idea anarchica. Ma da ciò al comodo anarchismo da salotto e da parata ci corre un abisso. Senza bisogno di sacrificarsi, di spogliarsi, di farsi decapitare o fucilare, qualche cosa possono far tutti per l’idea.

Una lunga esperienza invece c’insegna che gl’intellettuali, specialmente se di razza studentesca, finiscon quasi sempre col tradire una causa che non è la loro e coll’abbandonare un’idea che non è punto sangue del loro cervello.

Di siffatti pagliacci e cantambanchi, dunque, noi non sappiamo che farcene e non ne vogliamo affatto, molto meno nell’ora prossima alla mischia in cui occorrono solo combattenti e lavoratori, e non mai arrivisti e arruffoni intellettuali dell’ultimo momento.

Per costoro non ci dev’essere che una sola parola d’ordine: Andate a zappare!

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