Mastro Michele

Spesso tornando di campagna, il che mi succede in ogni ora del giorno, d’estate e d’inverno, col maestrale che assidera e collo scirocco che brucia, sul ripido sentiero di Fiume di lino incontro mastro Michele; e allora avviene a me quello che avveniva a Eliodoro Lombardi, l’immortale cantore de La Zappa , quando in mezzo agli orti di Cefalù incontrava Carmine Papa. Mutatis mutanda però, essendoché io non sono poeta e neppure mastro Michele è poeta scapolo come il contadino Carmine Papa. Ma tutto il resto calza a capello.

Mastro Michele è un "viride vecchietto", un fabbro ferraio, che io conosco sin dalla mia prima fanciullezza. Non avevo ancora dieci anni quando mi venne l’uzzolo di apprendere il mestiere del fabbro, di maniera che senza neanche chiedere il permesso m’intrufolai nella sua bottega. E poiché ero sempre infermiccio e allampanato come una salacca (gli altri monelli mi avevano appiccicato il soprannome di paletta), mio padre non solo lasciò fare, ma m’incoraggiò nell’ardua impresa, sperando di vedermi presto risanato con una magnifica cura di ferro e di fuoco.

Figuratevi che divertimento fu per Mastro Michele avere un allievo di tal fatta, scavezzacollo fin dalla nascita e anarchico prima assai ancora di sapere che cosa significasse anarchia? Davo di piglio al mantice soltanto pel piacere di veder bruciare il carbone, battevo ad ogni momento il martello sull’incudine seguendo il motivo dell’inno di Garibaldi, limavo ciottoli e culi di bicchieri rotti ecc. ecc. Eppure ricordo benissimo di non avere avuto mai uno scapaccione da mastro Michele, di non averlo visto mai montare in bestia, di non averlo mai sentito schiacciar moccoli. Egli era sempre lo stesso bonario e tollerante con una cert’aria canzonatoria che faceva in lui e per uso suo il bel tempo e la pioggia. Questo gradito ricordo della fanciullezza, ed altri ancora, mi rendono oltremodo caro il "viride vecchietto", a cui sono stato sempre legato da vivissimo e sincero affetto. Perciò ogni volta che lo incontro sono quasi sempre le stesse domande che gli rivolgo in tuono di rimprovero:

— Che cosa andate ruzzolando a quest’ora? Stamattina, passando, vi ho visto davanti alla fucina ridestare col mantice fiamma e festa, o martellare senza posa sull’incudine, o chino sul banco colla lima in mano, e adesso vi vedo col duro fardello del contadino addosso. Non sapete voi che ormai vi tocca un riposo meritato più di qualsiasi altro al mondo dopo sessantacinque anni di intelligente, proficuo e ininterrotto lavoro ? Il vostro non è un lavoro d’uomo libero, caro mastro Michele; ma un lavoro di schiavo o d’avaro.

— Non dite questo, per carità sor Paolo mio: né schiavo né avaro io sono mai stato, e voi mi conoscete benissimo. Io ho lavorato sempre per conto mio da uomo più che libero e non ho mai sfruttato alcuno al mondo, molto meno per avarizia. E sì che, volendo, potrei farlo a preferenza di chicchessia. Per me il lavoro è un bisogno prepotente dell'animo e del corpo, e se io non lo soddisfacessi, rimarrei a disagio nella vita come l’arancio fra gli sterpi.

Il pane che mangio voglio che esca tutto dalle mie mani; perché se mi venisse posto da altre mani, sentirei venir meno la mia dignità d’uomo e di lavoratore. Guardi un po' la mia salute di ferro, osservi la mia prosperità fisica e la contentezza del mio animo: le devo tutte al martello e alla zappetta. Sì anche alla zappetta. Dopo aver sudato parecchie ore nell’afa soffocante dell'officina sento il bisogno prepotente di correre al mio piccolo verziere per respirarvi l'aria fresca, per riposar l'occhio sul verde sereno delle aiuole, per zappettare gli ortaggi che ho piantato colle mie mani, per rimondare gli aranci che ho visto nascere e crescere. Ah, sì il mio bell’orto, frutto del mio lavoro, luce dei miei occhi, gioia dell'anima mia. Chi potrebbe staccarmi da esso?

Neppure la morte: se mi sarà dato vorrò essere sepolto sotto un arancio o appiè d’un ulivo. Non dite che sono un cicalone a freddo, caro sor Paolo; no. Io non sono anarchico, io non sono socialista, io non ho idee di alcuna specie, perché non le comprendo; io non sono che un lavoratore e come tale sento e penso che chi non lavora non ha ragione di esistere.

Lo so purtroppo da un pezzo tutto ciò che mi state dicendo, o mio buon vecchio. I vostri figliuoli dall’America vi hanno fatto cadere addosso la pioggia d’oro, a secchi così colmi e ripetuti che voi da solo potreste comprare tutti i pidocchi infarinati, tutti i villani rifatti, tutti i ladruncoli della borghesiuccia fannullona, tutti i parassiti e i vagabondi dell’ordine patriottico, che passeggiano da mane a sera per le strade del nostro borgo o si guardano l’ombelico e si grattano il culo seduti davanti ai circoli e alle farmacie. Voi avreste potuto a vostro bell’agio divorare da pescecane, speculare da sfruttatore e vivere da gaudente. Ma voi non avete voluto far nulla di tutto questo: voi disdegnate la pioggia d’oro che vi cade attorno, e chiedete il pane quotidiano al vostro vecchio braccio. Voi dite di non avere idee: ma nessuno meglio di voi meriterà dopo morte l’iscrizione che si legge sopra una tomba egiziana:

"Lavorai io stesso.... Io non ho mai fatto piangere un fanciullo, né ho mai maltrattato una vedova; io non ho mai recato disturbo al pescatore, né molestia al pastore...".

Ad multos annos, o nobile figlio del lavoro. Quando la mischia finale ci avrà dato la vittoria, io farò sfilare davanti a voi la mia colonna di ribelli e sulla vostra pura e bella fronte sventolerà il nero vessillo dell’anarchia.

Credete a me, mastro Michele.

Giorno verrà, verrà quel giorno, quando
Il lavoro fia re di tutto il mondo.
Noi vangherem, noi zapperem cantando,
E, scandagliando poi l’ultimo fondo,
Nel cieco ventre della madre terra
Seppelliremo il Sillabo e la Guerra.
E, zappa e zappa, scaverem la fossa
Alla Forza bisbetica e smargiassa,
Al Broglio, il falso dio che or cappa indossa,
Or manto, or toga, e, macchinando passa,
Al Privilegio che ci sugge l’ossa
E della vita altrui vive e s'ingrassa...
Poi sulla fossa scriverem;
Qui giace
Il vecchio mondo: che riposi in pace.

II bandito delle Madonie

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