L’utopia

Che cosa non è stato utopia nell’umano progresso? gli schiavi, gli arteriosclerotici, i tenebroni, gli oppressori ogni idea nuova l’hanno proclamata utopia e molto spesso anche follia, impostura, delitto: dall’invenzione meccanica alla scoperta scientifica, dal rinnovamento morale alla conquista della libertà. In un’isola del Pacifico, se mal non ricordo, una volta un selvaggio inventò una nuova maniera di adoperar l’accetta con minor fatica e maggior profitto dell’uso antico.

Fu una rivoluzione presso a poco simile a quella che si scatenò in Francia per la proclamazione dei dritti dell’uomo. I preistorici isolani si divisero in due schiere: partigiani del vecchio e del nuovo metodo, che alla fine trionfò. E non è solo fra i primitivi e i plebei che ciò avviene.

L’accademia delle scienze di Parigi, consultata sul battello a vapore del Fulton, sentenziò che era utopia voler navigare contro i venti, e Napoleone, il grande Napoleone, la gloria sciabolatrice della Francia, aspramente interruppe Luigi Costaz che gli raccomandava il Fulton:

"In tutte le capitali d’Europa v’è una folla d’avventurieri e di progettisti che corrono ad offrire ad ogni governo le loro pretese scoperte, che esistono soltanto nella loro immaginazione. Sono tutti ciarlatani e impostori, i quali non hanno altro in vista che estorcere denaro. Quest'americano è uno di essi. Non voglio più sentirne parlare."

Eppure se egli avesse voluto sentirne parlare, non sarebbe passato per Waterloo, e l’Inghilterra forse non esisterebbe più, perché l’invenzione di quell’americano valeva mille volte più di tutti i cannoni del conquistatore corso.

Nella stessa Francia, imperando pure Napoleone, la medesima accademia di Parigi coprì di scherno il Marchese Jouffroy che fin dal 1783, cioè prima del Fulton, aveva fatto muovere un battello a vapore sulla Saona. Il povero Jouffroy vide schierarsi contro di lui anche i suoi parenti! Né miglior fortuna ebbe in Francia il Ficht, altro precursore della navigazione a vapore, che finì, per la disperazione, col precipitarsi da una rupe nel fiume Delaware.

Più tardi il fisico Babinet in seno alla sullodata accademia disse che il cavo sottomarino era un'utopia, perché le correnti ne avrebbero fatto giustizia sommaria; e parecchi anni dopo definì un’invenzione dell’Edison: "Illusione acustica". Nello stesso tempo Adolfo Thiers, l’assassino della Comune, dichiarava alla Camera francese che le strade ferrate erano una grande utopia.

Non parliamo dell’aeroplano. Quello lì fino a pochi anni or sono era relegato tra le fantasmagorie delle "Mille e una notte", tantoché il ministero francese della guerra, non credendo possibile l’aviazione, dava facoltà a Clemente Ader, tuttora vivente, di vendere il suo apparecchio a qualche nazione straniera.

Finanche l' illuminazione a gas al suo inizio fu bersaglio delle satire di Carlo Nodier, e il Le Bon che l’inventò venne assassinato ai Campi Elisi.

Riccardo Arkwright, Giovanni Watt, Giorgio Stephenson e cento altri inventori, che hanno formato la gloria e la grandezza della Gran Bretagna, furono da principio derisi e poi assaliti e perseguitati anche dagli stessi operai. Il Franklin fu schernito quando scoprì l’identità del fulmine coll’elettricità; e nella superiore e progredita Inghilterra l’opuscolo col quale l’Harvey annunziava la scoperta della circolazione del sangue, fu dichiarato prodotto d’un impostore o d’un pazzo. Il Jenner passò per tutte le caricature e le derisioni possibili e immaginabili. In Francia il Paré, precursore della chirurgia moderna, fu disprezzato e trattato come un maniscalco dagli stessi suoi colleghi, e lo Jaquard, l’inventore del famoso telaio, fu ritenuto un vagabondo sognatore di assurde invenzioni. In Italia, Leonardo da Vinci, il genio dei precursori, non fu compreso neppure dallo stesso Michelangelo, e appena oggi si comincia a conoscere che portentoso inventore e scopritore egli fosse. Cristoforo Colombo, ognuno lo sa, fu trattato da visionario e Guglielmo Marconi dovette emigrare per trovar modo di farsi valere. Utopie erano la cupola del Brunelleschi e il traforo del Cenisio; utopia era per Carlo Gozzi perfino il teatro goldoniano. Il cammino della scienza e dell’arte è stato sempre intralciato dagli gnomi, che ad ogni passo vanno gridando: Utopia! Follia! Delitto! I capolavori del genio sono stati accolti a fischi e i novatori a legnate, o per lo meno a sputi. Non per nulla Arrigo Boito, rivolto alla canaglia che lo fischiava, esclamò: Che onore che mi fanno!

Nel campo politico e filosofico è ancor peggio: lì si rischia d’essere torturati, di morire in galera o di lasciarci la pelle, perché c’entrano di mezzo la digestione e la buona salute dei dominatori. Nel 1855 fu pubblicato a Napoli il Trattato di diritto penale di Pellegrino Rossi, tradotto da Enrico Pessina; e poiché l’opera era piena di idee costituzionali e di tolleranza religiosa, il governo borbonico ne permise la stampa, a condizione però che fosse infarcita d'annotazioni editoriali confutanti le teorie del Rossi. In tal modo vi si possono leggere note di questo genere:

"La libertà politica non solo non promuove, ma impedisce il progresso della civiltà umana e distrugge quello che la stessa civiltà nelle epoche anteriori ha costruito. Questa verità non ha bisogno di dimostrazione per chi comprende che libertà e distruzione dell’ordine sono una sola e medesima cosa...

Il fare che un paese di governo assoluto si cangi in libero è una enormità che non potrebbe trovar perdono in terra; ma non si può dir lo stesso di colui che cerca ricondurre ad un sistema di ordine il proprio paese quando è travagliato da quel flagello delle istituzioni anarchiche che parecchi illusi sogliono chiamar libere e popolari e che sono la ruina dei popoli il fomite di ogni eccesso la negazione di ogni legge...

Noi non sappiamo se possa darsi al mondo maggiore stoltezza. Per coloro che nel fondo della loro coscienza traviando s’allontanano dalle vie del Signore e della fede cattolica, debbono le anime pie pregare Dio che gl'illumini, e cercare con la loro parola distoglierli dal peccato. Ma per coloro i quali osano professare apertamente un culto diverso da quello che Santa Chiesa prescrive egli è d’uopo per la salute di tutte le altre anime che si estirpi col ferro e col fuoco ogni seme di empietà...

Che cosa sono le libertà pubbliche se non pubbliche calamità peggiori delle piaghe di Egitto? Lo spirito dell’uomo per opera dell’ordine vien sottratto alla schiavitù delle passioni"…

E così via di seguito.

Sennonché cinque anni dopo a furia di popolo l’enormità diventava realtà, la stoltezza appariva saviezza, le pubbliche calamità si trasformavano in pubbliche istituzioni, e i Borboni con tutti i loro annessi e connessi scomparivano per sempre sotto i colpi delle camicie rosse.

Così è stato, o compagni, così è e così sarà per tutti i dominatori, gli oppressori, i carnefici d’ogni tempo e d’ogni luogo. Essi rappresentano l’ordine, il progresso, la civiltà, la verità, il benestare, ecc.; mentre le idee nuove altro non sono che istituzioni anarchiche (nel senso borghese tradizionale e bestiale della parola), fomite d’ogni eccesso, negazione del bello e del buono, stoltezza, follia, schiavitù delle passioni; e chi più ne ha più ne metta.

I passati governi definivano e trattavano i cosiddetti liberali d’allora, i costituzionali, i patriotti, né più né meno come oggi costoro definiscono e trattano noi anarchici. Giuseppe Garibaldi era unbrigante, un filibustiere, e a tutti gli altri si appiccicavano i graziosi epiteti di delinquenti, malfattori, empii, parricidi, canaglie, pazzi, selvaggi. E poi ceppi, manette, torture, piombo e forche.

Frugate un po’ nella Biblioteca Nazionale di Parigi, come feci io trent’anni or sono, e troverete la stessa cosa. Poco prima che la Bastiglia cadesse, che le teste del re e di tant'altri ruzzolassero nel paniere insanguinato della ghigliottina, e che la grande rivoluzione spiegasse il suo volo vittorioso sul vecchio mondo, i sostenitori dell'ancien régime, i satelliti del trono e dell’altare, i parassiti della stola e della corona, i servi del privilegio, i tenebroni, i gaudenti pensavano, parlavano e scrivevano né più né meno come l’editore del Trattato di diritto penale di Pellegrino Rossi, portavoce del governo borbonico. Per essi le idee nuove erano sogni, follie, delirii, pervertimenti, malvagità, che sarebbero finiti nel ridicolo e nel manicomio; ma più probabilmente nelle regie galere e sulle non meno regie forche. E quasiché la terribile lezione sopravvenuta non fosse bastata a disingannarli o correggerli, dopo il ritorno di Luigi XVIII credettero che tutto fosse finito a Waterloo; tantoché un reverendo storico di corte, scrivendo la storia di Francia, saltò di piè pari la rivoluzione dell'89 come se questa non fosse mai avvenuta. Costui aveva dimenticato perfino la morte non certo naturale di Luigi XVI e di Maria Antonietta! E dire che pochi anni appresso anche loro dovevan fuggire inseguiti dal popolo in armi, per non più contaminare il suolo della Francia.

Oggi sembra che la storia non abbia insegnato nulla all'infrollita, alla corrotta, alla bestialissima borghesia, la quale nella stessa guisa vuol saltare di piè pari gli ultimi avvenimenti per tornare senz'altro allo statu quo ante, colla pura e semplice somministrazione di qualche panacea. Ciò, del resto, è avvenuto in ogni tempo.

Al principio del mille, scrive uno storico francese, "il vescovo Adalbéron, in un poema latino rivolto al re Roberto, non riconosceva che due classi nella società: i chierici che pregano e i nobili che combattono, sotto i quali, molto lontano, stanno i servi e i villici che lavorano, ma che non contano nello stato. Questi uomini, di cui il vescovo Adalbéron non teneva conto, intanto l’atterrivano, perché egli presentiva già con dolore una rivoluzione vicina. «I costumi cambiano, grida il prelato, l’ordine sociale è scosso!». Quest’è il grido di tutti i privilegiati del secolo ad ogni richiamo che viene dal basso". Più tardi Guibert de Nogent scriveva: "Comune è un nome nuovo e detestabile, ed ecco che cosa s’intende con questa parola: gli uomini soggetti alla taglia non pagano più che una volta l’anno il censo dovuto, e se commettono qualche delitto se la cavano con una pena legalmente stabilita". La sostituzione della legalità comunale all’arbitrio feudale, per lo scrittore sunnominato diventava cosa detestabile, appunto perché nuova e perché poneva un freno alla violenza e alla ferocia dei signorotti.

Il sommo poeta persiano Firdusi nel Libro dei Re mise in berlina le idee nuove dei Manichei, e i proprietarii inglesi al tempo della ribellione dei contadini chiamavano matto Giovanni Ball, nelle cui prediche "l’Inghilterra ascoltò per la prima volta la condanna del feudalesimo e la dichiarazione dei dritti dell’uomo". In Italia fino a pochi anni or sono Cesare Lombroso e Napoleone Colajanni distribuivano scientificamente certificati di criminalità, di degenerazione e di follia a tutti i ribelli e i novatori. Quest’ultimo, polemizzando con Saverio Merlino sopra un giornalucolo socialista palermitano, vilipese Vittorio Pini , già condannato ai lavori forzati, e sul giornale L’Isola gratificò me, povero gregario, del titolo di pazzo, compiangendomi, per la mia misera fine, due giorni dopo ch’ero stato arrestato. Nei Latini e Anglo Sassoni lo stesso profeta calcificato, che non ne indovina mai una, definì il Tolstoj "artista geniale, sommo, unico quasi", e oggi, che il titano russo viene incoronato dall’aurora sociale nascente, per miracolo non lo trascina nel fango, come avversario del "regime rappresentativo vigente nelle democrazie europee" e come capostipite dei bolsceviki, coi quali il sommo anarchico mistico non ha nulla di comune. Tanto può l’aberrazione di parte!

Che cosa non è stata utopia, follia, o delitto nel fatale divenire delle cose e nell’umano progresso? La boria e la malafede dei dominatori, il misoneismo e l’ignoranza dei dominati sono antichi quanto l’uomo, tanto fra i popoli quanto fra le varie classi sociali. Il selvaggio del Pacifico che crede la sua isola centro e parte principale del mondo, somiglia al mandarino cinese, per il quale la Cina è il nocciolo della terra, oltre cui non c’è che un sottile guscio barbarico e trascurabile. Il beduino caldeo, che esce dai deserti d’Arabia, s’insedia a Babilonia e invoca Merodach come padre e protettore, può fare il paio col nobile francese dell’Oriflamma, il quale commette il raffazzonamento del proprio albero genealogico ad uno scriba e fa risalire la sua origine costantemente al patriarca Adamo. Per costoro anche le loro corna e la loro cotenna asinina si perdono nella notte dei tempi e dureranno eterni quanto l’universo; sennonché d’eterno non c’è nulla, neppure il sole, che di continuo si trasforma e presto o tardi perirà. Tout passe, tout lasse, tout casse, è la legge ineluttabile della vita, e non c’è boria, o forza, o malafede che tenga.

Volgete lo sguardo intorno, o lavoratori: sui vostri monti, nelle vostre città spesso rimirate compresi di stupore gli avanzi cosiddetti ciclopici, o saraceni come voi erroneamente li chiamate. Là fra quelle mura, che sembrano opere di giganti, visse una stirpe che dominò tutto il bacino mediterraneo, fondandovi imperi potenti e civiltà millenarie. Sulla spiaggia di Castelvetrano il viandante sbalordito si trova di fronte a una distesa di melanconiche e affascinanti rovine, le più grandiose che vanti la terra. Sono le rovine di Selinunte nel cui recinto, come pure a Siracusa, ad Agrigento, a Segesta, a Imera si agitò un popolo meraviglioso, creatore sovrano di scienza, d’arte, di civiltà. Ebbene, chi avesse detto a quei Pelasgi, a quegli Elleni che genti più forti e gloriose avrebbero preso il loro posto, sarebbe stato trattato da pazzo o da nemico degli dei. Eppure oggi le capre brucano in mezzo agli abbattuti delubri pelasgici, le serpi strisciano fra i rottami del tempio di Giove Olimpico, e nelle tue acque, o divina Aretusa, la lavandaia sciaguatta i panni villani. Al posto d'Imera non trovate più che un pianoro bruciato dal sole e una spiaggia pestilenziale, la vittoria alata abbandonò Siracusa, i numi dell’Olimpo scomparvero, finì la gloria di Taormina, Stesicoro non canta più.

In un luogo qualche mosaico vi ricorda la grandezza dei Saraceni, in un altro un maniero incantato vi richiama alla mente lo splendore normanno o la nobile passione degli Svevi.

La loro scomparsa vaticinata da un profeta all’emiro kelbita Hasan, a Ruggero d’Altavilla, a Federigo d’Hoenstaufen avrebbe provocato risate omeriche e calci nel sedere. Ma ora 1’Islàm più non trionfa e la civiltà saracena è caduta; le armate di Giorgio Antiocheno e di Margarito sono scomparse dai mari; le caminate del castello di Lucera e del maniero di Palermo non risuonano più del canto dei trovatori.

Il gufo pone il suo nido anche nel Partenone, i corvi svolazzano sul Colosseo, muta è l’Alhambra, e al posto della Bastiglia sorge una colonna dedicata alla libertà. Adesso è venuta la volta di Pietro il Grande e del vincitore di Rosbach, che non dominano più Pietrogrado e Berlino dall’alto delle loro statue equestri. Così fra non molto nei fortilizii e nelle caserme borghesi canteranno l’upupa e l’assiuolo; al teatro Massimo, al San Carlo e alla Scala i villani balleranno la Carmagnola sociale, e sulle ossa dei pubblicani e dei farisei i vincitori celebreranno le feste della vita e dell’amore.

Lo scrittore arabo Al Qazvini in una bellissima leggenda così ritrae le vicende geologiche della terra:

"Khidr raccontava: Io passai un giorno da una città piena di popolo e di edifizi e interrogai uno de' suoi abitanti intorno al tempo in cui essa era stata edificata. Disse: Né noi né i nostri padri conosciamo il tempo della fondazione di questa antica città. –Vi passai dopo cinquecent’anni. ed ecco ch’io non vidi là alcuna traccia di quella città. Vidi là un uomo che affastellava del fieno, e lo dimandai del tempo in cui quella città era stata distrutta. Ma egli disse: Questa terra non ha mai cessato di essere quale ora è. – Io dissi: Ma qui stava pure una città. –Disse: Noi non abbiam veduto qui una città né abbiamo udito parlarne dai padri nostri. – Vi passai ancora dopo cinquecent’anni, e trovai quella terra divenuta un mare. Là sopra m’imbattei in una brigata di pescatori e li dimandai del tempo in cui quella terra era diventata un mare. Ma essi dissero: Può forse, un tuo pari, far di queste domande? Questa terra non cessò mai di essere quale è ora. – E io dissi: Eppure, prima di quel che ora è, era un continente! – E quelli dissero: Noi non l’abbiam mai veduto né abbiamo udito mai parlarne dai padri nostri. – Vi passai ancora dopo cinquecent’anni, ed ecco che là s’era formato un continente. M’incontrai in un tale che stava là tutto solo, e gli dissi: Quando mai questa regione s’è fatta continente? – Rispose: Essa non ha mai cessato di esser tale. – Io soggiunsi: Era un mare prima di così. – Ma egli disse: Noi non abbiam mai veduto quel mare né abbiam mai udito parlarne prima d’ora. – Vi passai ancora dopo cinquecent’anni e trovai quella regione divenuta una città piena di gente e di edifizi e più bella di quella che io aveva veduta la prima volta. Domandai ad uno de' suoi abitanti; E quando fu fondata questa città? – Rispose: È una fondazione antica, Né noi né i padri nostri conosciamo il tempo in cui questa città fu edificata".

Le vicende sociali sono uguali alla vicende geologiche, essendoché nulla rimonta alla origine delle cose e nulla durerà in eterno, molto meno l’oscena trippa borghese. Tutto nasce e muore in un tempo maggiore o minore, e chi vuole escluderne l’autorità dei gaudenti, la proprietà privata, le caserme, le banche, le sagrestie, i bordelli, alla stregua della scienza non è che un imbecille in buona fede o una canaglia in mala fede, Napoleone Colajanni compreso. Durante la terribile reazione autocratica che infierì in Russia nel 1905, Enrico Corradini esaltava entusiasticamente la "magnifica resistenza" degl’impiccatori russi e inveiva contro la viltà della monarchia borbonica di Francia che cedette al primo urto. Innanzi tutto quel bestione nazionalista ignorava che il Taine ne Les Origines de la France contemporaine aveva enumerato quattrocento e più rivolte parziali che precedettero l'89 e che furono tutte soffocate nel sangue.

La gentile Madama di Sévigné andava in visibilio per le repressioni spietate fin dal tempo di Luigi XIV e incoraggiava il macello dei villani. Ma che cosa ne pensa oggi della fine dell’autocrazia russa il sudiciume imperialista del Marzocco? Che peccato non essersi trovato anche lui in quel bailamme! Avremmo avuto una carogna di meno.

Archibald Forbes nelle Memorie di guerra e pace ci fa sapere che "la raccolta di preghiere per qualsiasi situazione di guerra, fornita a ogni soldato tedesco nella guerra del 1870, non conteneva una Preghiera sulla sconfitta. Il vocabolo sconfitta era cancellato dai dizionario tedesco". Il generale americano Sheridan nella stessa occasione proclamava l’invincibilità del soldato prussiano e aggiungeva d’aver perduto tutte le illusioni della sua giovinezza circa i soldati di Napoleone il Grande". Guglielmone più tardi nella sua grottesca spavalderia gridava ai quattro venti che "il tedesco non ha mai combattuto meglio che quando ha dovuto difendersi da ogni parte", e sfidava il mondo. Eppure è venuta la sconfitta, è finita l’invincibilità, l’impero spaventoso è distrutto e Spartaco coi suoi gladiatori fra breve conquisterà la Germania.

Lo stesso generale Sheridan, l’eroe della "cavalcata di Winchester", nella guerra di Secessione, cantato dal calascione fesso di Gabriele D’Annunzio, mise fuori quest'insegnamento bellico, di cui a torto si attribuisce la priorità ai tedeschi:

"L’essenziale della strategia è questo: cominciar a picchiare il più sodo che si può sulle truppe avversarie, poi far tanto danno agli abitanti del paese nemico da costringerli a far pressione sul proprio governo per ottenerla. Alle popolazioni del paese invaso non si deve lasciar null’altro che gli occhi per piangere".

Chi lo avrebbe mai detto che il massimo flagellatore di quella selvaggia strategia, il Wilson, doveva venire dal paese che la vide nascere?

Nulla più di questo fatto vale a provare che in ogni paese l’utopia d’oggi è la realtà di domani.

Del resto si conoscono bene le millanterie di forza, d’invincibilità, d’eternità delle classi dominanti: ne son pieni i luoghi comuni, e fra non guari i luoghi comodi accoglieranno le inviolabili istituzioni borghesi. Leone Caetani, nel narrare le millenarie e orrende mischie dell’Asia anteriore, notava:

"L'eterno dissidio tra il partito conservatore e quello popolare è sempre terminato in ogni paese e in ogni tempo con la vittoria dei popolari, i quali subentrano, con nuove idee, nel posto dei conservatori scomparsi, finché alla lor volta divenuti nobili e conservatoria, anch'essi, ma decaduti e senescenti, sono spazzati via da nuove onde popolari più giovani e vigorose".

Si conoscono pur bene i loro argomenti contro il manifestarsi d'idee nuove: sono perpetui luoghi comuni fra i luoghi comuni, triti e ritriti, cantati e ricantati in tuono pappagallesco da tutti i maiali decaduti e senescenti. Essi per ragione di propaganda meritavano forse di essere confutati e discussi a lungo venti o trent’anni or sono; ma oggi che l'ultima ratio è riservata alle mitragliatrici e alle bombe a mano, basta solo accennarne qualcuno, non fosse altro per dare un indice della sudicia e goffa mentalità borghese.

— Ah sì, avvertono gl'impostori e i gaudenti, voi non conchiuderete nulla, anche se riusciste nell’intento di provocare la rivoluzione sociale! L’uomo è stato sempre lo stesso e sempre lo stesso sarà: una bestia feroce che ha bisogno del domatore. —

Ammesso pure che così fosse, non è detto però che i domatori debbano essere sempre i medesimi e che le mangiatoie debbano servire per una sola specie d’animali. E poi, bestie per bestie, molto meglio i leoni e i leopardi, meglio i tori vigorosi e i corsieri indomati e non mai i pescecani divoratori del mondo, le iene che frugano tra milioni di cadaveri e gli schifosissimi avvoltoi che si pascono di carogne. Una volta per uno, va detto anche per le bestie.

— Guardate che cosa sta succedendo in Russia, strillano gli amorosissimi sciacalli borghesi: confusione, fame, pesti, lotte fratricide, eccidii. —

E che forse nelle rivoluzioni della borghesia non hanno combattuto fratelli contro fratelli, cioè francesi contro francesi, inglesi contro inglesi, americani contro americani, italiani contro italiani? Santorre di Santarosa, il patriotta ideale, nel suo proclama del 23 marzo 1821 previde il caso che "armi piemontesi si schierassero contro armi piemontesi, e che petti di fratelli s’incontrassero con petti di fratelli"; ma non indietreggiò davanti a quel pericolo e tirò avanti. Giuseppe Garibaldi versò molto più sangue italiano di quanto ne versò Radeztki, e tutti gli eroi dell’indipendenza italica nuotarono nel sangue fraterno per quasi un secolo. Nella rivoluzione dell'89 la confusione, il terrore, le stragi durarono assai più a lungo che non dureranno nella rivoluzione sociale russa, e il sangue sparso da questa è ben poca cosa al paragone dell’immensa fiumana di sangue con cui l’autocrazia allagò la Russia in soli cinquant’anni di guerre, di pogroms e di persecuzioni,

— I salti in natura non esistono. Il progresso si effettua lentamente, per via d’evoluzione, continuano a sentenziare i lazzaroni borghesi. —

Quest'è proprio l’Achille dei loro argomenti, e appunto per aver la pretesa d’essere inespugnabile, riesce il più cretino e il più ridicolo di tutti. Scrive il Guyau: "È una legge sociologica che quanto più noi progrediamo, tanto più la vita sociale diviene intensa e la sua evoluzione più rapida. Or la rapidità di ogni evoluzione porta seco anche quella della dissoluzione: ciò che oggi è nella pienezza della vita, sarà presto in decadenza. Ai nostri giorni non si può più contare per secoli; venti, dieci anni sono già ilgrande mortalis aevi spatium". Vorremmo dunque sapere a conti fatti quanto deve durare quest’evoluzione dell’idea sociale, che rimonta in Europa almeno a venti secoli addietro. Vorremmo sapere perché tale pratica francescana dell’evoluzione pacifica e del passo di tartaruga non fu attuata nella formazione dell’unità italiana e nella rivoluzione francese e in mille altre rivoluzioni politiche. Forse perché esse non turbavano la suina digestione borghese; infatti tutti i carnefici per continuare tranquillamente nella loro opera impiccatoria, invocano ad ogni passo il timore di Dio, l’ubbidienza, la rassegnazione, annunziando sempre nuove leggi e nuove riforme al nodo scorsoio, affinché l’impiccato muoia senza sentir dolore.

— Il dolore è il retaggio della vita, conchiudono amaramente i filosofi buddhisti della borghesia. In questa valle di lacrime ci dev’essere per necessità di cose chi gode e chi patisce: oggi ride uno, che domani piangerà. I patimenti e le avversità sono nella natura delle cose, talmenteché il paradiso terrestre da voi sognato, pieno d'angeli in carne e ossa, con fontane inesauribili di miele e giulebbe, tutt'al più può stare come concezione biblica. —

No, o messeri, nessun seguace delle idee nuove ha sognato mai il paradiso terrestre, la perfezione assoluta dell’uomo, la monacazione francescana delle forze naturali, e molto meno gli anarchici. Il dolore è il retaggio della vita, è pur vero. Esso impera sui ghiacci del polo e nelle sabbie infocate del deserto, in mezzo ai giardini delle Esperidi e fra l’Eldorado del nuovo mondo. Esso accompagna ogni creatura dalla nascita alla morte e domina sovrano l’esistenza, Esso si annida in ogni fibra del cuore e in ogni cellula del cervello, disfiora l’amore e fa apparire orrido l’eterno riposo. Ma se ognuno si rassegna a sopportare il dolore che è nella natura stessa delle cose, nessuno vuol patire il dolore superfluo, prodotto dall’artificio e dalla malvagità del prossimo. La morte è fatale e naturale; non è però naturale ch’io debba morire sbranato dal cannone per volontà d’un brigante, e non è inevitabile ch’io finisca innanzi tempo sol perché non ho quattrini per pagare il medico, il chirurgo, il vivandiere, il farmacista. Le infermità nascono con ogni essere animato e non possono bandirsi dalla terra; ma non è detto ch’io debba ammalarmi per eccesso di fatica, per insufficiente e malsana alimentazione, per l’infezione del tugurio e della palude in cui sono condannato a dormire e a lavorare. È naturale che la siccità distrugga le messi e che un turbine devasti una vigna o un uliveto; ma non è affatto naturale che una guerra devastatrice disperda i frutti del lavoro di secoli, che gli alimenti marciscano nei depositi d’un monopolista, che un prodotto della terra manchi in un posto mentre in un altro va a male per difetto di compratori e di mezzi di trasporto. A pochi chilometri dal luogo in cui scrivo vidi mesi addietro una catasta di legna che sarebbe bastata a fornir combustibile a tutta la popolazione di Palermo durante la terribile epidemia dell’autunno scorso. Ebbene, quell’immensa fonte di calore benefico, che sarebbe stata la salvezza di molti infelici, imputridisce lì da due anni, e in questo momento il terreno dei nostri agrumeti biancheggia di limoni fradici, che nessuno compra perché non sa come trasportarli. Tempo addietro osservai in Toscana una sorgente d’acqua minerale, delle più rinomate d’Italia, che si perdeva nelle fogne. Ne chiesi il perché e mi risposero: "Il proprietario la vende a una lira la bottiglia, e quella che non può vendere, per non farne godere gratuitamente il pubblico, la immette nelle chiaviche, donde si getta nell’Arno".

Quanti poveri ammalati non possono alleviare i loro dolori, per la semplicissima ragione che tutte le acque minerali si vendono a tanto il litro?

Il terremoto che lì per lì getta sul lastrico intere popolazioni è un fatto naturale; ma è naturale che migliaia e migliaia di casine e di palazzi debbano restar vuoti per anni e anni, mentre c’è chi non ha casa, chi dorme in un tugurio, chi si avvoltola nel sudiciume d’una capanna?

Il manicomio e l’ospedale sono e saranno sempre necessarii; ma quante galere, quante caserme e quanti postriboli sono egualmente necessarii?

Il gaudente che ha un callo al piede o un’indigestione di pasticcini prelibati, disteso sopra un letto di piume, circondato di dame e di cameriere, di medici e di servitori, è subito coperto d’empiastri e rimpinzato di cordiali o di lattovari. Il diseredato della vita invece, sia pure alle prese con cento specie di bacilli, deve affidare la sua cura al destino e accrescere col suo dolore i patimenti della sventurata famigliuola, se ne ha.

È stato ripetuto a sazietà che la morte livella tutti, che la morte non distingue porte, ecc. Che atroce menzogna! La morte pel privilegiato viene vestita d’oro e d’orpelli con musiche, con bandiere abbrunate, con discorsi altisonanti, con sepolcri fastosi, con monumenti bugiardi, laddove per la plebe si presenta nuda e lercia in tutto il suo orrore. Lo sfruttatore colla morte lega ai suoi figli il godimento dell’oro rubato; i figli del proletario non ereditano che la sua croce e i suoi spasimi.

Bisogna dunque integrare la massima buddhista colla sua seconda parte:

Il dolore è il retaggio della vita:
Tutti gli uomini sono uguali in faccia al dolore.

Se c’è da patire, dobbiamo patir tutti; se c’è da godere, dobbiamo goder tutti. La famosa ''valle di lacrime" non deve servire ad alcuni per nuotare nell’orgia e nell’oro e ad altri per desiderare il pane e l’amore. La scienza colle sue meraviglie, l’arte colle sue bellezze, la terra colla sua fecondità, l’industria dell’uomo colla sua potenza, saranno patrimonio comune per alleviare i comuni dolori e per accrescere le gioie comuni. Il paradiso terrestre releghiamolo pure fra le leggende bibliche, come il paese della cuccagna va relegato tra le novelle del Boccaccio. La vita è un passaggio, un sogno, un’illusione, e lo cantò divinamente bene il poeta spagnuolo:

...Pues estamos
En mundo tan singular,
Que el vivir solo es soñar,
Y la experiencia me enseña
Que el hombre que vive sueña
Lo que es, hasta despertar...

...¿Que es la vida? Un frenesì:
¿Que es la vida? Una illusion,
Una sombra, una ficcion,
Y el major bien es pequeño;
Che toda la vida es sueño
Y los sueños, sueños son.

Ma se ha da essere un’illusione, che sia almeno un’illusione naturale, non mai una truce visione artificiale di martirii e di stragi, d’inganni e di sozzure, di procurate angosce e di miserie imposte. Che sia un’illusione in cui accanto al Trionfo della morte del camposanto di Pisa splenda la divina bellezza della Gioconda di Leonardo; in cui il tremuoto trovi un contrapposto nella mano dell’uomo che ricostruisce: in cui sulle infermità la scienza stenda il suo manto benefico e confortatore. Sia pure la lotta per l’esistenza; non però contro il proprio simile, bensì contro i mali che ci circondano.

Non si ripeta più la prescrizione del Li-Ki cinese, comune a tutti i privilegiati:

Della morte dell’Imperatore si dice: "La roccia è precipitata a valle"; della morte di un feudatario si dice: "Ne resta il rombo" ; della morte d’un alto dignitario si dice: "È arrivato al termine"; della morte d’Ufficiale subalterno si dice: "Non riceve più emolumento"; della morte d’uno del popolo si dice: "S'è disciolto, esaurito".

La morte ha da "discioglier" tutti in egual modo, non lasciando altro rombo che quello delle proprie opere.

Il turbine, che spazzerà l’edificio borghese, s’è scatenato già, o proletarii: esso s’avanza come il simùn e nulla gli resisterà. L'Utopia anarchica di Mario Rapisardi sta per diventare realtà:

Non più Dei, non più re, ferree chimere
Artigliatrici dell’uman, cervello.
Che d’ombre inebriato hanno il pensiere,
E fatto della terra il cielo avello,
Colpa la verità, scherno il sapere,
Croce l’onor, la libertà flagello,
Il genio e la virtù pena infinita,
Merito la viltà, strazio la vita!

Servi non più, non più signori! Eguali
Tutti! Qual sole che consola il mondo,
Giustizia e Libertà sopra i mortali
Verseranno un fulgore ampio e giocondo;
E sradicando le miserie e i mali,
Di cui solo finora è il suol fecondo,
Germogliare faranno e al ciel vicino
Sorgere della Pace il fior divino.

Patrie non più! Non più biechi e selvaggi
Termini a cui l’umana onda si spezza,
Per cui depone Amore i dolci raggi,
E stolta Vanità gli odi accarezza;
Per cui l’Odio è virtù, studio gli oltraggi,
L’omicidia furor nobile ebbrezza,
Arte sublime e glorioso vanto
Spremer di sangue un fiume, un mar di pianto!

Ma una patria, una legge, un popol solo,
Che nell’opre del braccio e del pensiero
Sempre più sorga a luminoso volo
E incalzi sempre più l’arduo mistero:
Una patria, a cui sia limite il polo,
Una famiglia a cui sia fede il Vero,
Un amor, che confonda entro sè stesso
Gli esseri tutti in un fraterno amplesso!

Di rei computi padre e di sospetti
Non più costringa i cori avido Imene,
Perchè preda al fastidio indi li getti
Di pregiudizi carchi e di catene:
Indi covata in trafficati letti
Un’egra stirpe tralignando viene,
che smaniosa del suo ferreo dritto
dal tedio e dall’error giunge al delitto.

Spieghi libero Amor l’ale fiammanti
E ravvivi la terra al par del sole,
Sì che dal bacio di due cuori amanti
Rigogliosa e gentil sorga la prole.
O forte Amor, co’ tuoi moniti santi
Suscita la civil torpida mole;
Abbia dal regno tuo vario e fecondo
novella vita ed equa legge il mondo!

Non più colpe e delitti; orrido gregge,
Che dell’error le ortiche ispide bruca,
Cui non torvo rigor frena e corregge
Fra ceppi infami in sotterraneo buca,
Ma paurosa iniquità di legge,
Ma fame orrenda a fatti orrendi educa
Finchè largo d’oneste opre e di pane
Non redima l’Amor l’anime umane!

Come un sogno d’amante e di poeta
Allor sorriderà l’ampia Natura,
La terra allor sarà fertile e lieta
Libera qual pensier, qual foco pura,
Madre che tutti nutre e tutti allieta,
Che l’opra alla mercè libra e misura,
Provvida madre che i sudati frutti
porge benigna ed ugualmente a tutti.

Ma ricordatevi, o lavoratori, che la rivoluzione sociale dovrà essere essenzialmente anarchica: qualsiasi altro intruglio socialdemocratico, o social repubblicano, o marxista autoritario, o bolsceviko dittatoriale non sarà che transitorio. Il pensiero, la scienza e la storia conducono fatalmente all’anarchia, senza la quale bisognerà tornare da capo col sangue, colle devastazioni, colle stragi.

Una volta, nel periodo delle persecuzioni cieche e violente, non c’era vilipendio, non c’era falsità, non c’era calunnia a cui la borghesia non ricorresse per renderci spregevoli, ridicoli, odiosi agli occhi di tutti.

Anarchia era sinonimo di delinquenza selvaggia, di delirio sanguinario, di brutale malvagità, di fanatismo stolto, e anarchico significava brigante, ladro, assassino, pazzo morale, isterico, epilettico più o meno ignorante, più o meno grottesco, più o meno scellerato.

La maggior parte, anzi tutti i nostri persecutori, nemici e avversari, tranne qualche rara eccezione, non si pigliavano nemmeno la briga di conoscere le teorie anarchiche, neppur superficialmente; né si curavano in alcun modo di sapere chi fossimo e che cosa volessimo.

Parlavano, insomma, di noi e delle cose nostre nella stessa guisa, nello stesso tono e colla stessa supina ignoranza con cui parecchi secoli or sono le donnicciuole e i buzzurri favellavano di turchi e di Turchia, di Cina e di cinesi, di streghe e di versiere, di lupi mannari e di draghi.

Questo, per altro, è un fatto che si ripete sempre al sorgere di ogni nuovo sistema religioso, politico, sociale o scientifico che porti seco un principio qualsiasi d’innovazione tra i ruderi e il marciume del passato.

Le medesime fandonie, storielle, denigrazioni, calunnie, maledizioni, hanno salutato íl sorgere del Buddhismo e del Cristianesimo, dell’Islamismo e della Riforma, della filosofia socratica e dell’epicureismo, dell’Enciclopedia e della teoria darwiniana, della rivoluzione francese e delle guerre d’indipendenza, del socialismo e dell’anarchia, dell’Internazionale e della Comune di Parigi.

Leggete ciò che i brahmani, i confuciani, gli adoratori di Giove, i custodi della Kaaba, i corvi della corte papale latravano e gracchiavano contro Buddha e i buddhisti, Cristo e i cristiani, Maometto e i maomettani, Lutero e i luterani; leggete quel che i sostenitori del passato e i gufi delle tenebre vomitavano contro le nuove idee e i loro seguaci, e v’accorgerete che tutti hanno suppergiù lo stesso frasario con invettive, declamazioni, insulsaggini, ammonimenti, invocazioni, scongiuri, che si somigliano come tante gocciole d’acqua. Tutti parlano in nome del cielo, della morale, del sacro suolo della patria, della santità della famiglia e delle ombre degli avi, della civiltà, della libertà, della giustizia.

E anche oggi a distanza di centinaia e migliaia d’anni, si ripetono punto per punto come l’eco.

Finito il tempo delle persecuzioni per la mirabile forza di resistenza nostra e per l’eroismo dei migliori, l’Idea anarchica non solo è stata ammessa alle aperte manifestazioni della vita ma grazie al valore e al genio dei nostri scrittori, scienziati, oratori e propagandisti, è entrata a bandiere spiegate nel dominio della scienza, studiata e discussa come qualsiasi altro sistema politico, sociale e filosofico. Napoleone disse che Annibale a piè delle Alpi aveva perduto metà dell’esercito per conquistare il suo campo di battaglia, e noi anarchici possiamo alteramente affermare che abbiamo perduto più d’un esercito per conquistare il nostro campo, che oramai ha per confini i confini del mondo.

Talmenteché oggi non si parla più sistematicamente di delinquenza e d’epilessia; non s’inventano più storielle e favolette medievali la notte per ricantarle poi il giorno. Ciò nondimeno restano sempre la pazzia e il disordine, o quanto meno l’utopia e la barbarie.

A sentire la malnata genia dei gaudenti e dei pagnottisti, dei servi e degli scherani, l’anarchia è una concezione barbara che ci farebbe ripiombare nel più tenebroso e torbido medio evo, e gli anarchici non sono altro se non dei barbari.

Barbari? Quali barbari? Non certo quelli compresi nella "barbarie della riflessione vile e insidiosa", di cui parla il Vico. I masnadieri di tal genere bisogna cercarli nella borghesia dei generali Pélissier, Cooper, Sheridan, Kitchener, Caneva, Ludendorff; bisogna cercarli tra le devastazioni e le stragi di Dheli, di Lovanio e di Reims, nelle battaglie della guerra di Secessione, nelle grotte dell’Algeria, nei campi di concentramento del Transvaal, nella Piazza del Pane di Tripoli. Se invece si tratta della barbarie "eroica" della gens nova, oh! allora sì, noi siamo barbari, e in questo caso tutto ciò ch'è barbaro è grande.

Noi siamo la nova gente, che, giovane, libera e forte d’animo, di mente, di corpo, si leva e marcia alla conquista del mondo.

Siamo i Franchi, gli Eruli, i Rugi, i Goti, i quali, sì come la nuova alba li chiama, calano al pari di un’immensa irrefrenabile onda procellosa per ispazzar via la putredine del basso impero borghese.

Siamo i nuovi Saraceni, usciti fuori come il simùn dai deserti afosi, per dare l’assalto all'alcove persiane e ai circhi equestri di Bisanzio.

Siamo i Vikinghi, che, rotto il cerchio dei fiordi ghiacciati, passano i mari in cerca di tempii per celebrarvi la messa delle lance.

Siamo gli Unni, i Mongoli, i Tatari che, dove corrono, del passato non lasciano più alcun vestigio e portano i loro destini sulla punta d’una spada e sul dorso d’un cavallo.

Siamo i novelli cavalieri, schierati senza tregua in battaglia contro tutto e contro tutti.

L’irrompere d’una gente nuova e d’una nuova idea è simile allo straripare d’un gran fiume: lì per lì sembra che esso faccia il deserto, abbattendo e coprendo tutta quanta la vecchia vegetazione esausta, isterilita, tarlata, fradicia; ma poi al ritirarsi delle acque e al sopravvenire della primavera novella si vede una vegetazione più fresca, più rigogliosa, più bella, più forte rinascere dal limo fecondatore deposto sui campi ringiovaniti.

Sennonché questa volta i barbari non verranno da plaghe lontane, non varcheranno mari e frontiere: essi sbucheranno di sotto ai nostri piedi. I deserti, le steppe, le foreste, i fiordi in cui essi si annidano oggi si chiamano tugurii, capanne, officine, campi, navi, in ogni angolo della terra, dovunque vi sono oppressi ed oppressori, gaudenti e diseredati.

Non meno di una nuova opera di barbari più universale, più terribile, più implacabile ci vuole per rinnovare questa società, che da un capo all’altro del mondo sembra l’insieme di tutte quante le bolge dantesche. Una società in cui ogni cosa, dal cibo al vestito, dalla casa alla bottega, dal tribunale alla scuola, dall’ospedale all’officina, dalla piazza al campo, dalla scienza all’arte, è volgare, convenzionale, falsa, abietta, corrotta, deleteria. Una società nella quale tutto, dal vivere al pensare, dal vegliare al dormire, dall’amare al parlare, è una perpetua ignobile menzogna, un succedersi ininterrotto d'infamie e d'ignominie, d'inganni e d'ipocrisie, d'iniquità e di dolori.

Un uomo con intelletto e animo veramente ribelli. uno che comprenda e senta le nuove idee di rivendicazione sociale, per quanto abbia la voglia e la volontà di mostrarsi remissivo e mite, per quanto si proponga di diventare civile (sic) e conciliante, non riuscirà mai ad adattarsi ad una concezione fiacca, legale, rassegnata dell’esistenza. Gli spettacoli mostruosi che di continuo si svolgono sotto i suoi occhi irresistibilmente lo spingeranno verso l’anarchismo; poiché, al dire d’uno scrittore borghese non sospetto, l’anarchismo è la "unica forma eroica della scienza e della vita moderna"; esso solo dà una concezione poderosamente integrale delle umane attività e degli umani bisogni; esso solo può offrire sana, potente e nuova ispirazione all’arte. Solo l'anarchismo è rimasto a rappresentare il divenire delle folle nella rivoluzione e colla rivoluzione, e le libere e forti manifestazioni dell’individualità umana. Il resto è armeggio di cavalieri d’industria, impostura di politicanti, ripiego d’istrioni, accomodamento di schiavi, esercitazione di bizantini, vaneggiamento di rammolliti.

Mentre tutti gli altri uomini e partiti volgono al tramonto per confondersi coi ruderi del passato, l’idea anarchica si affaccia all’oriente, come l’aurora grandeggiante dell’inno vedico, che sembra divori il mondo nell'atto che lo illumina. E si affaccia sola come il leone.

Noi anarchici, soldati di quell'idea, non vogliamo compromessi di nessun genere, non vie traverse, non alleanze equivoche, non connubii ibridi, non aiuti di consorti, non ripieghi di cialtroni. Scendiamo in campo da soli senza contarci e senza contare i nemici, senz’altra forza che non sia la nostra.

O con noi o contro di noi.

Le eccezioni dei farabutti, dei cerretani e dei delinquenti non contano. Quale idea, quale partito non ne hanno avuto? Noi forse molto meno degli altri. Anche gli anarchici sono uomini e perciò soggiacciono anch’essi agli effetti deleterii dell’ambiente in cui vivono. È anzi un miracolo di resistenza, unico nella storia e dovuto alla grandezza e alla potenza dell’idea, se, dopo infinite persecuzioni, indicibili miserie, allettamenti senza numero e interdizioni d’ogni specie, non sono caduti tutti nel fango.

Checché altri ne pensi, noi non conosciamo crisi. Possono, sì, notarsi degli abbattimenti, delle degenerazioni, degl'inquinamenti; possono esservi giorni di sconforto e periodi d'apatia; può lamentarsi qualche delirio passeggiero d'anarchismo uterino alla Rygier, d'ortodossia chiesastica, d'individualismo bisognista; ma si tratterà sempre di fenomeni transitorii, perché tutto ciò che sotto qualsiasi forma e nome potrebbe esser causa di cancrena e di morte, l’anarchismo presto o tardi lo rigetta. Non avendo palestre per farabutti, mangiatoie per arrivisti, baracconi per commedianti, chiesuole per preti, botteghe per merciaiuoli, non può rimanere a lungo avvelenato da elementi tossici. Caduto un momento, si rialza più forte e più temuto di prima.

Noi anarchici siamo pure pazzi, è vero; ma di quei pazzi cantati dal poeta:

O Colombina della ca' de' pazzi,
Metticci un po’ di sangue nelle vene
E falli tu saltar questi ragazzi,
Che sono savi più che non conviene.
Che se non era il pazzo di Caprera
Il Borbone sarebbe ancor dov'era;
Che se non era il pazzo d' Aspromonte
Non si direbbe Italia, ma Piemonte:
I savi sanno fare il conto tondo,
Ma sono i pazzi che hanno fatto il mondo.

Noi siamo disertori alla stessa guisa dei più grandi e onorati eroi nazionali della borghesia, che tutti, senza eccettuarne uno, da Santorre di Santarosa a Giuseppe Garibaldi, dai fratelli Bandiera a Enrico Cosenz e Guglielmo Oberdan furono arci-disertori,

Noi siamo traditori sullo stampo dei martiri del risorgimento, i quali dal primo all’ultimo, da Tito Speri a Cesare Battisti, da Mario Pagano a Nazario Sauro, oggi collocati giustamente sui patrii altari, furono tutti impiccati come traditori, coll’aggravante d’avere invocato l’aiuto d’uno stato straniero.

Noi non riconosciamo che una sola autorità: la scienza; non abbiamo che una sola legge: la forza dell’idea; non miriamo che ad un solo ed unico fine: alla rivoluzione sociale, e non deporremo mai le armi finché non avremo vinto.

Il poeta di Roma imperiale chiedeva al sole che nulla potesse vedere di più grande e di più bello della Città Eterna.

Alme Sol, curru nitido diem qui
Promis et celas aliusque et idem
Nasceris, possis nihil urbe Roma

Visere maius!

L’impero romano è finito, è finito per sempre, o proletarii, e noi sui suoi meravigliosi ruderi e sulle rovine degli altri imperi, che presto cadranno, chiediamo al sole che illumini un genere umano affratellato e una terra senza frontiere.

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