“L' histoire bataille”

Max Müller nelle Nuove letture sulla scienza del linguaggio, piacevoleggiando sulle fantasticherie di coloro i quali sostenevano che i costruttori della favella non fecero altro se non imitare i suoni degli animali e della natura (onomatopeia), e delle interiezioni, "come fuori cacciate, quasi contro lor voglia dai medesimi costruttori della favella", chiama quella teoria semplicista: "la teoria del Bau-uau e del Puh-puh".

Oggi noi ci troviamo di fronte ad una simile teoria nel campo della sociologia e della storia, che potremmo chiamare, sempre piacevoleggiando, "la teoria del Bumh-bamh e del Trich-trach"; teoria che fa consistere le rivoluzioni unicamente e semplicemente nei petardi, nelle schioppettate e nelle sciabolate

Già io in alcuni dei numeri unici passati ho ripetutamente accennato a questa strana, empirica e primitiva concezione della storia, che un argutissimo scrittore chiamò "l’histoire bataille"; quella storia che degli avvenimenti umani e sociali non rileva altro se non le imprese della lancia, del carro falcato, del fucile e del cannone, secondo i tempi e i luoghi.

E poiché siffatta teoria del "Trich-trach" con insistenza degna di miglior causa e con effetti più che mai deleterii per la propaganda continuamente fa capolino in qualche giornale anarchico, è bene tornarvi sopra, non fosse altro per non farci prendere tutti per imbecilli.

Che la borghesia e gli scribi venduti fingano di non accorgersi del turbine scatenatosi in mezzo a loro; che essi diano ad intendere che la questione sociale sia già risoluta con qualche tiro a segno dei loro scherani e colle gesta dei fascisti; che essi s’illudano o illudano gli altri di poter dormire perpetuamente in un letto di rose, è naturale, naturalissimo; ma che vi siano anarchici che ragionino con quella stessa filosofia della storia, sia pure a fin di bene, è enorme, grottesco addirittura.

Già l’anno scorso, proprio in pieno periodo rivoluzionario, un compagno di Firenze, riferendosi, su Il grido della rivolta a un celebre intermezzo di Michele Cervantes, non vedeva nulla né a fior di terra né a fior d’acqua, tranne le chiacchiere del cerretano, che mostra ai grulli il quadro delle meraviglie meravigliose. Ora su Umanità Nova (23 febbraio 1921) un altro consimile filosofo della storia, lamentando il mancato avvento della repubblica dopo i fatti di Ancona, scrive fra le tante castronerie:

"Quelli che dicono che noi siamo in periodo rivoluzionario, in questo momento hanno le traveggole ecc.".

Ma, neanche a farlo apposta, alla distanza di otto giorni precisi, cioè dopo i tumulti di Trieste, della Toscana e delle Puglie, lo stesso giornale annunziava:

"Le battaglie di questi giorni segnano una nuova tappa nel cammino rivoluzionario, tappa sanguinosa ed inevitabile: quella della guerra civile. Guerra civile, sanguinosa e tragica che non può terminare, anche se da opposte parti si domanda, ingenuamente o con finzione, la tregua".

Pare un vero giuoco di bussolotti. È o non è? Intanto a me sembra che il filosofo sopraccitato, più che le traveggole, abbia gli occhi foderati di prosciutto milanese e il cervello avvolto nei ragnateli che pendono dal culo di sant’Ambrogio.

Innanzi tutto che cosa s’intende per rivoluzione? Tutti gli storici e i sociologi sono d’accordo nel definirla suppergiù così: mutamento profondo in tutte le manifestazioni d’una data società, che va in rovina, per dar posto ad un nuovo assetto sociale, politico o religioso. Ogni grande rivolgimento comprende dunque diverse fasi più o meno lunghe, che vanno dalla diffusione irresistibile delle idee nuove allo sfacelo della società presente, dalla comprensione generale dei nuovi bisogni alla catastrofe finale dell’abbattimento delle forze nemiche. Anzi la vera rivoluzione va oltre questa catastrofe finale e comprende anche il periodo più o meno tumultuoso più o meno contrastato dell’assettamento posteriore.

Se così è, bisogna proprio essere un arcade o un bizantino per non accorgersi che siamo in piena rivoluzione non solo, ma anche in piena guerra civile. Se ne avvede e lo sente la stessa borghesia che lo confessa a denti stretti; se ne è avvisto anche il massimo storico borghese vivente, Guglielmo Ferrero. il quale due anni addietro pubblicò quel giudizio che tutti sanno.

Sennonché alcuni, senza badare al resto, appena odono fucilate proletarie gridano esultanti: "Ci siamo: è la rivoluzione!". Quando poi sentono scroscio di manette e fucilate sbirresche esclamano sconfortati: "Non vediamo nulla, tranne che la reazione imperversante!".

Ma questa è proprio la teoria del "Bumh-bamh" e del ''Trich-trach".

No, compagni miei: è stato detto e ripetuto che la rivoluzione non è una partita a scacchi che dura tutt'al più un giorno; non è un musicone che si protrae solo pel volgere d’un carnevale: non è un’impresa da secchia rapita. La rivoluzione è tragedia e tragedia immane, senza le famose unità di tempo, di luogo e d’azione; tragedia, che come il dramma shakespeariano spesso comprende un intero periodo storico. La rivoluzione, come i grandi terremoti, non si effettua con una sola scossa, ma con un’infinità di sussulti e d'ondulazioni, che molto di frequente durano anni e anni.

Ogni grande rivoluzione ha avuto i suoi abbattimenti, i suoi delirii, le sue sconfitte, le sue controrivoluzioni più o meno prolungati. Ogni rivoluzione ha dovuto patire prima di trionfare gesta di fascisti, assalti di guardie regie, attacchi di nemici esterni ed interni; anzi può affermarsi alla stregua della storia più elementare che tutte le rivoluzioni, senza eccettuarne alcuna, nelle loro prime fasi specialmente, hanno corso innumerevoli pericoli, tradimenti, reazioni, repressioni feroci.

Quando Lutero apparve sulla scena, la rivoluzione della Riforma in sostanza era già cominciata da un pezzo tra le più sanguinose persecuzioni.

La bolla di Leone X sull'indulgenza plenaria (13 settembre 1517) non fu che la causa occasionale. Martin Lutero dopo l’editto di Worms dovette nascondersi per non essere bruciato vivo, e la Riforma non solo incontrò innumerevoli ostacoli, ma corse per parecchi anni sì gravi pericoli che alla sanguinosa battaglia di Mühlberg parve soffocata per sempre dalle armi irresistibili di Carlo V. Lo stesso può dirsi della rivoluzione francese, della rivoluzione americana, della guerra di Secessione, della rivoluzione giapponese, della rivoluzione italiana e ultimamente della rivoluzione russa. Abbiamo forse dimenticato che Lenin e compagni per non essere fucilati dovettero fuggire e nascondersi? Altro che l’arresto di Malatesta!

Non devono dunque impressionarci affatto le imprese dei fascisti, le gesta degli scherani, le apparenti vittorie della reazione, le repressioni e le persecuzioni, che sono comuni, anzi naturali e fatali in ogni rivoluzione. La rivoluzione sociale trionferà perché è nei fati e nei fatti, e principalmente perché la società borghese è in tale sfacelo materiale, morale e intellettuale che nessuna forza umana varrà più a salvarla. La paralisi progressiva all’ultimo stadio non s’è mai curata, e non guarisce nemmeno un corpo invaso in tutte le sue parti dalla cancrena.

Ma non è di questo ch’io voglio oggi più specialmente parlare. Troppo spesso si ode imprecare alla viltà del proletariato che non fa la rivoluzione, alla codardia dei lavoratori che non si muovono; e ancora più spesso si urla contro il partitone del pus e contro i pompieri che, non solo non fanno nulla, ma che per giunta tradiscono.

Certo neppur io sono tenero della folla, che, al dire del Guerrazzi, partecipa assai le qualità del carbone: massa incomoda e sordida se spento; luminosa e ardente se acceso: ma nel caso nostro è tempo di finire d’imprecare; perché quando quel carbone si è fulmineamente acceso per virtù propria in molte occasioni (arrivo di Errico Malatesta, tumulti del caro vivere, occupazione delle terre e delle fabbriche, sollevazione di Ancona, ecc.), nessuno corse ad alimentare quel fuoco come si doveva, neppure gli anarchici. Talmenteché il proletariato potrebbe risponderci con maggior ragione: "Chi di voi non ha peccato scagli la prima pietra".

Un vecchio, colto e provato compagno residente all’estero da molti anni mi scriveva giorni or sono:

"La guerra aveva creato una situazione rivoluzionaria magnifica, ma nessuno ha saputo approfittarne, gli anarchici compresi. Non abbiamo avuto fiducia nelle nostre forze; abbiamo sperato troppo dai socialisti, i quali, e fu tradizione e fu dottrina, non prenderanno mai l’iniziativa. Forse ci avrebbero seguiti se noi avessimo dato l’esempio, quando non vi fosse stata altra alternativa che bere o affogare. Abbiamo anche noi avuto preoccupazioni contingentali ecc. ecc.".

Tutte sacrosante verità.

Aprite, per esempio, Umanità Nova, e dal primo all’ultimo numero, dalla prima all’ultima colonna non vedrete che sempre lo stesso ritornello, il quale si ripete come il mulino di preghiere dei bonzi buddhisti del Tibet e della Mongolia: "Noi non siamo che una minoranza. – Le grandi masse sono col socialismo. – Il partitone avrebbe dovuto muoversi. – Il partitone avrebbe dovuto fare ecc.".

Si è arrivati al punto, pare incredibile, come quel filosofo della storia delle traveggole soprannominato, di aspettare a bocca aperta e a braccia incrociate che i socialisti si degnassero di proclamare la repubblica dopo i fatti d’Ancona! (Umanità Nova, 23 febbraio 1921). Ed ora che l’incanto della possanza taumaturgica del pus è svanito sotto i colpi di poche centinaia di fascisti non mancano quelli che si rivolgono colla stessa compunzione fratesca e colla stessa fede musulmana al partito comunista del Bombacci, del Caroti e del Bordiga. Sentite che cosa si legge nel Cavatore di Carrara (5 febbraio 1921):

"Il Fellini termina applauditissimo (la sua relazione al Congresso camerale dei 30 e 31 gennaio), mandando un saluto al Partito Comunista augurandosi che sappia organizzare la rivoluzione liberatrice e al suo fianco sarà il proletariato della rossa Apuania già inscritto nella III Internazionale di Mosca. La relazione viene approvata ad unanimità senza discussione". (Anche da tutti i babbei sedicenti anarchici presenti).

Ora questa propaganda idiota e nefasta ebbe per effetto di creare alcune perniciosissime illusioni:

1) che la forza del socialismo pagnottificato era irresistibile;

2) che nulla era possibile senza gli ordini e l’accompagnamento del pus cadaverico;

3) che gli anarchici di per sè stessi erano impotenti;

4) che per muoversi, fiatare o semplicemente starnutire bisognava aspettare gli ordini o dalla direzione suprema del ciuccialismo, o dalla barba d'un Bombacci, o dalle brache di Sant’Ambrogio, o da altro di simile.

Anche Errico Malatesta disgraziatamente è rimasto vittima senza volerlo di siffatta propaganda, che ci ha fatto più male di tutti i fascisti e le guardie regie di questo mondo.

Innanzi tutto non è vero affatto che le grandi masse siano col socialismo. Le folle, da qualche eccezione in fuori, sempre e in ogni luogo sono state, sono e saranno amorfe: massa incomoda e sordida come il carbone, che si accende in certe occasioni e che per riuscire utile ha bisogno di chi lo sappia prendere e gettarlo nel forno della macchina.

Non è vero che il socialismo sia stato una gran forza, essendo bastato un pugno di fascisti girovaghi per annientarlo in pochi giorni.

Non è vero che il proletariato sia invigliacchito e istupidito, perché si vede che sempre alla prima occasione esso risponde, e come!

Certi filosofi storici e sociologi dovrebbero poi sapere fin dalle scuole elementari che tutte le rivoluzioni, senza eccettuarne una sola, sono state alimentate, promosse e compiute da minoranze, spesso infime minoranze, audaci e ben preparate; quando, si capisce, l’ambiente lo comporta.

Tocca ora a noi anarchici cambiare rotta e far da noi, ponendoci alla testa del movimento rivoluzionario senz'attendere né gli ordini, né il lasciapassare, né le alleanze di chicchessia, se non vogliamo far la fine del pus.

La rivoluzione è anche nell’aria che si respira, la rivoluzione oramai è entrata nella coscienza di tutto il proletariato, e se la reazione potrà riuscire in qualche modo a ritardarla, non riuscirà mai a fermarla e molto meno a soffocarla; purché, s’intende, non si continui coi mulini di preghiere dei bonzi buddhisti.

Il bandito delle Madonie

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