§ 15.

Ora, se noi con la nostra fede che l'intuizione sia la fonte prima d'ogni evidenza, e sola assoluta verità sia la diretta o mediata relazione con lei; che inoltre la via più sicura per giungere alla verità sia sempre la più breve, perché ogni frapposizione di concetti può esser causa di inganni – se noi, dico, con questa fede ci volgiamo alla matematica, quale è stata eretta a scienza da Euclide e rimasta in complesso fino al giorno d'oggi, non possiamo fare a meno di giudicar singolare, anzi assurda, la via che questa percorre. Noi pretendiamo che ogni argomentazione logica sia ricondotta ad un'intuizione; la matematica invece si sforza a gran fatica di rigettare temerariamente l'evidenza intuitiva che le è propria e le sta sempre a portata di mano, per sostituire un'evidenza logica. Questo a noi fa l'effetto di qualcuno che si tagli le gambe, per camminare con le grucce; o del principe che nel «Trionfo della sensibilità» rifugge dalla vera, bella natura, per compiacersi d'una decorazione teatrale che la imita. Devo qui richiamare quel che ho detto nel sesto capitolo della memoria sopra il principio di ragione, e che suppongo fresco nella memoria al lettore e ben presente, sì da potervi riannodare le mie osservazioni senza spiegar daccapo il divario tra il semplice principio di conoscenza di una verità matematica, che può esser dato logicamente, e il principio dell'essere, che è la connessione diretta, conoscibile solo intuitivamente, delle parti dello spazio e del tempo. Solo il penetrare in questa dà vero appagamento e piena conoscenza; mentre il semplice principio di conoscenza rimane sempre alla superficie, facendoci sapere che qualcosa è così, ma non perché è così. Euclide ha seguito questa seconda via, con palese svantaggio della scienza. Imperocché, ad esempio, fin dal principio, dove dovrebbe dimostrare una volta per sempre che nel triangolo angoli e lati si determinano a vicenda, e sono reciprocamente causa ed effetto gli uni degli altri, secondo la forma che ha il principio di ragione nello spazio puro e che produce quivi, come ovunque, la necessità che una cosa sia così com'è, perché un'altra, da quella affatto diversa, è così com'è – invece di rivelare in questo modo a fondo l'essenza del triangolo, stabilisce alcune proposizioni frammentarie sul triangolo, scelte a suo modo, e ne dà un principio logico di conoscenza con una dimostrazione faticosa, logica, condotta secondo il principio di contraddizione. Da ciò, invece d'una conoscenza a fondo di codeste relazioni spaziali, si vengono ad avere solo alcune risultanze di quelle, comunicate ad arbitrio; e ci si trova nelle condizioni di colui al quale si mostrino le differenti operazioni d'una macchina, ma tacendone la costituzione interna ed il funzionamento. Che tutto sia come Euclide dimostra, bisogna concedere, costretti dal principio di contraddizione: ma perché sia così, non si apprende. Si ha quindi press'a poco la stessa impressione spiacevole che ci lascia un giuoco di destrezza; e in verità a questi somigliano in massima parte le dimostrazioni euclidee. Quasi sempre la verità irrompe da una porticina secondaria, risultando per accidens da qualche circostanza accessoria. Sovente una dimostrazione apagogica chiude tutte le porte, l'una dopo l'altra, e ne lascia aperta una sola, nella quale s'ha quindi da entrare per forza. Spesso, come accade nel teorema di Pitagora, vengono tirate certe linee senza che si sappia perché: dipoi si apprende che erano lacciuoli destinati a stringersi all'improvviso, per imprigionar l'assenso del discepolo: il quale ora, stupito, deve accettare un fatto che gli rimane ancora del tutto incomprensibile nel suo intimo nesso. Tanto incomprensibile, ch'egli deve studiare Euclide da capo a fondo senza potersi render davvero conto delle leggi delle relazioni spaziali, e imparandone invece a memoria appena pochi risultati. Questa conoscenza, empirica e non scientifica, somiglia a quella del medico, il quale conosce bensì malattia e rimedio, ma non la connessione d'entrambi. Tutto ciò è prodotto dal respinger capricciosamente il modo di dimostrazione e l'evidenza propri d'un genere di conoscenza, introducendo invece per forza un metodo eterogeneo. Nondimeno la maniera in ciò adoperata da Euclide merita tutta l'ammirazione, che per secoli le è stata tributata, e che è giunta tant'oltre da farla proclamare il prototipo d'ogni dimostrazione scientifica, sul quale si cercò di modellare tutte le altre scienze. Più tardi s'è cambiata opinione, senza saper bene perché. Ai nostri occhi tuttavia quel metodo euclideo nella matematica apparisce non altrimenti che una brillantissima stortura. Ma di ogni grande aberrazione, seguita con proposito e con metodo, sia che tocchi la vita o la scienza, si troverà sempre il principio nella filosofia corrente al suo tempo. Gli Eleatici furono i primi a scoprire il divario, anzi il frequente contrasto, fra l'intuito, φαινομενον, e il pensato, νοουμενον , e se ne servirono variamente pei loro filosofemi, ed anche per sofismi. A loro tennero dietro poi Megarici, Dialettici, Sofisti, Neoaccademici e Scettici; questi attirarono l'attenzione sull'apparenza, ossia sull'illusione dei sensi, o piuttosto dell'intelletto, che i loro dati trasforma in intuizione; la quale illusione ci fa spesso veder cose di cui la ragione con certezza nega la realtà, per esempio il bastone spezzato nell'acqua e così via. Si comprese che non c'è da fidarsi incondizionatamente dell'intuizione sensibile, e con troppa fretta si concluse che soltanto il razionale, logico pensiero fosse fondamento di verità; sebbene Platone (nel Parmenide ) , i Megarici, Pirrone e i Neoaccademici dimostrassero con esempi (come fece più tardi Sesto Empirico), come d'altra parte anche sillogismi e concetti inducano in errore, generando paralogismi e sofismi molto più facili a sorgere e più difficili a disperdere che non sia l'illusione nell'intuizione sensibile. Frattanto, adunque, quel razionalismo, sorto in opposizione all'empirismo, mantenne il sopravvento, e sulle sue tracce elaborò Euclide la matematica: poggiando per necessità sull'evidenza intuitiva (φαινομενον) i soli assiomi, e tutto il resto su illazioni (νοουμενον). Il suo metodo rimase a dominare per tutti i secoli, e così doveva essere, fin quando l'intuizione pura a priori non venne distinta dall'intuizione empirica. È vero che già Proclo, commentatore d'Euclide, sembra aver conosciuto appieno quella distinzione, come dimostra il passo di lui tradotto in latino da Keplero nel suo libro de harmonia mundi: ma Proclo non diede abbastanza peso alla cosa, la presentò troppo isolatamente, rimase inosservato e non ebbe successo. Quindi solo due secoli dopo, la dottrina di Kant, cui tocca in sorte di produrre così grandi trasformazioni in tutto il sapere, il pensiero e l'azione dei popoli europei, provocherà la stessa trasformazione anche nella matematica. Poiché soltanto dopo aver appreso da questo grande spirito che le intuizioni dello spazio e del tempo sono affatto diverse dalle intuizioni empiriche, affatto indipendenti da ogni impressione dei sensi, essendo essi condizione dell'impressione e non viceversa; che sono in altri termini a priori, e quindi inaccessibili all'illusione dei sensi – soltanto ora possiamo comprendere, che la trattazione euclidea della matematica fondata sulla logica è una provvidenza inutile, una gruccia per gambe sane. E rassomiglia ad un pellegrino, che, scambiando per acqua nella notte una bella strada chiara, si guardi dal posarvi il piede, e la vada fiancheggiando sul terreno disuguale, contento d'imbattersi di tanto in tanto nell'acqua supposta. Ora soltanto possiamo con certezza affermare, che quando ci si rivela necessario nell'intuizione di una figura non viene dalla figura stessa, disegnata forse molto male sulla carta, e nemmeno dal concetto astratto che noi ce ne facciamo, bensì direttamente dalla forma d'ogni conoscenza, forma di cui siam consci a priori. Questa è, in tutto, il principio di ragione. Qui essa come forma dell'intuizione, ossia spazio, è principio di ragione dell'essere; la cui evidenza e validità è altrettanto grande ed immediata come quella del principio di ragione di conoscenza, ossia della certezza logica. Non abbiamo dunque bisogno né dobbiamo, per creder solo alla logica, abbandonare il dominio proprio della matematica, venendo a dimostrare questa sopra un dominio che le è affatto estraneo – quello dei concetti. Se ci teniamo sul terreno proprio della matematica, ne ricaviamo il grande vantaggio, che quivi il sapere che qualcosa sta in un certo modo, è tutt'uno col sapere perché sta così. Mentre invece il metodo euclideo separa nettamente questi due termini, e fa conoscere solo il primo, non il secondo. Ma, dice ottimamente Aristotele negli Analyt. post. I , 27: Ακριβεστερα δ’επιστημη επιστημης και προτερα ἡτε του τι και του διοτι ἡ αυτη, αλλα μη χωρις του τι, της του διοτι(Subtilior autem et praestantior ea est scientia, qua quod aliquis sit, et cur sit una simulque intelligimus, non separatim quod, et cur sit). In fisica siamo pur soddisfatti sol quando la conoscenza che qualcosa è in un certo modo, si congiunge con quella del perché è così. Che il mercurio del tubo torricelliano s'alzi a 28 pollici, è un povero sapere, se non si aggiunge che vien trattenuto a quel limite dal contrappeso dell'aria. Ma ci dovrà bastare in matematica quella qualitas occulta del circolo, per cui i segmenti d'ogni due corde intersecantisi in esso formano sempre rettangoli uguali? Che sia così, dimostra invero Euclide nella 35 a proposizione del terzo libro: il perché sta ancora nell'ombra. Nello stesso modo c'insegna il teorema di Pitagora a conoscere una qualitas occulta del triangolo rettangolo; ma la dimostrazione zoppicante, anzi insidiosa di Euclide ci lascia senza il perché; e la semplice figura che qui segue, già nota, ci fa in un solo sguardo veder la cosa molto più addentro che non faccia quella dimostrazione; e ci dà la intima, ferma persuasione di quella necessità, e della dipendenza di quella proprietà dell'angolo retto.

Anche se i cateti sono disuguali, si deve pervenire a codesta convinzione intuitiva, e così nel caso di tutte le verità geometriche possibili: anche solo per questo, che la loro scoperta derivò sempre da una consimile necessità d'intuizione, e la dimostrazione ne fu pensata soltanto in seguito. Basta dunque un'analisi del processo mentale nella prima scoperta d'una verità geometrica, per conoscere intuitivamente la sua necessità. Il metodo, che in genere io preferisco per l'esposizione della matematica, è l'analitico, e non il metodo sintetico che ha usato Euclide. È vero tuttavia che, quando si tratta di verità matematiche complicate, quello offre grandi difficoltà: ma non insuperabili. Già si comincia qua e là in Germania a modificare l'esposizione della matematica, seguendo più spesso questa via analitica. L'ha fatto più risolutamente il signor Kosack, insegnante di matematica e fisica nel ginnasio di Nordhausen, nell'accompagnare il programma d'esame del 6 aprile 1852 con un diffuso tentativo di trattazione geometrica secondo i miei principi.

Per migliorare il metodo della matematica, si richiede soprattutto di rinunziare al pregiudizio che la verità dimostrata abbia una qualsivoglia preminenza sulla verità conosciuta intuitivamente: o che la verità logica, fondata sul principio di contraddizione, prevalga sulla verità metafisica, la quale è di evidenza diretta, ed a cui appartiene anche l'intuizione pura dello spazio.

Quel che c'è di più certo, né mai può essere spiegato, è il contenuto del principio di ragione. Imperocché questo, nei suoi vari atteggiamenti, esprime la forma universale di tutte le nostre rappresentazioni e conoscenze. Ciascuna spiegazione è un risalire a codesto principio; un constatare nel caso singolo il nesso delle rappresentazioni, che quello esprime in genere. Esso è quindi il principio d'ogni spiegazione, e perciò non può avere spiegazione alla sua volta, né di spiegazioni ha bisogno: poi che ciascuna spiegazione lo presuppone, e solo per suo mezzo acquista un senso. Ma nessuna delle sue manifestazioni ha preminenza sulle altre: esso è a un modo certo e indimostrabile in qualità di principio dell'essere, o del divenire, o dell'agire, e del conoscere. Nell'una come nell'altra delle sue forme, è sempre necessaria la relazione di causa ed effetto; anzi è questa l'origine, nonché l'unico significato, del concetto di necessità. Non c'è altra necessità che quella dell'effetto, allorché è data la causa; e non v'ha causa che non generi la necessità dell'effetto. Con la stessa certezza con cui dal principio di conoscenza, dato nelle premesse, deriva la conseguenza espressa nella proposizione finale, determina il principio d'essere nello spazio la sua conseguenza nello spazio: e quando ho conosciuto intuitivamente quest'ultima relazione, ho una certezza altrettanto grande quanto una certezza logica. Ma qualsiasi teorema geometrico esprime una tal relazione egualmente bene, come un de' dodici assiomi: perché è una verità metafisica, e come tale immediatamente certo, al modo stesso del principio di contraddizione, il quale è una verità metalogica e serve di base universale a tutte le dimostrazioni logiche. Chi nega la necessità intuitivamente manifestata delle relazioni spaziali espresse in un qualsiasi teorema, può con lo stesso diritto negare gli assiomi, e con lo stesso diritto la derivazione della conclusione dalle premesse, o addirittura il principio di contraddizione: perché in tutto ciò sono egualmente relazioni indimostrabili, d'immediata evidenza, e conoscibili a priori. Se quindi la necessità delle relazioni spaziali, conoscibile intuitivamente, si vuol derivare attraverso una dimostrazione logica dal principio di contraddizione, gli è come se al diretto signore d'una terra volesse un altro conceder la stessa terra in feudo. E proprio questo ha fatto Euclide. Soltanto i suoi assiomi egli fa per forza poggiare sull'immediata evidenza: tutte le verità geometriche, che ne derivano, vengono dimostrate logicamente, ossia con la premessa di quegli assiomi, mediante l'accordo con le ipotesi fatte nel teorema, o con un teorema precedente; o anche mediante la contraddizione dell'opposto del teorema con le ipotesi, gli assiomi, i teoremi precedenti, o addirittura con se stesso. Ma gli assiomi stessi non hanno evidenza diretta maggiore d'ogni altro teorema geometrico, bensì soltanto maggiore semplicità a causa del minor contenuto.

Se si interroga un delinquente, si stende un verbale delle sue dichiarazioni, per giudicarne la verità dalla loro concordanza. Ma questo è un semplice espediente, del quale certo non ci si appagherebbe, se si potesse indagare a parte la verità di ciascuna delle sue dichiarazioni: tanto più ch'egli potrebbe mentire con conseguenza dal principio alla fine. Eppure è proprio con quel primo metodo, che Euclide ha indagato lo spazio. È vero ch'egli partì in ciò dalla giusta premessa che la natura dappertutto – e quindi anche nella sua forma principale, lo spazio – dev'esser conseguente, e quindi – perché le parti dello spazio stanno reciprocamente in relazione di causa ed effetto – neppure una determinazione spaziale può esser diversa da quel che è, senza trovarsi in contraddizione con tutte le altre. Ma questo è un deviar dalla via diritta, molesto e poco soddisfacente; che preferisce la conoscenza mediata a quella – altrettanto certa – immediata; e con danno grave della scienza separa la cognizione che qualcosa esista, da quella del perché esista. E, infine, impedisce del tutto al discepolo la penetrazione nelle leggi dello spazio, anzi, lo distoglie dalla vera e propria indagine del fondamento e dell'intimo nesso delle cose, avviandolo invece a contentarsi d'un sapere storico, che la cosa stia in un certo modo. L'esercizio d'acume mentale, tanto incessantemente vantato in questo metodo, consiste solo in ciò, che lo scolaro si esercita a sillogizzare, ossia a usare il principio di contraddizione; ma soprattutto affatica la propria memoria, per ritenere quei dati dei quali deve giudicare l'accordo.

Va notato inoltre, che questo metodo dimostrativo è stato applicato soltanto alla geometria e non all'aritmetica. In questa effettivamente la verità si lascia svelare dalla sola intuizione, che qui consiste nel puro contare. Poi che l'intuizione dei numeri è nel tempo solamente, e non può quindi venir rappresentata da uno schema sensibile, come la figura geometrica, non si ebbe qui il sospetto che l'intuizione fosse solo empirica e quindi soggetta all'illusione; sospetto che soltanto il metodo della dimostrazione logica ha potuto introdurre nella geometria. Il contare è – poi che il tempo ha una sola dimensione – l'unica operazione aritmetica, alla quale sono da ricondurre tutte le altre: e questo contare non è tuttavia altro, che un'intuizione a priori, alla quale ci si richiama qui senz'alcuna riluttanza; e per suo mezzo viene da ultimo confermato tutto il resto, ogni equazione, ogni calcolo. Non si dimostra, per esempio, che ; ma ci si riferisce alla pura intuizione nel tempo, al contare. Ogni singola proposizione diventa dunque un assioma. Invece delle dimostrazioni che riempiono la geometria, tutto il contenuto dell'aritmetica e dell'algebra è quindi un semplice metodo per abbreviare il conto. La nostra intuizione immediata dei numeri nel tempo non arriva, come fu detto, più in là del dieci all'incirca: più oltre deve già un concetto astratto del numero, fissato mediante una parola, fare le veci dell'intuizione; la quale perciò non è più effettivamente attuata, ma soltanto indicata con tutta determinatezza. Tuttavia anche così, col valido aiuto dell'ordine dei numeri, che fa sempre rappresentare i numeri grandi per mezzo dei piccoli, è resa possibile un'evidenza intuitiva d'ogni calcolo; perfino là dove si ricorre tanto all'astrazione, che non solo i numeri ma anche indeterminate quantità ed intere operazioni sono pensate unicamente in abstracto, e in cotal forma espresse; come ad esempio [ ]; sì che non si eseguono, ma vengono appena accennate.

Con lo stesso diritto e la stessa certezza, come nell'aritmetica, si potrebbe anche nella geometria lasciar la verità fondata soltanto sulla pura intuizione a priori. In verità è pur sempre questa necessità conosciuta intuitivamente, secondo il principio di ragione dell'essere, che dà alla geometria la sua grande evidenza, e su cui poggia nella coscienza d'ognuno la certezza delle sue proposizioni: e non è di certo la prova logica, avanzante faticosamente sui trampoli. Questa, estranea sempre al vivo della cosa, il più sovente vien subito dimenticata senza danno della persuasione, e potrebbe essere eliminata del tutto, senza che ne fosse diminuita l'evidenza della geometria, essendo questa affatto indipendente dalla prova logica; la quale dimostra soltanto ciò di cui già si ha piena certezza mediante un altro modo di conoscenza. Somiglia sotto questo rispetto ad un soldato, che vibrasse un colpo al nemico già ucciso da altri e si vantasse d'averlo abbattuto .

In seguito a tutto ciò, spero non vi sia più alcun dubbio sul fatto che l'evidenza della matematica, la quale è diventata modello e simbolo d'ogni evidenza, per propria natura non poggia su dimostrazioni, bensì sull'immediata intuizione: e questa in matematica come dappertutto è base, è la prima base e la sorgente d'ogni verità. Tuttavia l'intuizione che sta a fondamento della matematica ha un gran privilegio su ciascun'altra, quindi anche sull'intuizione empirica. Ossia, ella è a priori, e perciò indipendente dall'esperienza, che vien data sempre soltanto in modo frammentario e successivo: tutto è vicino egualmente, e si può a volontà partir dalla causa o dall'effetto. Ora, questo le dà una piena infallibilità, per il fatto che in lei l'effetto viene conosciuto dalla causa, la qual conoscenza è la sola ad aver necessità: per esempio l'eguaglianza dei lati vien conosciuta come fondata sull'eguaglianza degli angoli. All'opposto, ogni intuizione empirica e la maggior parte di tutta l'esperienza procede invece dall'effetto alla causa – modo di conoscere non infallibile, perché la necessità appartiene solo all'effetto quando è data la causa, e non alla conoscenza della causa dall'effetto; potendo questo effetto provenire da cause differenti. Quest'ultimo modo di conoscenza non è altro che induzione: ossia movendo da molti effetti, che fanno capo ad una causa, viene ammessa la causa come certa. Ma poiché i casi non possono mai esser raccolti tutti, la verità non è qui mai assolutamente certa. Eppur questo è il solo genere di verità che appartenga alla conoscenza raggiunta mediante intuizione sensibile, ed alla massima parte dell'esperienza. L'impressione d'un senso provoca un passar dell'intelletto dall'effetto alla causa: ma poi che il passaggio dal causato alla causa non è mai sicuro, sempre rimane possibile e si ha sovente una falsa apparenza, come inganno dei sensi; secondo è sopra dimostrato. Solo quando più sensi, o tutti e cinque, ricevono impressioni che fan capo alla stessa causa, solo allora diventa minima la possibilità dell'inganno, per quanto ancor sussista; poi che in taluni casi, per esempio con monete false, s'ingannano tutti quanti i sensi. Nella stessa condizione si trova tutta la conoscenza empirica, e quindi l'intera scienza della natura, lasciandone fuori la parte pura (o metafisica, secondo Kant). Anche qui le cause vengono conosciute attraverso gli effetti: quindi ogni dottrina naturale è fondata su ipotesi, che spesso son false, e solo a poco a poco cedono il posto a dottrine più esatte. Solo negli esperimenti disposti con un dato proposito la conoscenza va dalla causa all'effetto, seguendo la via sicura: ma anch'essi sono dapprima intrapresi in conseguenza di ipotesi. Perciò non poteva nessun ramo della scienza naturale, come fisica, o astronomia, o fisiologia, essere scoperto d'un tratto, come furono matematica e logica: bensì fu ed è necessaria l'esperienza comparata di molti secoli. Solo una molteplice conferma empirica porta l'induzione – su cui poggia l'ipotesi – tanto vicina alla compiutezza, che questa per la pratica prende il posto della certezza. Ed alla ipotesi reca la propria origine così poco danno, quanto ne reca all'applicazione della geometria l'incommensurabilità delle linee rette e curve, o all'aritmetica l'impossibilità di raggiunger l'assoluta esattezza del logaritmo. Imperocché come la quadratura del cerchio e il logaritmo si possono accostare all'esattezza fino ad esserne separati da una distanza infinitesimale, così l'induzione, ossia conoscenza della causa dall'effetto, mediante molteplici esperienze viene accostata all'evidenza matematica, per modo che ne la divida una distanza non proprio infinitesimale, ma tuttavia minima; sì che la possibilità dell'errore si riduca tanto da poterla trascurare. Ciò nondimeno, tale possibilità sussiste: ad esempio, quando da innumerevoli casi l'induzione conclude per tutti i casi, ossia precisamente per la causa ignota, da cui tutti dipendono. Quale fra le conclusioni di tal sorta ci appare più sicura di questa, che tutti gli uomini hanno il cuore a sinistra? Tuttavia ci sono, come rarissime, isolate eccezioni, uomini che hanno il cuore a destra. Intuizione sensibile e scienza sperimentale hanno dunque la stessa maniera d'evidenza. Il privilegio che matematica, scienza naturale pura e logica in quanto conoscenza a priori hanno su di quelle, consiste solo in ciò, che il lato formale delle conoscenze, sul quale ogni apriorità si fonda, è dato per intero e tutto in una volta, e quindi si può qui sempre passare dalla causa all'effetto, mentre là si passa generalmente dall'effetto alla causa. In sé d'altronde la legge di causalità, o principio di ragione del divenire, che guida la conoscenza empirica, è tanto certa, quanto quelle altre forme del principio di ragione, cui seguono le citate scienze a priori. Dimostrazioni logiche dedotte da concetti, o sillogismi, hanno, nello stesso modo come la conoscenza per intuizione a priori, il privilegio di passar dalla causa all'effetto: per la qual cosa essi sono in se stessi, ossia rispetto alla lor forma, infallibili. Questo ha molto contribuito a procacciar tanto rispetto alle dimostrazioni. Ma codesta loro infallibilità è relativa: essi non fanno che sussumere sotto i principi superiori della scienza: ma son pur sempre questi, che contengono tutto il fondo di verità della scienza stessa, né si possono alla lor volta dimostrare: bensì devono fondarsi sull'intuizione, che se è pura in quelle poche scienze a priori citate, è invece sempre empirica altrove, e solo mediante induzione è stata elevata dal particolare al generale. Se adunque anche nelle scienze empiriche il singolo viene provato col generale, il generale alla sua volta ha ricevuto tutta la sua verità dal singolo. È un magazzino carico di provviste, non un suolo di per sé fecondo.

Questo basti intorno al fondamento della verità. Circa l'origine e la possibilità dell'errore, molte spiegazioni sono state tentate, a partir dalle soluzioni figurate di Platone, come quella della colombaia, dove invece del colombo desiderato se ne ghermisse un altro, e così via ( Theaetet., p. 167 sgg.). La vaga, indeterminata spiegazione dell'origine dell'errore fatta da Kant mediante l'immagine del moto diagonale si trova nella Critica della ragion pura, p. 294 della prima, e p. 350 della quinta edizione. Essendo la verità relazione d'un giudizio col suo principio di conoscenza, è un vero problema come avvenga che colui, il quale giudica, creda d'avere effettivamente codesto principio, mentre invece non l'ha; ossia, come sia possibile l'errore, l'inganno della ragione. Io trovo questa possibilità affatto analoga a quella dell'illusione, o inganno dell'intelletto, che più sopra è stata chiarita. La mia opinione invero è (e perciò trova qui posto la mia spiegazione) che ogni errore è una conclusione dall'effetto alla causa, conclusione che ha valore. quando si sa che l'effetto può avere quella causa e nessun'altra; ma non in altri casi. Chi sbaglia, o attribuisce all'effetto una causa, che quello non può punto avere; nel che dimostra vera mancanza di intelletto, ossia incapacità di conoscer direttamente il nesso tra causa ed effetto: oppure, come accade più spesso, dato l'effetto determina bensì una causa possibile, ma alla maggior premessa del sillogismo, con cui va dall'effetto alla causa, aggiunge che codesto effetto costantemente proviene dalla causa attribuitagli. In ciò potrebbe esser giustificato solo da una compiuta induzione, che egli bensì presuppone, ma che non ha fatta. Quel costantemente è dunque un concetto troppo ampio, invece del quale potrebbe star solo un talvolta, o il più sovente; sì che la conclusione verrebbe ad esser problematica, e come tale non sarebbe erronea. Un tal modo di procedere da parte di chi sbaglia può essere effetto di precipitazione, oppure di troppo limitata conoscenza della possibilità; per cui ignora la necessità dell'induzione da fare. L'errore è quindi affatto analogo all'illusione. Entrambi sono conclusioni dall'effetto alla causa: l'illusione si compie sempre nel puro intelletto, e secondo la legge di causalità, quindi direttamente nell'intuizione stessa; l'errore si compie dalla ragione, secondo tutte le forme del principio di ragione (quindi nel pensiero vero e proprio), ma più spesso secondo la legge di causalità, come mostrano i tre esempi seguenti che si posson considerare come tipi o rappresentanti di questa classe d'errori. 1. L'illusione dei sensi (inganno dell'intelletto) genera errore (inganno della ragione), per esempio, quando si scambia una pittura per un altorilievo e veramente per tale la si tiene. Questo accade mediante una deduzione dalla seguente premessa maggiore: «Se il grigio oscuro qua e là passa nel bianco attraverso tutte le sfumature, di ciò è sempre causa la luce che diversamente batte i rilievi e le cavità: ergo ... » . 2. «Se manca denaro nella mia cassa, ne è sempre cagione il fatto che il mio domestico ha una chiave falsa: ergo...». 3. «Se l'immagine del sole rotta, ossia sospinta all'insù o all'ingiù dal prisma, appare allungata, il motivo è sempre questo: che nella luce si trovano raggi omogenei variamente colorati e variamente rifrangibili; i quali, separatisi per la loro varia rifrangibilità, mostrano ora un'immagine allungata e insieme variopinta: ergo... bibamus!». Ogni errore va ricondotto ad una consimile deduzione da una premessa maggiore spesso soltanto falsamente generalizzata, ipotetica, sorta dall'ammetter una data causa per un dato effetto. Fanno eccezione gli errori di calcolo, che non sono per l'appunto errori veri e propri, ma semplici sbagli. Non l'operazione, che i concetti dei numeri indicavano, è stata eseguita nell'intuizione pura, nel calcolo; bensì un'altra in sua vece.

Per quanto riguarda il contenuto delle scienze in genere, questo è sempre in relazione scambievole dei fenomeni del mondo, in conformità del principio di ragione e sulle orme del perché; il quale da esso principio unicamente trae significazione e valore. L'indicar quella relazione si chiama spiegazione. Questa non può dunque mai far di più, che mostrar due rappresentazioni nel loro reciproco rapporto, secondo la forma del principio di ragione dominante nella classe a cui tali rappresentazioni appartengono. Arrivati a questo punto, non si può domandare altro perché: poiché la relazione indicata non si può in nessun modo rappresentare altrimenti, ossia è la forma d'ogni conoscenza. Quindi non ci si domanda perché 2 + 2 = 4; o perché eguaglianza d'angoli nel triangolo determini eguaglianza di lati; o perché a una data causa segua il suo effetto; o perché dalla verità delle premesse brilli la verità della conclusione. Ogni spiegazione, che non faccia capo ad un rapporto, oltre il quale non si possa pretendere alcun perché, si arresta davanti a una supposta qualitas occulta: e di tal sorta è ogni forza elementare della natura. Davanti a queste deve alfine arrestarsi ogni spiegazione scientifica: ossia davanti ad alcunché affatto oscuro. Deve quindi lasciare tanto inesplicata l'intima essenza d'una pietra, quanto quella dell'uomo; non può dar conto della gravità, della coesione, delle proprietà chimiche, che la pietra manifesta, più di quanto possa dar conto del conoscere e dell'agire dell'uomo. Così per esempio la gravità è una qualitas occulta: perché si può fare a meno di pensarla, e non sorge quindi come una necessità dalla forma del conoscere. Questo invece è il caso della legge d'inerzia, in quanto deriva da quella di causalità: quindi il richiamarvisi è una spiegazione del tutto sufficiente. Due cose invero sono proprio inesplicabili, non si possono cioè ricondurre alla relazione formulata dal principio di ragione: in primo luogo, il principio stesso di ragione, nelle sue quattro forme, perché esso è il principio d'ogni spiegazione, quello in rapporto al quale ogni spiegazione ha senso; e, in secondo luogo, ciò che non è raggiunto dal principio di ragione, ma da cui proviene l'elemento primordiale in tutti i fenomeni – ossia la cosa in sé, la cui conoscenza non è punto subordinata al principio di ragione. Quest'ultima deve rimaner per ora nell'ombra, perché diventerà comprensibile solo col libro seguente, nel quale riprenderemo anche questa considerazione della capacità delle scienze. Ma là, dove la scienza naturale, anzi ogni scienza, s'arresta davanti agli oggetti, e non solo la spiegazione che ne dà, ma perfino il principio di questa spiegazione – il principio di ragione – non oltrepassa quel punto: là viene la filosofia a prender codesti oggetti e li considera a suo modo, con metodo affatto diverso dalla scienza. Nella memoria sul principio di ragione, § 51, ho mostrato che nelle varie scienze è principal filo conduttore l'una o l'altra forma di quel principio: e invero si potrebbe far su questa base la miglior suddivisione delle scienze. Ma ogni spiegazione data seguendo quel filo è, come ho detto, sempre relativa: spiega gli oggetti in reciproca relazione, lasciando sempre qualcosa d'inesplicato, che appunto già presuppone. Questo è il caso, per esempio, di spazio e tempo nella matematica; così nella meccanica, nella fisica e nella chimica la materia, le qualità, le forze elementari, le leggi naturali; nella botanica e nella zoologia la varietà delle specie e la vita stessa; nella storia la razza umana, con le sue proprietà del pensare e del volere; – in tutte, il principio di ragione; nella forma che volta per volta è applicata. La filosofia ha questo di caratteristico, che non presuppone nulla di già noto, ma tutto le è in egual misura estraneo e costituisce un problema: non solo le relazioni dei fenomeni, ma anche i fenomeni stessi, e lo stesso principio di ragione, al quale le altre scienze s'appagano di tutto ricondurre. Da codesto risalire al principio di ragione la filosofia non avrebbe nulla da guadagnare, perché un anello della catena le è sconosciuto come l'altro, e quella stessa maniera di connessione è per lei un problema pari al problema dei termini che essa congiunge; e questi rimangono problemi dopo rilevato il loro rapporto, come prima. Perché, come ho detto, appunto ciò, che le scienze presuppongono e mettono a base delle loro spiegazioni e si stabiliscono come limite, è il vero problema della filosofia; la quale per conseguenza comincia, dove le scienze finiscono. Dimostrazioni non possono essere il suo fondamento: perché queste ricavano principii ignoti dai noti, mentre a lei tutto è ad un modo ignoto e straniero. Non vi può esser nessun principio, in base del quale abbia preso esistenza il mondo con tutti i suoi fenomeni: perciò non si può per via di dimostrazioni dedurre, come Spinoza voleva, una filosofia ex firmis principiis. La filosofia è anche il sapere più universale, i cui principi fondamentali non possono perciò esser derivazioni da un altro più universale ancora. Il principio di contraddizione stabilisce semplicemente la concordanza dei concetti; ma non da esso medesimo concetti. Il principio di ragione spiega i collegamenti dei fenomeni, ma non i fenomeni: perciò la filosofia non può andar a cercar una causa efficiens o una causa finalis del mondo intero. La filosofia moderna, almeno, non indaga punto l'origine e la finalità del mondo; bensì soltanto che sia il mondo. Ma il perché è qui subordinato al che cosa: poiché esso già fa parte del mondo, sorgendo unicamente dalla forma in cui questo appare – il principio di ragione – e solo per tal rispetto acquista significato e valore. Si potrebbe dire bensì, che ciascuno senz'altro aiuto conosce da sé che cosa sia il mondo, essendo egli medesimo il soggetto della conoscenza, del quale il mondo è rappresentazione: ed anche questo sarebbe vero in tal senso. Ma quella conoscenza è di natura intuitiva, in concreto: riprodurla in abstracto, elevare a sapere astratto, chiaro, durevole l'intuizione successiva e mutabile, e specialmente tutto ciò, che il vasto concetto del sentimento abbraccia ed indica appunto in modo negativo come un sapere non astratto, confuso – ecco la missione della filosofia. Ella dev'esser quindi una dichiarazione in abstracto dell'essenza del mondo intero, del suo complesso come di tutte le sue parti. Ma tuttavia, per non perdersi in una massa infinita di giudizi singoli, deve servirsi dell'astrazione, ed ogni singolo pensare in forma generale, ed in forma generale anche le sue differenze: quindi in parte separerà, in parte congiungerà, per trasmettere al sapere, condensata in pochi concetti astratti, tutta la molteplicità del mondo nella sua essenza. Con quei concetti, in cui ella fissa l'essenza del mondo, deve nondimeno, come il generale, anche il particolarissimo venir conosciuto, e la conoscenza d'entrambi esser quindi collegata strettissimamente: perciò l'attitudine alla filosofia consiste appunto là dove Platone la poneva, nel conoscer l'uno nel molteplice, e il molteplice nell'uno. La filosofia sarà dunque una somma di giudizi molto generali, il cui principio di conoscenza è direttamente il mondo medesimo nel suo complesso, senza alcuna esclusione: ossia tutto ciò che si trova nella coscienza umana. Ella sarà una completa ripetizione, e quasi un riflesso del mondo in concetti astratti, possibile solo mediante la riunione di ciò ch'è essenzialmente identico in un concetto, e l'isolamento del diverso in un altro concetto. Questo compito assegnava già Bacone da Verulamio alla filosofia, dicendo: «Ea demum vera est philosophia, quae mundi ipsius voces fidelissime reddit, et veluti dictante mundo conscripta est, et nihil aliud est, quam ejusdem simulacrum et reflectio, neque addit quidquam de proprio, sed tantum iterat et resonat» ( De augm. scient., 1. 2, e. 13). Noi prendiamo tuttavia la cosa in senso più ampio di quanto potesse allora pensare Bacone.

La reciproca concordanza che hanno fra loro tutti gli aspetti e le parti del mondo, appunto perché appartengono ad un tutto, deve ritrovarsi anche in quell'astratta riproduzione del mondo. Così fu possibile in quella somma di giudizi derivare in certo modo l'uno dall'altro; e viceversa, sempre. Ma per ciò devono i giudizi in primo luogo esistere, e dunque prima venir stabiliti, come direttamente fondati in concreto sulla conoscenza del mondo; tanto più che ogni fondamento immediato è più sicuro che il mediato. La loro armonia reciproca, in grazia della quale confluiscono perfino nell'unità di un pensiero, e che sgorga dall'armonia ed unità del mondo intuitivo medesimo, che è il lor comune principio di conoscenza, non è adunque adoprata come primo argomento per la loro dimostrazione; ma verrà solo come una conferma della loro verità. Tuttavia questo compito può diventar ben chiaro solo mediante la sua attuazione .

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