§ 16.

Dopo tutto questo esame sia della ragione, come d'una forza conoscitiva propria, particolare dell'uomo soltanto, sia delle operazioni e dei fenomeni anche proprii dell'umana natura, che da quella derivano, mi rimarrebbe a parlar della ragione in quanto guida le azioni degli uomini; e sotto tal rispetto può definirsi pratica. Ma la maggior parte di ciò, che qui andrebbe detto, ha trovato luogo altrove, ossia nell'appendice di quest'opera, dove mi propongo di combattere l'esistenza della cosiddetta ragion pratica di Kant; la quale egli (invero molto comodamente) rappresenta come sorgente immediata d'ogni virtù, e come sede di un dovere assoluto (ovvero caduto dal cielo). La diffusa e radicale confutazione di questo principio della morale kantiana io l'ho fatta più tardi, nei Problemi fondamentali dell'etica. Perciò non ho che poco da dire qui ancora sull'effettivo influsso che la ragione – nel vero senso della parola – ha sull'azione. Già sul principio del nostro esame della ragione abbiamo in generale osservato quanto la condotta dell'uomo si distingua da quella dell'animale, e come codesta distinzione sia unicamente da considerare come dovuta alla presenza di concetti astratti nella coscienza. L'influsso di questi su tutto il nostro essere è così penetrante e significativo, che in certo modo ci pone davanti agli animali nella stessa situazione, in cui si trovano gli animali veggenti in confronto di quelli privi della vista (alcune larve, vermi e zoofiti). Questi ultimi conoscono solo mediante il tatto ciò, che si trova nello spazio immediatamente presso di loro, e li tocca; mentre i veggenti dispongono di un'ampia sfera da presso e da lungi. Similmente l'assenza della ragione limita gli animali alle rappresentazioni intuitive, ossia agli oggetti reali, che son loro immediatamente presenti nel tempo: mentre noi, grazie alla conoscenza in abstracto, abbracciamo, di là dal ristretto presente della realtà, anche tutto il passato ed il futuro, oltre l'ampio dominio della possibilità; noi dominiamo con lo sguardo la vita, liberi da ogni parte, fino a grandissima distanza dal presente e dalla realtà. Quel che l'occhio è nello spazio, e per la conoscenza sensibile, è in certo modo la ragione nel tempo, e per la conoscenza interiore. Ma, come la visibilità degli oggetti ha valore e significato solo perché ne denota la tangibilità, così sempre l'intero valore della conoscenza astratta consiste nella sua relazione con la conoscenza intuitiva. Quindi l'uomo conforme alla natura dà sempre maggior peso a ciò che ha conosciuto immediatamente ed intuitivamente, che non ai concetti astratti, ossia a ciò che ha soltanto pensato: egli preferisce la conoscenza empirica alla conoscenza logica. Opposta è la disposizione di coloro che vivono più in parole che in fatti, che hanno guardato più alla carta ed ai libri che al mondo reale, e nella loro grandissima degenerazione diventano pedanti e spulciatori di vocaboli. Così soltanto si comprende come Leibniz e Wolff e tutti i loro seguaci si potessero tanto smarrire, sull'esempio di Duns Scoto, da dir che la conoscenza intuitiva non è che una conoscenza astratta ingarbugliata! Ad onore di Spinoza devo ricordare che il suo buon senso ha viceversa ritenuto tutti i concetti comuni come sorti dalla confusione della conoscenza intuitiva ( Eth., II, prop. 40, schol. 1). Da quella assurda concezione è anche derivato che si rigettasse il genere d'evidenza proprio della matematica, per far valere la sola evidenza logica; che in genere ogni conoscenza non astratta si comprendesse e si trascurasse sotto l'ampio nome di sentimento; che finalmente l'etica kantiana dichiarasse senza valore e senza merito, come puro sentimento ed emozione, quella volontà buona, che si fa immediatamente sentire con la conoscenza dei fatti, e spinge al giusto operare ed al bene – mentre invece attribuiva valore morale soltanto alla condotta guidata da massime astratte.

Il privilegio, che l'uomo in grazia della ragione ha sull'animale, di dominar da ogni parte con lo sguardo la vita nel suo complesso, si può anche paragonare ad un disegno geometrico, incolore, astratto, rimpicciolito, del corso della sua vita. L'uomo con ciò sta rispetto all'animale, come il navigatore, il quale con l'aiuto della carta di navigazione, della bussola e del quadrante sappia con precisione il suo percorso ad ogni punto del mare, sta rispetto alla ciurma ignara, la quale non vede che le onde e il cielo. Ne consegue un fatto notevole, anzi mirabile: che l'uomo, accanto alla propria vita in concreto, ne conduce una seconda in abstracto. Nella prima è dato in balia a tutte le tempeste della realtà e all'influenza del presente: deve lottare, soffrire, morire come l'animale. Ma la sua vita in abstracto, qual'essa sta davanti alla sua ragionante riflessione, è quel disegno ridotto, qui sopra accennato. Quivi, nel dominio della pacata meditazione, gli appare freddo, incolore ed estraneo al momento presente ciò, che colà tutto lo possiede e violentemente lo agita: quivi egli è un semplice spettatore ed osservatore. In codesto ritrarsi nella riflessione egli rassomiglia ad un attore, il quale ha recitato la sua scena, e, fino al momento di ricomparire, prende posto fra gli spettatori; donde contempla indifferente qualunque cosa possa accader nel dramma, foss'anche la preparazione della propria morte. Poi, al momento dato, torna sulla scena e agisce e soffre come deve. Da questa doppia vita sorge quell'umana calma – tanto diversa dall'animale spensieratezza – con la quale taluno per ben ponderata riflessione, per una risoluzione presa o una riconosciuta necessità, lascia freddamente venir su di sé o compie egli medesimo cose per lui essenzialissime, spesso terribili: suicidio, supplizio, duello, temerità mortali d'ogni specie e, in genere, cose contro le quali si ribella tutta la sua natura animale. Qui si vede, in qual misura la ragione si renda padrona della natura animale, e gridi all'uomo forte: σιδηρειον νυ τοι ητορ! (ferreum certe tibi cor!) Il., 24, 521. E qui può dirsi che davvero si manifesti la ragione praticamente: quindi, ovunque l'atto è guidato dalla ragione, dove i moventi sono concetti astratti, dove il motivo determinante non è costituito da isolate rappresentazioni intuitive né dall'impressione momentanea, che guida gli animali, – qui si mostra ragione pratica. Ma che tutto ciò sia affatto diverso ed indipendente dal merito etico della condotta; che condotta razionale e condotta virtuosa siano due cose del tutto distinte; che la ragione possa unirsi sì con grande cattiveria come con grande bontà, e questa come quella renda attive con la propria presenza; che la ragione sia ugualmente pronta e valevole per l'attuazione metodica e conseguente d'un nobile proposito come d'un cattivo, di una massima intelligente come d'una massima stolta (il che proviene dal suo carattere femminile, atto a ricevere e conservare, ma non a produrre direttamente); – tutto ciò ho ampiamente spiegato nell'appendice e illustrato con esempi. Le cose quivi dette dovrebbero invero trovarsi in questo luogo; ma han dovuto esser trasportate colà per la polemica contro la pretesa ragion pratica di Kant. Perciò torno a rinviare all'appendice.

Il più perfetto svolgimento della ragione pratica nel vero e proprio senso della parola; il più alto culmine a cui l'uomo può elevarsi col semplice impiego della sua ragione, e sul quale più evidente appare la sua diversità dagli animali, è come ideale rappresentato nel sapiente stoico. Imperocché l'etica stoica originariamente ed essenzialmente non è punto una dottrina di virtù, ma semplice avviamento alla vita razionale, di cui è meta e scopo la felicità ottenuta con la calma dello spirito. La condotta virtuosa vi si trova solo come per accidens, come mezzo, non come scopo. Perciò l'etica stoica, in tutta la sua essenza e nella sua concezione, è radicalmente diversa dai sistemi etici, che spingono direttamente alla virtù, come sarebbero le dottrine dei Veda, di Platone, del Cristianesimo e di Kant. Il fine dell'etica stoica è la felicità: τελος το ευδαιμονειν (virtutes omnes finem habere beatitudinem) si legge nell'esposizione della Stoa presso Stobeo ( Ecl., l . II, e. 7, p. 114, ed anche p. 138). Tuttavia l'etica stoica insegna, che la felicità si può trovar con certezza solo nella pace interiore e nella calma dello spirito (αταραξια), e la calma alla sua volta si raggiunge esclusivamente con la virtù: questo appunto significa l'espressione, che bene supremo sia la virtù. Ma se poi a poco a poco si dimentica il fine per il mezzo e la virtù viene raccomandata in modo da rilevar tutt'altro interesse che quello della propria felicità, sì da star con quest'ultima in aperto contrasto; abbiamo in ciò una delle inconseguenze, per le quali in ogni sistema la verità direttamente conosciuta (o, come suol dirsi, sentita) riconduce sul diritto cammino, facendo violenza ai ragionamenti. La qual cosa si vede chiaramente, per esempio, nell'etica di Spinoza, che dall'egoistico suum utile quaerere deriva, mediante sofismi da toccarsi con mano, una pura dottrina della virtù. Secondo il modo in cui ho inteso lo spirito dell'etica stoica, la sua origine sta nel pensare, se il grande privilegio dell'uomo – la ragione, che, mediatamente, per mezzo della condotta sistematica e di ciò che ne deriva, di tanto gli allevia la vita ed i suoi pesi – non sarebbe anche capace di sottrarlo d'un tratto direttamente, ossia per conoscenza pura, ai mali ed ai tormenti d'ogni specie che gli riempiono la vita: sottrarlo del tutto, ovvero quasi del tutto. Si ritenne non conveniente al privilegio della ragione, che l'essere, il quale ne è dotato, e per suo mezzo abbraccia e domina un'infinità di cose e di fatti, fosse nondimeno in balia di tanto dolore, di sì grande angoscia e sofferenza, quanta ne può sorgere dal tumultuoso impeto della brama o dell'avversione: e ciò per l'effetto del momento presente, e per i casi che i pochi anni d'una sì breve, fugace, incerta vita possono contenere. E si pensò che il conveniente uso della ragione potesse elevar l'uomo sopra a questo male, renderlo invulnerabile. Disse perciò Antistene: Δει̃ κτα̃σθαι νου̃ν, ἣ βρόχον(aut mentem parandam, aut laqueum, Plut., De sthoic. repugn., e. 14), ossia: la vita è così piena di tormenti e di molestie, che conviene o collocarsene fuori mediante la saviezza del pensiero, o abbandonarla. Si comprese che la privazione, il soffrire, non nascono direttamente e necessariamente dal non avere, bensì dal voler avere e non avere; che quindi questo voler avere è la condizione necessaria, per la quale il non avere diventa privazione, e genera il dolore. Ου πενια λυπην εργζεται, αλλ επιθυμια(non paupertas dolorem efficit, sed cupiditas, Epict. fragm. 25). Si conobbe inoltre dall'esperienza, che solo la speranza, l'idea d'aver diritto ad una cosa, genera ed alimenta il desiderio; perciò né i molti mali a tutti comuni ed inevitabili, né gl'irraggiungibili beni ci agitano e tormentano: bensì solo l'insignificante misura maggiore o minore di ciò che l'uomo può raggiungere o evitare. Si conobbe anzi, che perfin quanto non è irraggiungibile in modo assoluto, ma soltanto relativo, ci lascia del tutto tranquilli; perciò i mali, che stabilmente si sono associati alla nostra individualità, o i beni, che per necessità a lei devono rimanere negati, si considerano con indifferenza; ed in grazia di questa proprietà dell'uomo, ogni desiderio tosto muore né può più generare dolore, non appena la speranza cessa d'alimentarlo. Da questo risultò, che tutta la felicità consiste solo nella proporzione delle nostre aspirazioni con ciò che ci viene accordato: la maggior o minor misura delle due grandezze di questa proporzione è indifferente, e la proporzione può esser ristabilita sia con l'impiccolir la prima grandezza, sia con l'ingrandir la seconda. Egualmente risultò, che ogni dolore invero nasce dalla sproporzione di ciò, che pretendiamo ed aspettiamo, con ciò che ci è dato; la qual sproporzione tuttavia sta evidentemente solo nella conoscenza , e potrebbe esser tolta di mezzo appieno, mediante una miglior valutazione. Disse perciò Crisippo: δει ζην κατ’εμπειριαν των φυσει συμβαινοντων(Stob., Ecl., l . II, e. 7, p. 134), ossia: si deve vivere con opportuna conoscenza dell'andamento delle cose del mondo. Imperocché ogni volta che un uomo in qualsiasi modo perda il dominio di sé, o è schiacciato da un dolore, o s'infuria, o si scoraggia; egli dimostra così di trovar le cose diverse da quel che s'attendeva; dimostra quindi d'essere stato impigliato nell'errore, di non aver conosciuto il mondo e la vita; non aver saputo come la natura inanimata intralci ad ogni passo la volontà di ciascuno per mezzo del caso, e la natura animata l'intralci sia con l'opporle fini contrari, sia con la malvagità. Adunque egli o non s'è servito della sua ragione per venire ad una generale consapevolezza di questa condizione della vita, oppure ha mancato di giudizio, disconoscendo nel caso particolare quel che conosceva in generale; e perciò appunto si sorprende, e perde il dominio di sé . Nello stesso modo è ogni viva gioia un errore, un vaneggiamento; perché nessun desiderio appagato può soddisfare a lungo, e perché ogni possessione, ogni felicità ci è concessa dal caso per un tempo indeterminato – e quindi ci può esser tolta nello spazio di un'ora. Ma intanto ogni dolore proviene dal dileguarsi di codesto vaneggiamento. Questo e quello derivano adunque da manchevole conoscenza. Perciò dal saggio rimangono gioia e dolore sempre lontani e nessun evento scuote la sua αταραξια.

Conformemente a tale spirito ed a tal mira della Stoa, Epitteto parte dal principio – e vi torna sopra continuamente, come al nocciolo della sua sapienza – che occorra ben meditare e distinguere ciò che dipende e ciò che non dipende da noi, e non contare mai su quest'ultimo. In questo modo si può fiduciosamente tenersi liberi da ogni dolore, sofferenza ed angoscia. Ciò che dipende da noi, è solamente la volontà; e qui si viene a fare un graduale passaggio alla dottrina della virtù, mentre si osserva che, come il mondo esterno da noi indipendente determina gioia e dolore, così dalla volontà nasce interna soddisfazione o insoddisfazione di noi stessi. In seguito poi si domandò, se nel primo o nel secondo caso si convenissero i nomi di bene e di male. Questo era invero un problema arbitrario, da risolversi a piacere e non mutava nulla alla cosa. Eppure su di esso contesero incessantemente Stoici con Peripatetici ed Epicurei, si baloccarono con l'impossibile paragone di due quantità affatto incommensurabili e con le opposte, paradossali sentenze che ne derivavano, scagliandosele vicendevolmente addosso. Un'interessante raccolta, dal punto di vista stoico, ce n'è tramandata nei Paradoxa di Cicerone.

Zenone, il fondatore, sembra aver seguito in origine un cammino alquanto diverso. Il suo punto di partenza era questo: che per raggiungere il massimo bene, ossia la felicità mediante la calma dello spirito bisognerebbe vivere d'accordo con se stessi. (ὁμολογουμενως ζην τουτο δ’εστι καθ’ ἑνα λογον και συμφωνον ξην. Consonanter vivere: hoc est secundum unam rationem et concordem sibi vivere; Stob. Ecl., eth., L. II, c. 7, p. 132. Così ancora: αρετην διαθεσιν ειναι ψυχης συμφωνον ἑαυτῃ περι ὁλον τον βιον. Virtutem esse animi affectionem secum per totam vitam consentientem, ibid., p. 104). Ma questo era possibile solo informando tutta la propria vita alla ragione, secondo concetti, non secondo mutevoli impressioni e fisime. E poi che né il successo, né i fatti esterni, ma solo le massime direttive sono in nostro potere, si doveva fare di queste sole, non di quelle il proprio scopo, se si voleva rimaner conseguenti; entrando così per quest'altra via nella dottrina della virtù.

Ma già agl'immediati successori di Zenone parve il suo principio morale – vivere armonicamente – troppo formale e privo di contenuto. Gli diedero perciò un contenuto materiale, con quest'aggiunta: «vivere in armonia con la natura» (ὁμολογουμενως τῃ φυσει ξῃν.); la quale aggiunta, secondo c'informa Stobeo nel luogo indicato, venne fatta dapprima da Cleante ed allargò di molto il principio, per l'ampia sfera del concetto e l'indeterminatezza dell'espressione. Imperocché Cleante intendeva tutta la natura in generale, Crisippo invece la natura umana in particolare (Diog. Laert., 7, 89). La cosa conforme solo a quest'ultima doveva quindi esser la virtù, come la soddisfazione degl'istinti animali è conforme alla natura dei bruti. E così si rientrava di nuovo risolutamente nella dottrina della virtù; l'etica – venisse pure a piegarsi o a rompersi – doveva esser fondata sulla fisica. Imperocché gli Stoici miravano soprattutto all'unità del principio; Dio e il mondo non essendo per loro punto distinti.

L'etica stoica, presa in complesso, è veramente un pregevolissimo e considerevolissimo tentativo di giovarsi della maggior prerogativa umana – la ragione – per uno scopo importante e salutare com'è quello di elevarsi sopra i patimenti e i dolori toccati in sorte a ciascuna vita, con un ammonimento:

Qua ratione queas traducere leniter aevum:
Ne te semper inops agitet vexetque cupido,
Ne pavor et rerum mediocriter utilium spes.

Con ciò l'etica stoica tendeva a far l'uomo partecipe in altissimo grado della dignità che a lui, essere ragionevole, spetta in confronto dell'animale – dignità che solo in questo senso e in nessun altro va presa. Questo mio modo di considerar l'etica stoica mi ha condotto a doverne parlare qui, dove tratto di ciò che la ragione è, e di ciò che può compiere. È certamente vero, che quello scopo è fino a un dato punto raggiungibile con l'uso della ragione, e con un'etica esclusivamente razionale; perché anche l'esperienza dimostra, che gli uomini di carattere puramente razionale, i quali si soglion chiamare filosofi pratici (e con ragione, perché, come il filosofo vero, ossia teorico, trasporta la vita nei concetti, trasportano essi il concetto nella vita) sono forse i più felici. Tuttavia moltissimo manca, perché si possa in questa maniera giungere ad alcunché di perfetto, e la ragione esattamente applicata possa davvero liberarci da tutto il peso, da tutti i patimenti della vita, conducendoci alla felicità. C'è piuttosto una assoluta contraddizione nel proposito di voler vivere senza soffrire; contraddizione che reca in sé anche il comune modo di dire: «vita felice». Questo brillerà ben chiaro a chi avrà compresa fino all'ultimo l'esposizione seguente. Codesta contraddizione si rivela già in quell'etica della ragione pura, pel fatto che lo Stoico è costretto ad intercalare nel suo avviamento ad una vita felice (e tale rimane pur sempre la sua etica) la raccomandazione del suicidio – come nel sontuoso corredo dei depositi orientali si trova anche una preziosa fiala di veleno – per il caso che i dolori del corpo, i quali non si lasciano sopprimere da nessun principio o ragionamento filosofico, prendano il sopravvento e siano incurabili. Allora il fine unico – la felicità – viene a mancare; e per sottrarsi al patimento, non altro rimane che la morte, la quale va presa in tal caso indifferentemente, come una medicina. Qui si fa manifesta una forte opposizione fra l'etica stoica e quelle altre sopra citate, le quali pongono a scopo della vita la virtù in se stessa, direttamente, anche fra le più penose sofferenze; né ammettono che per sottrarsi ai patimenti si dia termine alla vita – sebbene nessuna di loro abbia saputo esprimere il vero argomento contro il suicidio, e tutte invece siano venute accozzando faticosamente motivi illusori. Nel quarto libro quell'argomento risulterà in relazione col nostro sistema. Ma il contrasto su riferito palesa e conferma appunto il dissidio essenziale e fondamentale tra la Stoa, che in sostanza non è se non una particolar forma d'eudemonismo, e quelle dottrine citate; sebbene l'una e le altre s'accordino spesso nei risultati, ed abbiano un'apparente parentela. La surriferita contraddizione inerente all'etica stoica, perfino nel suo pensiero sostanziale, si mostra inoltre anche in questo: che il suo ideale, il Sapiente stoico, non potè neppur da lei medesima rappresentato, conseguir mai vita, o intima poetica verità; bensì rimane un legnoso, rigido fantoccio, del quale non si sa cosa fare, che non sa egli stesso dove voglia andare con la sua saggezza; e la cui calma perfetta, contentezza, felicità stanno in aperto contrasto con la natura umana, né possono darci di sé una rappresentazione intuitiva. Come differenti appaiono, accanto a questo fantoccio, i Superatori del mondo e volontari Penitenti, che la sapienza indiana ci presenta ed effettivamente ha prodotti; o anche il Salvatore cristiano – quella magnifica figura, piena di vita profonda, d'immensa verità poetica e di altissimo significato, la quale nondimeno, malgrado la sua perfetta virtù, santità ed elevatezza, viene davanti a noi in istato di altissimo dolore .

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