Sul proposito di tutta la nostra precedente considerazione è forse ancora da osservare quanto segue. In essa non abbiamo preso le mosse né dall'oggetto né dal soggetto; bensì dalla rappresentazione, la quale già li contiene e presuppone entrambi; poiché la divisione in oggetto e soggetto è la sua forma prima, più generale e più essenziale. Abbiamo dunque dapprima considerato questa forma come tale, dipoi (pur rinviando per la sostanza alla dissertazione introduttiva) le altre forme a lei subordinate, tempo, spazio e causalità; le quali appartengono soltanto all'oggetto. Ma poiché esse sono essenziali a questo in quanto è tale, e l'oggetto a sua volta è essenziale al soggetto in quanto soggetto, possono dal soggetto stesso venir trovate, ossia conosciute a priori; e pertanto sono da considerare come limite comune d'entrambi. Ma tutte si lascian ricondurre ad una comune espressione – il principio di causa – com'è ampiamente mostrato nella dissertazione introduttiva.
Ora, questo procedimento distingue affatto la nostra concezione dalle filosofie tentate finora, come quelle che tutte partivano o dall'oggetto o dal soggetto, e per conseguenza cercavano di spiegare l'uno mediante l'altro, precisamente secondo il principio di ragione, alla signoria del quale noi veniamo invece a sottrarre il rapporto tra oggetto e soggetto, lasciandole solamente l'oggetto. Si potrebbe considerar come non compresa nella suaccennata contrapposizione di sistemi filosofici la filosofia della identità, sorta a' nostri giorni e universalmente conosciuta; in quanto questa non fa né l'oggetto né il soggetto il vero e primo punto di partenza, bensì un terzo, l'Assoluto, conoscibile mediante l'intuizione razionale; il quale non è né oggetto né soggetto, ma identità di entrambi. Sebbene io, per assoluta mancanza d'ogni intuizione razionale, non presuma entrare a discorrere con gli altri della suddetta venerabile identità e dell'assoluto, devo tuttavia osservare, fondandomi sui protocolli aperti a tutti, anche a noi profani, di coloro i quali sanno intuire razionalmente, che la detta filosofia non va eccettuata dalla opposizione di due errori più sopra esposta. Perché essa, malgrado l'identità di soggetto e oggetto – identità che non può esser pensata, ma solo intuita intellettualmente o appresa mediante uno speciale assorbimento in lei – non evita tuttavia quei due errori opposti, ma piuttosto li unisce in sé, scindendosi ella medesima in due discipline: ossia in primo luogo l'idealismo trascendentale, che è la teoria fichtiana dell'io, e per conseguenza, secondo il principio di ragione, fa venir l'oggetto fuori dal soggetto o svolto da questo come un filo dalla rocca; e in secondo luogo la filosofia della natura, che egualmente fa sviluppare a poco a poco il soggetto dall'oggetto, con l'impiego di un metodo che vien chiamato costruzione. Di questo ben poco m'è chiaro, ma abbastanza per vedere che esso è un avanzar progressivo secondo il principio di ragione in forme svariate. Alla profonda sapienza, che quella filosofia contiene, rinunzio; poiché per me, cui manca del tutto l'intuizione razionale, tutti quei discorsi che la presuppongono devono essere un libro chiuso con sette suggelli. Il che poi anche è vero in tal grado, che – strano a dirsi – davanti alla profonda saggezza di quelle dottrine ho l'impressione di non ascoltar nient'altro che spaventose e per di più noiosissime fanfaronate.
I sistemi che prendevano le mosse dall'oggetto si ponevano invero sempre come problema tutto il mondo dell'intuizione e il suo ordinamento; ma l'oggetto, che essi stabiliscono come punto di partenza, non è sempre quel mondo, o la materia, suo elemento fondamentale: piuttosto si può fare una partizione di tali sistemi conformemente alle quattro classi di oggetti possibili, fissate nella dissertazione introduttiva. Si può dire così che dalla prima di quelle classi, ossia dal mondo reale, sono partiti: Talete e la scuola jonica, Democrito, Epicuro, Giordano Bruno ed i materialisti francesi. Dalla seconda, ossia dal concetto astratto: Spinoza (precisamente dal puro concetto astratto di sostanza esistente soltanto nella sua definizione) e innanzi a lui gli Eleati. Dalla terza classe, ossia dal tempo, e conseguentemente dai numeri: i Pitagorici e la filosofia chinese dell'I-king. Finalmente, dalla quarta classe, ossia dall'atto di volontà motivato dalla conoscenza: gli scolastici, che insegnano una creazione dal Nulla, mediante l'atto di volontà di un essere personale fuori del mondo.
Il metodo obiettivo si può sviluppare con maggior conseguenza e condur più lontano quando si presenta come vero e proprio materialismo. Questo pone la materia, e con lei tempo e spazio, come esistenti assolutamente, e trascura il rapporto col soggetto, senza pensare che materia, tempo e spazio esistono solo in questo. Prende poi per filo conduttore la legge di causalità, e con essa vuole avanzare, considerandola come un ordine delle cose in sé esistente, veritas aeterna; passando così sopra all'intelletto, nel quale e per il quale esclusivamente esiste causalità. Poi cerca di trovare il primo, più semplice stato della materia, e quindi ricavare da esso gli altri, salendo dal puro meccanismo al chimismo, alla polarità, alla vegetazione, all'animalità: e supposto che ciò riesca, ultimo anello della catena sarebbe la sensibilità animale, il conoscere: che comparirebbe quindi a questo punto come una semplice modificazione della materia, uno stato di questa prodotto dalla causalità. Ora, se noi avessimo seguito fin là, con rappresentazioni intuitive, il materialismo, appena giunti con esso al suo vertice saremmo stati presi da un accesso del riso inestinguibile degli Olimpi: accorgendoci d'un tratto, come svegliati da un sogno, che il suo ultimo risultato così faticosamente raggiunto – la conoscenza – era già presupposto come condizione assoluta fin dal primissimo punto di partenza, dalla semplice materia; e noi c'eravamo figurati di pensare col materialismo la materia, mentre in realtà nient'altro avevamo pensato che il soggetto, il quale rappresenta la materia, l'occhio che la vede, la mano che la sente, l'intelletto che la conosce. Così sarebbe venuta inaspettatamente a scoprirsi l'enorme petitio principii: quando all'improvviso l'ultimo anello si fosse presentato come il punto d'appoggio dal quale già pendeva il primo, e la catena come un circolo; il materialista avrebbe rassomigliato al Barone di Munchhausen, il quale, nuotando a cavallo nell'acqua, con le gambe solleva il cavallo, e solleva se stesso tirandosi pel codino della propria parrucca ripiegato sul davanti. Perciò l'assurdità fondamentale del materialismo consiste in questo, che parte dall'oggettivo, e un oggettivo prende come termine: sia poi questo la materia, in abstracto, come essa viene solamente pensata, o la materia data empiricamente, che già ha preso forma, ossia la materia costitutiva, come per esempio i corpi chimici semplici, con le loro combinazioni più elementari. Cotali cose prende il materialismo come esistenti in sé e assolutamente, per farne scaturire la natura organica e infine il soggetto conoscente, dando con ciò piena spiegazione di quella e di questo – mentre in realtà ogni elemento oggettivo, già in quanto tale, ha in varia maniera per condizione il soggetto conoscente, secondo le forme della sua conoscenza, e quelle forme presuppone; sì che svanisce del tutto, se si toglie di mezzo il soggetto. Il materialismo è adunque il tentativo di spiegar ciò che ci è dato immediatamente con ciò che ci è dato mediatamente. Tutto l'oggettivo, l'esteso, l'agente, cioè tutta la materialità, che dal materialismo è ritenuta così solido fondamento delle sue spiegazioni da non potersi più altro desiderare dopo essere stati ricondotti a quella (massimamente se mette capo da ultimo alla legge di azione e reazione), tutto questo, dico io, è qualcosa che è dato più che mediatamente e condizionatamente, sì da avere un'esistenza appena relativa: perché è passato attraverso il meccanismo e la fabbricazione del cervello, e penetrato così nelle forme di questo, tempo, spazio, causalità; in grazia delle quali comincia a presentarsi come esteso nello spazio ed agente nel tempo. Con un tal dato pretende il materialismo di spiegare persino il dato immediato ossia la rappresentazione (in cui quello è tutto compreso) e finalmente la volontà stessa, con la quale piuttosto sono in realtà da spiegare tutte quelle forze elementari che si manifestano legittimamente, seguendo il filo conduttore delle cause. All'affermazione, che il conoscere sia modificazione della materia, si contrappone sempre con egual diritto l'altra, che ogni materia non è se non modificazione del conoscere nel soggetto, come rappresentazione di questo. Nondimeno il fine e l'ideale di tutta la scienza della natura è una compiuta attuazione del materialismo. Ora, l'opinione che riconosce questo come palesemente impossibile è confermata da un'altra verità, che sarà per risultare dal seguito della nostra indagine: che cioè nessuna scienza nel significato preciso della parola – con la quale io intendo la conoscenza sistematica secondo il principio di ragione – può raggiungere una mèta finale né una spiegazione che soddisfi del tutto; perché non coglie mai la più intima essenza nel mondo, né mai può andare oltre la rappresentazione; bensì piuttosto null'altro insegna, in fondo, che il rapporto d'una rappresentazione con l'altra.
Ciascuna scienza parte sempre da due dati fondamentali. Di questi, l'uno è costantemente il principio di ragione, in una forma qualsiasi come organo; l'altra, il suo oggetto particolare, come problema. Così ad esempio la geometria ha per problema lo spazio, e come organo il principio d'esistenza nello spazio; l'aritmetica ha come problema il tempo, e il principio dell'essere nel tempo come organo; la logica ha per problema il collegamento dei concetti come tali, e per organo il principio di conoscenza; la storia ha come problema i fatti accaduti agli uomini nel loro complesso, e il principio di motivazione come organo; la scienza naturale infine ha la materia come problema, e come organo la legge di causalità. Sua mèta e suo scopo è quindi ricondurre l'uno all'altro e finalmente ad uno stato unico, seguendo il filo conduttore della causalità, tutti i possibili stati della materia; poi viceversa dedurli gli uni dagli altri, e alla fine da un unico stato. Due stati si trovano adunque come estremi nella storia naturale: lo stato in cui la materia è nel minor grado, e quello in cui essa è nel maggior grado oggetto immediato del soggetto: ossia la bruta, inerte materia, la materia primitiva, da una parte; e dall'altra l'organismo umano. La scienza naturale in quanto è chimica studia la prima, in quanto fisiologia il secondo. Ma finora questi due estremi non sono stati raggiunti, e s'è conquistato solo qualche punto fra di essi. Anzi, le prospettive sono alquanto disperate. I chimici, in base alla premessa che la divisibilità qualitativa della materia non vada all'infinito come la quantitativa, cercano di ridurre sempre più il numero dei suoi corpi semplici, che sono ancora circa 60: e li avessero pure ridotti a due: ancora vorrebbero ricondur questi due ad uno solo. Imperocché la legge d'omogeneità conduce alla ipotesi di un primo stato chimico della materia, che solo appartiene alla materia in quanto tale, ed ha preceduto tutti gli altri, come quelli che alla materia in quanto materia non sono essenziali, bensì appaiono forme e qualità casuali di essa. Per altro non si riesce a vedere come un tale stato, non essendovene un secondo in grado di agire su di esso, abbia potuto subire una trasformazione chimica; dal che nasce qui nel campo chimico il medesimo imbarazzo in cui cadde in fatto di meccanica Epicuro, quand'ebbe da mostrare come il primo atomo fosse deviato dalla direzione originaria del suo moto. Questa contraddizione, che sorge di per se stessa e non si può né impedire né risolvere, potrebbe benissimo esser presentata come un'antinomia chimica: e come essa si trova qui al primo dei due estremi della scienza naturale, così verrà a mostrarsi all'altro estremo una contraddizione corrispondente. Altrettanto poca speranza v'ha di raggiungere quest'altro estremo; perché sempre più si comprende che non può un fenomeno chimico essere ricondotto ad un fenomeno meccanico, né un fenomeno organico ad un fenomeno chimico o elettrico. E coloro che oggi s'incamminano di nuovo per questo sentiero fallace dovranno ben presto ritrarsene quatti quatti, come tutti i loro predecessori. Di ciò sarà fatto più ampio discorso nel libro seguente. Le difficoltà qui ricordate di sfuggita si oppongono alla scienza naturale nel suo stesso territorio. Presa come filosofia, ella sarebbe inoltre materialismo: ma questo porta fin dalla nascita, come abbiamo veduto, la morte nel cuore, perché passa sopra al soggetto e alle forme della conoscenza; le quali nondimeno vanno premesse tanto per la più bruta materia, da cui il materialismo vorrebbe muovere, quanto per la materia organica, a cui vuol pervenire. Imperocché «nessun oggetto senza soggetto» è il principio, che rende per sempre impossibile ogni materialismo. Sole e pianeti, senza un occhio che li veda e un intelletto che li conosca, si possono bensì esprimere a parole: ma queste parole sono per la rappresentazione un sideroxylon. È vero d'altra parte che la legge di causalità e l'osservazione e la ricerca della natura, che su quella si fonda, ci conducono necessariamente alla certezza che ogni più perfetto stato organico della materia ha seguito nel tempo uno stato più grossolano: che cioè gli animali sono comparsi prima degli uomini, i pesci prima degli animali terrestri, le piante anche prima dei pesci, la materia inorganica prima della organica; che quindi la materia primitiva ha dovuto traversare una lunga serie di modificazioni, innanzi che il primo occhio si aprisse. E tuttavia l'esistenza del mondo intero rimane sempre dipendente da questo primo occhio che si è aperto – fosse pure stato l'occhio di un insetto – come dall'indispensabile intermediario della conoscenza, per la quale e nella quale esclusivamente il mondo esiste, e senza la quale esso non può nemmeno essere pensato: perché il mondo è semplicemente rappresentazione; e tale essendo, abbisogna del soggetto conoscente come fondamento della sua esistenza. Anzi, quella medesima lunga successione di tempi, riempita da innumerevoli trasformazioni, attraverso cui la materia si elevò di forma in forma fino all'avvento del primo animale conoscente, può esser pensata soltanto nell'identità di una coscienza: di cui essa costituisce la serie delle rappresentazioni e la forma della conoscenza. Senza quest'identità, tale successione perde ogni senso e non è più nulla. Così vediamo da un lato l'esistenza del mondo intero dipendere di necessità dal primo essere conoscente, per quanto sia quest'ultimo ancora imperfetto; e dall'altro lato con la stessa necessità questo primo animale conoscente dipendere in tutto e per tutto da una lunga catena anteriore di cause e di effetti, alla quale esso viene ad aggiungersi come un piccolo anello. Queste due opposte vedute, a ciascuna delle quali siamo invero condotti da una pari necessità, si potrebbero dire anch'esse un'antinomia nella nostra facoltà conoscitiva, e porre a riscontro dell'antinomia trovata alla prima estremità della scienza naturale; mentre la quadrupla antinomia di Kant sarà dimostrata una inconsistente illusione nella critica della filosofia kantiana che fa da appendice all'opera presente. La contraddizione che qui da ultimo ci è necessariamente risultata si risolve tuttavia osservando che, per parlare nel linguaggio di Kant, tempo, spazio e causalità non appartengono alla cosa in sé, bensì esclusivamente al suo fenomeno, del quale essi sono forma; il che nel linguaggio mio viene a dire che il mondo oggettivo, il mondo come rappresentazione non è l'unico, bensì è uno degli aspetti, anzi l'aspetto esteriore del mondo; il quale ha poi un tutt'altro aspetto, che è la sua intima essenza, il suo nocciolo, la cosa in sé: e questo noi esamineremo nel libro seguente, dandogli il nome della più immediata fra le sue oggettivazioni – volontà. Ma il mondo come rappresentazione, il solo che qui consideriamo, comincia veramente dall'aprirsi del primo occhio, senza il quale mezzo della conoscenza esso non può esistere, e quindi non esisteva anteriormente. Ma senza quell'occhio, ossia senza la conoscenza, non c'era neppure nulla di anteriore, non c'era il tempo. Tuttavia non per ciò il tempo ha un principio, essendo invece ogni principio in esso: ma poi che il tempo è la forma più generale della conoscenza, in cui tutti i fenomeni vengono a connettersi mediante il vincolo della causalità, anche il tempo comincia ad esistere, in tutta la sua bilaterale infinità, con la prima conoscenza. Il fenomeno che riempie questo primo presente deve esser conosciuto come causalmente collegato e dipendente da una serie di fenomeni, che si stende all'infinito nel passato; il qual passato tuttavia è anch'esso altrettanto sotto condizione di questo primo presente, come viceversa questo di quello. Sicché, come il primo presente, anche il passato da cui esso deriva dipende dal soggetto conoscente e non è nulla senza di questo. Tuttavia il passato genera la necessità, che questo primo presente non apparisca come veramente primo, ossia come principio del tempo, senz'avere alcun passato per padre, bensì come seguito del passato, secondo il principio d'esistenza nel tempo. E così anche il fenomeno che lo riempie apparirà come effetto di stati anteriori, che riempivano quel passato secondo la legge di causalità. Chi ama le sottigliezze simboliche della mitologia può considerare come l'immagine del momento qui rappresentato, in cui principia il tempo, che tuttavia non ha principio, la nascita di Kronos (χρόονος‘) il più giovine titano; col quale, avendo egli evirato il padre, cessano i mostruosi prodotti del cielo e della terra, e viene in iscena la razza degli dèi e degli uomini.
Questa esposizione, nella quale siamo venuti seguendo le tracce del più conseguente fra i sistemi filosofici che prendono le mosse dall'oggetto – il materialismo, – serve nello stesso tempo a fare intuire l'indissolubile dipendenza reciproca, accompagnata da un'opposizione indistruttibile, fra soggetto ed oggetto; la qual conoscenza è di guida a cercare l'intima essenza del mondo, la cosa in sé, non più in uno di quei due elementi della rappresentazione, ma piuttosto in alcunché di affatto diverso dalla rappresentazione, che non sia partecipe di tale originaria, essenziale e quindi insolubile contraddizione.
Contro il su esposto dipartirsi dall'oggetto, per fare sviluppare da questo il soggetto, sta il partire dal soggetto per far spuntar fuori da questo l'oggetto. Se frequente e generale è stato in tutte le filosofie fino al giorno d'oggi quel primo sistema, del secondo si trova invece un unico esempio, e recentissimo: la pseudofilosofia di J. G. Fichte. Il quale merita quindi di venir notato sotto questo rispetto, per quanto poco genuino pregio e intimo contenuto abbia avuto la sua dottrina in sé stessa; essendo stata in verità nient'altro che un vaniloquio, il quale, esposto tuttavia con aria di profondissima gravità, tono sostenuto e vivo calore, e difeso con abile polemica contro deboli avversari, poteva brillare e aver l'apparenza d'essere qualche cosa. Ma a questo come a tutti gli altri somiglianti filosofi, che si conformano alle circostanze, mancava affatto la vera serietà, che insensibile a tutti gli influssi esteriori tien l'occhio fisso imperturbabilmente alla sua mèta – la verità. Né a lui di certo poteva capitare altrimenti. Imperocché il filosofo diventa sempre tale in virtù di una perplessità, che egli cerca di superare, e che è il θαυμαζεινdi Platone, che Platone medesimo chiama μαλα φιλοσοφικον παθος. Ma qui i falsi filosofi si distinguono dai veri, in questo, che nei veri quella perplessità nasce dalla vista diretta del mondo; negli altri invece soltanto da un libro, da un sistema, che si trovano già belli e pronti. E questo era anche il caso di Fichte, che divenne filosofo solo a proposito della cosa in sé di Kant e senza di questa probabilissimamente si sarebbe occupato di tutt'altre cose con molto miglior successo, poiché possedeva un notevole talento retorico. Ma, se fosse almeno penetrato un po' addentro nel senso del libro che fece di lui un filosofo – la Critica della ragion pura – avrebbe capito che lo spirito della dottrina fondamentale della Critica è il seguente: che il principio di ragione non è, come vuole tutta la filosofia scolastica, una veritas aeterna, ossia non ha un valore incondizionato, fuori e sopra del mondo: bensì soltanto un valore relativo e condizionato, valido esclusivamente nel fenomeno, sia che si presenti come nesso necessario dello spazio o del tempo, o come legge di causalità o come legge del principio di conoscenza; che quindi l'essenza interna del mondo, la cosa in sé, non può mai essere trovata seguendo il principio di ragione, ma tutto ciò, a cui questo conduce, è ancora alla sua volta dipendente e relativo, è sempre soltanto un fenomeno, non cosa in sé; che inoltre il principio di ragione non si applica punto al soggetto, ma è solo forma degli oggetti, i quali appunto perciò non sono cose in sé; e con l'oggetto si presenta immediatamente insieme il soggetto, e quello con questo; sì che né l'oggetto può venir dopo il soggetto né questo dopo quello, come un effetto viene dopo la sua causa. Ma nulla di tutto ciò è minimamente penetrato in Fichte; la sola cosa che lo interessava in questo era il partire dal soggetto; via scelta da Kant per dimostrare falso il partire dall'oggetto, come s'era usato fino allora, il quale oggetto era perciò diventato la cosa in sé. Invece Fichte prese il partir dal soggetto per la cosa importante; suppose, come tutti gli imitatori, che se egli in ciò andasse più lontano di Kant, perverrebbe a superarlo; e ripetè in quest'indirizzo gli errori, che fino allora aveva commesso il dogmatismo, provocando appunto con ciò la critica di Kant. Così nulla era mutato nella sostanza; e il vecchio errore fondamentale, l'ammissione di un rapporto di causa ed effetto tra oggetto e soggetto, continuò come per l'innanzi; quindi il principio di ragione conservò, proprio come prima, un valore incondizionato. E la cosa in sé, invece di stare come al solito nell'oggetto, veniva ora trasferita nel soggetto della conoscenza; ma la completa relatività di entrambi – la quale indica che la cosa in sé, ossia l'intera essenza del mondo, non va cercata in essi, bensì fuori di questa come d'ogni altra esistenza condizionata – seguitò a rimanere, come per l'innanzi, sconosciuta. Proprio come se Kant non fosse esistito, il principio di ragione è in Fichte ancora quel che era in tutti gli scolastici, una aeterna veritas. Imperocché, come imperava sugli dèi degli antichi l'eterno fato, così imperavano sul Dio degli scolastici quelle aeternae veritates, ossia le verità metafisiche, matematiche e metalogiche, e presso alcuni anche la validità della legge morale. Queste sole verità erano affatto indipendenti da tutto: e in virtù della loro necessità esistevano tanto Dio che il mondo. In virtù adunque del principio di ragione, come d'una tale veritas aeterna, è l'Io per Fichte causa del mondo, ossia del Non-io, dell'oggetto: il quale appunto è sua conseguenza, sua produzione. Perciò si è ben guardato dall'esaminare o controllare più oltre il principio di ragione. Ma s'io dovessi indicare la forma di quel principio, seguendo la quale Fichte fa venir fuori il Non-io dall'Io, come dal ragno la sua tela, troverei che è il principio della ragione dell'essere nello spazio: perché solo riferendosi a questo acquistano un qualche senso e significato quelle tormentose deduzioni del modo come l'Io produce dal suo seno e fabbrica il Non-io – deduzioni le quali costituiscono il contenuto del più insensato e, anche solo per questo, del più noioso libro che mai sia stato scritto. La filosofia fichtiana, pel resto neppur degna di ricordo, c'interessa soltanto come il vero e proprio contrapposto, comparso tardi, dell'antichissimo materialismo; il quale era il più conseguente sistema che partisse dall'oggetto, come quella il più conseguente fra i sistemi che partono dal soggetto. Come il materialismo non s'accorgeva, che insieme col più semplice oggetto veniva a stabilire contemporaneamente anche il soggetto, così non s'accorgeva Fichte che insieme col soggetto (lo chiamasse poi come voleva) aveva già stabilito anche l'oggetto, perché nessun soggetto può esser pensato senza oggetto; e inoltre gli sfuggiva il fatto che ogni deduzione a priori, anzi in generale ogni dimostrazione, poggia sopra una necessità, ma ogni necessità si fonda esclusivamente sul principio di ragione. Imperocché l'esser necessario e il derivare da una data causa sono concetti equivalenti . E gli sfuggì che il principio di ragione non è altro se non l'universal forma dell'oggetto come tale, sì che già presuppone l'oggetto, né può viceversa, vigendo all'infuori e prima di quello, produrlo e farlo nascere conformemente alla propria legge. Insomma, adunque, il partir dal soggetto ha in comune col su esposto partir dall'oggetto il medesimo errore, di ammettere in anticipazione ciò che afferma di dedurre solo in seguito, ossia il necessario correlato del suo punto di partenza.
Ora, da codesti due contrari equivoci il nostro metodo si distingue toto genere, in quanto noi non partiamo né dall'oggetto né dal soggetto, ma dalla rappresentazione, come primo fatto della coscienza, di cui è essenzialissima forma fondamentale lo sdoppiarsi in oggetto e soggetto. La forma dell'oggetto alla sua volta è il principio di ragione nelle sue differenti forme, ciascuna delle quali domina talmente la classe di rappresentazioni a lei spettante, che, come s'è mostrato, con la conoscenza di tale forma è conosciuta insieme l'essenza dell'intera classe; non essendo questa (come rappresentazione) nient'altro per l'appunto che quella forma medesima. Così il tempo non è altro che il principio dell'essere nel tempo, ossia successione; lo spazio nient'altro che il principio di ragione nello spazio, ossia posizione; la materia nient'altro che causalità; il concetto (come sarà subito dimostrato) niente altro che relazione col principio di conoscenza. Questa integrale e costante relatività del mondo come rappresentazione, sia nella sua forma più generale (soggetto e oggetto), sia in quella sottoposta alla prima (principio di ragione), ci richiama, come s'è detto, a cercar l'intima essenza del mondo in un aspetto di esso del tutto diverso dalla rappresentazione – un aspetto che il libro seguente dimostrerà come cosa non meno immediatamente certa in ogni essere vivente.
Tuttavia bisogna dapprima esaminare ancora quella classe di rappresentazioni, che appartiene soltanto all'uomo: classe che ha per materia il concetto, e per correlato soggettivo la ragione; come correlato delle rappresentazioni finora considerate erano intelletto e sensibilità, che sono proprii di tutti gli animali .