§ 18.

In verità, il senso tanto cercato di questo mondo, che mi sta davanti come mia rappresentazione – oppure il passaggio da esso, in quanto pura rappresentazione del soggetto conoscente, a quel che ancora può essere oltre di ciò – non si potrebbe assolutamente mai raggiungere, se l'indagatore medesimo non fosse nient'altro che il puro soggetto conoscente (alata testa d'angelo senza corpo). Ma egli ha in quel mondo le proprie radici, vi si trova come individuo: ossia il suo conoscere, che è condizione dell'esistenza del mondo intero in quanto rappresentazione, avviene in tutto e per tutto mediante un corpo; le cui affezioni, come s'è mostrato, sono per l'intelletto il punto di partenza dell'intuizione di quel mondo. Codesto corpo è per il puro soggetto conoscente, in quanto tale, una rappresentazione come tutte le altre, un oggetto fra oggetti: i suoi movimenti, le sue azioni non sono da lui, sotto questo rispetto, conosciute altrimenti che le modificazioni di tutti gli altri oggetti intuitivi; e gli sarebbero egualmente estranee ed incomprensibili, se il loro senso non gli fosse per avventura svelato in qualche modo affatto diverso. In caso contrario, vedrebbe la propria condotta regolarsi con la costanza d'una legge naturale sui motivi che le si offrono, proprio come le modificazioni degli altri oggetti sono regolate da cause, stimoli, motivi. Ma non comprenderebbe l'influsso dei motivi meglio di quanto comprenda il nesso di ogni altro effetto, a lui visibile, con la causa rispettiva. All'intima, per lui incomprensibile essenza di quelle manifestazioni ed operazioni del suo corpo, egli seguiterebbe allora a dare i nomi di forza, qualità, carattere, a piacere: e non vedrebbe più addentro. Ma le cose non stanno così: al soggetto conoscente, che appare come individuo, è data la parola dell'enigma; e questa parola è volontà. Questa, e questa sola, gli dà la chiave per spiegare il suo proprio fenomeno, gli manifesta il senso, gli mostra l'intimo congegno del suo essere, del suo agire, dei suoi movimenti. Al soggetto della conoscenza, il quale per la sua identità col proprio corpo ci si presenta come individuo, questo corpo è dato in due modi affatto diversi: è dato come rappresentazione nell'intuizione dell'intelletto, come oggetto fra oggetti, e sottomesso alle leggi di questi; ma è dato contemporaneamente anche in tutt'altro modo, ossia come quell'alcunché direttamente conosciuto da ciascuno, che la parola volontà esprime. Ogni vero atto della sua volontà è immediatamente e ineluttabilmente anche un moto del suo corpo: egli non può voler davvero l'atto, senz'accorgersi insieme ch'esso appare come movimento del corpo. L'atto volitivo e l'azione del corpo non sono due diversi stati conosciuti oggettivamente, che il vincolo della causalità collega; non stanno fra loro nella relazione di causa ed effetto: bensì sono un tutto unico, soltanto dati in due modi affatto diversi, nell'uno direttamente, e nell'altro mediante l'intuizione per l'intelletto. L'azione del corpo non è altro, che l'atto del volere oggettivato, ossia penetrato nell'intuizione.

Nel seguito vedremo, che ciò vale per ogni movimento del corpo, non solo per quelli provocati da motivi, ma anche per quelli arbitrarii provocati da semplici stimoli; vedremo, anzi, che il corpo intero non è altro se non la volontà oggettivata, ossia divenuta rappresentazione – tutte cose che risulteranno e appariranno evidenti dalla successiva trattazione. Chiamerò dunque qui il corpo, sotto questo punto di vista, l'obiettità della volontà; mentre nel libro precedente e nella memoria sopra il principio di ragione l'avevo chiamato – secondo il punto di vista colà assunto intenzionalmente (quello dell'intuizione) – l'oggetto immediato. In un certo senso si può quindi anche dire: la volontà è la conoscenza a priori del corpo, e il corpo la conoscenza a posteriori della volontà. Decisioni della volontà, riferentisi anche al futuro, sono semplici riflessioni della ragione su ciò che si vorrà che allora avvenga, e non veri e proprii atti volitivi: soltanto l'attuazione suggella la risoluzione, che, finché non sia attuata, è ancor sempre un proposito soggetto a variare, ed esiste soltanto nella ragione, in abstracto. Nella semplice riflessione, volere ed agire sono distinti: nella realtà sono tutt'uno. Ogni vero, genuino, immediato atto volitivo è subito e direttamente anche un visibile atto del corpo: e corrispondentemente, d'altra parte, ogni azione sul corpo, subito e direttamente, è anche azione sulla volontà; come tale si chiama dolore, se ripugna alla volontà; benessere, piacere, se è a questa conforme. Assai diverse sono le gradazioni del dolore e del piacere. Ma si ha pieno torto, se si dà il nome di rappresentazioni al dolore ed al piacere, che non sono punto tali, bensì affezioni dirette della volontà nella sua manifestazione fenomenica, ch'è il corpo: un forzato, istantaneo volere o non volere l'impressione, che questo subisce. Sono da considerar semplici rappresentazioni, e vanno quindi eccettuate da quanto or ora s'è detto, soltanto alcune poche impressioni corporee che non eccitano la volontà, e per le quali il corpo diventa immediato oggetto della conoscenza, mentre come intuizione è già oggetto mediato nell'intelletto, al pari di tutti gli altri oggetti. S'intendono con ciò le affezioni dei sensi puramente oggettivi: della vista, dell'udito e del tatto; e solo in quanto codesti organi sono impressionati nella maniera specialmente caratteristica, specifica, naturale di ciascuno. Codesta è un'impressione così estremamente debole della sensibilità aumentata e specificamente modificata di tali organi, da non toccare la volontà; e, non turbata da nessuna eccitazione di quest'ultima, non fa che fornire all'intelletto i dati dai quali nasce l'intuizione. Ma ogni affezione di questi organi più intensa o di altra natura è dolorosa, ossia contraria alla volontà, all'oggettità della quale anch'essi dunque appartengono. Debolezza di nervi si manifesta in quanto le impressioni, le quali dovrebbero aver solo il grado di forza, che basti a farne dati per l'intelletto, raggiungono il grado più elevato, in cui muovono la volontà, ossia producono dolore o piacere; più sovente, invero, dolore, il quale in parte è ottuso ed indistinto, quindi non solo singoli suoni e forte luce fa dolorosamente avvertire, bensì produce anche una generale disposizione di malessere ipocondrico, senza venir chiaramente conosciuto. Inoltre, l'identità del corpo e della volontà si mostra fra l'altro anche nel fatto, che ogni movimento vivace ed eccessivo della volontà, ossia ogni affetto, scuote direttamente il corpo ed il suo intimo meccanismo, disturbando l'andamento delle sue funzioni vitali. Ciò si trova in modo speciale spiegato nella Volontà nella natura, p. 27 della seconda edizione.

Finalmente la conoscenza che io ho della mia volontà è, sebbene immediata, tuttavia inseparabile da quella del mio corpo. Conosco la mia volontà non nel suo complesso, non come unità, non appieno nella sua essenza; ma la conosco soltanto nei suoi singoli atti, e quindi nel tempo, ch'è forma del fenomeno del mio corpo, come d'ogni oggetto: sì che il corpo è condizione per la conoscenza della mia volontà. Questa volontà, senza il mio corpo, io non riesco invero a rappresentarmela. Nella memoria sul principio di ragione è bensì la volontà, o piuttosto il soggetto del volere, presentata come una speciale classe di rappresentazioni o oggetti: ma già quivi vedemmo codesto oggetto coincidere col soggetto, ossia cessar di essere oggetto. Noi chiamammo questa coincidenza il miracolo κατ’ εξοχην: in certo modo tutta l'opera presente è spiegazione di quello. In quanto conosco veramente la mia volontà come oggetto, la conosco come corpo: ma allora mi ritrovo daccapo nella prima classe di rappresentazioni stabilita in quello scritto, ossia fra gli oggetti reali. Verremo scorgendo sempre meglio, in seguito, che quella prima classe di rappresentazioni trova appunto la sua sola chiave e spiegazione nella quarta classe, anche colà stabilita, la quale non si contrappone più, propriamente, come oggetto al soggetto. E, in corrispondenza con ciò, dovremo arrivare a capire, attraverso la legge di motivazione che governa la quarta classe, l'intima essenza della legge di causalità, dominante nella prima, e di quanto accade in conformità della legge medesima.

L'identità, ora esposta in via provvisoria, della volontà e del corpo, può soltanto essere mostrata come qui per la prima volta s'è fatto e sempre più si farà in seguito; ossia dalla coscienza immediata, dalla conoscenza in concreto, venir elevata a nozione razionale, o trasportata nella conoscenza in abstracto. Viceversa non può, per la sua natura, venir provata, ossia esser dedotta come conoscenza mediata da un'immediata, appunto perché essa è la più immediata; e se non la prendiamo e teniamo per tale, attenderemo invano di riceverla in qualche modo mediatamente, come conoscenza derivata. Essa è una conoscenza di genere affatto speciale, la cui verità appunto perciò non può esser propriamente disposta sotto una delle quattro rubriche, in cui ho distinto ogni verità nello scritto sul principio di ragione, § 29 sgg.: ossia verità logica, empirica, metafisica e metalogica. Imperocché non è, come quelle, la relazione d'una rappresentazione astratta con un'altra rappresentazione, o con la forma necessaria della rappresentazione intuitiva od astratta: bensì è il rapporto di un giudizio con la relazione tra una rappresentazione intuitiva – il corpo – e ciò che non è punto rappresentazione, ma alcunché da questa toto genere diverso: volontà. Vorrei dunque distinguere questa verità da tutte le altre, e chiamarla verità filosofica κατ’ εξοχην. L'espressione di questa può esser formulata variamente, dicendo: il mio corpo e la mia volontà sono tutt'uno; oppure, ciò, che io chiamo mio corpo come rappresentazione intuitiva, chiamo mia volontà in quanto ne sono conscio in maniera del tutto diversa, non paragonabile a nessun'altra; oppure, il mio corpo è l'oggettità della mia volontà; oppure, prescindendo dal fatto che il mio corpo è mia rappresentazione, esso non è altro che mia volontà; e così via .

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