Mi sono qui proposto d'indicare come sia da leggere questo libro, perché si riesca possibilmente a capirlo. Quel che per suo mezzo dev'esser comunicato, è un unico pensiero. Eppure, malgrado ogni sforzo, non ho potuto trovare per comunicarlo nessuna via più breve che questo libro intero. Io considero quel pensiero come ciò, che per sì gran tempo s'è cercato sotto il nome di Filosofia, e la cui scoperta sembra quindi ai dotti in istoria altrettanto impossibile quanto quella della pietra filosofale, sebbene loro già dicesse Plinio: Quam multa fieri non posse, priusquam sint facta, judicantur? (Hist. nat., 7, 1).
Secondo l'aspetto da cui si considera quell'unico pensiero ch'io ho a comunicare, esso si mostra come ciò che s'è chiamato Metafisica, o Etica, o Estetica: e invero dovrebbe essere tutto codesto insieme, se fosse quel ch'io, come ho già affermato, ritengo che sia.
Un sistema di pensieri deve sempre avere un organismo architettonico, ossia tale, che sempre una parte sostenga l'altra, ma non questa anche sostenga quella: la pietra fondamentale sostiene tutte le parti, senza venir da esse sostenuta; il vertice è sorretto, senza sorreggere. Invece un pensiero unico deve, per quanto comprensivo esso sia, conservare la più perfetta unità. Si lasci pure, per il fine della propria comunicabilità, scomporre in parti: ma tuttavia deve la concatenazione di queste parti essere organica, ossia tale, che ogni parte altrettanto regga il tutto, quando viene retta dal tutto; nessuna è la prima e nessuna è l'ultima; l'intero pensiero guadagna in chiarezza mediante ogni sua parte, ed anche la più piccola particella non può venir compresa appieno, se già prima non è stato compreso l'insieme. Ma un libro deve intanto avere un primo ed un ultimo rigo, e per questo rimarrà sempre molto dissimile da un organismo, per quanto si mantenga somigliante a questo il suo contenuto: di conseguenza staranno qui in contrasto forma e contenuto.
Risulta da sé che, in tali circostanze, non v'ha altro consiglio, per vedere a fondo nel pensiero qui esposto, se non leggere il libro due volte, e a dir vero la prima volta con molta pazienza; la quale si può attingere soltanto dalla spontanea fiducia che il principio presupponga la fine, quasi altrettanto come la fine il principio; e così ogni parte che sta innanzi presupponga quella che segue, quasi altrettanto come questa quella. Io dico «quasi»: perché non è così in tutto e per tutto; e quanto era possibile di fare, per mettere innanzi ciò che meno richiede d'esser chiarito dal seguito, come del resto quanto poteva contribuire alla più facile comprensibilità e chiarezza possibile, è stato fatto onestamente e coscienziosamente. Anzi, questo sarebbe fino a un certo punto riuscito, se il lettore, ciò che è molto naturale, invece di fermarsi solo a quel che è detto di volta in volta, non pensasse anche alle deduzioni possibili: dalla qual cosa, oltre ai molti contrasti effettivamente esistenti con l'opinione dell'epoca e presumibilmente del lettore medesimo, tanti altri ancora possono sorgere anticipati ed arbitrari, che per conseguenza deve presentarsi come vivace disapprovazione ciò che ancora è semplice malinteso. Ma tanto meno si riconosce il malinteso, quando la limpidezza faticosamente raggiunta dell'esposizione e la chiarezza dell'espressione non lasciano forse mai in dubbio sul senso immediato d'ogni luogo del testo; sebbene non possano simultaneamente esprimere i suoi rapporti con tutto il complesso dell'opera. Perciò adunque richiede la prima lettura, come ho avvertito, una pazienza attinta alla fiducia, che nella seconda o molto o tutto sarà visto in ben altra luce. Inoltre il meditato sforzo di raggiungere una più piena e perfino più agevole comprensibilità in un argomento molto difficile dev'esser di scusa se qua e là si trova una ripetizione. Già la struttura del complesso, organica e non disposta a mo' di catena, ha reso necessario il toccar talora due volte lo stesso argomento. Appunto questa struttura, e la strettissima coerenza di tutte le parti, non ha consentito la divisione, d'altro canto per me così apprezzabile, in capitoli e paragrafi; e invece m'ha obbligato a contentarmi di quattro partizioni capitali, come a dire quattro aspetti dell'unico pensiero. In ciascuno di questi quattro libri bisogna specialmente guardarsi dal perdere di vista, disopra dai punti particolari de' quali per necessità si tratta, il pensiero essenziale cui quelli appartengono, e il procedere dell'esposizione nel suo complesso. Con ciò è formulata la prima richiesta, indispensabile come l'altra che seguirà, che io rivolgo al lettore malevolo (malevolo verso il filosofo, appunto perché il lettore è filosofo anch'esso).
La seconda è questa, che prima del libro si legga l'opera che gli serve d'introduzione, sebbene non stia qui unita, essendo comparsa cinque anni prima, col titolo: «Sulla quadruplice radice del principio della ragione sufficiente: trattazione filosofica». Senza la conoscenza di questa introduzione e propedeutica, la vera comprensione del presente scritto è del tutto impossibile; e il contenuto di quella è qui ognora presupposto, come se facesse parte dell'opera. D'altronde, se quella non avesse preceduto già di parecchi anni l'opera presente, non le starebbe ora innanzi come un proemio, bensì sarebbe incorporata nel primo libro; il quale ora, mancandogli ciò ch'è detto in quella trattazione, dimostra una certa incompiutezza per le lacune che di continuo deve riempire riferendosi ad essa. Era tuttavia così grande la mia ripugnanza a copiare me stesso, o a presentare un'altra volta faticosamente con altre parole ciò che già una prima volta avevo detto a sufficienza, che ho preferito questa via, quantunque avessi ora potuto dare al contenuto di quella memoria un'esposizione alquanto migliore, soprattutto sgombrandola di parecchi concetti derivati dalla mia troppa suggezione d'allora alla filosofia di Kant: categorie, senso interno ed esterno, e simili. Nondimeno codesti concetti si trovano colà, soltanto perché fino allora non m'ero profondamente addentrato in essi, e vi stanno quindi come elementi accessori, senz'alcun vincolo con l'essenziale; sì che la rettificazione di cotali luoghi in quella memoria si farà benissimo da sé nel pensiero del lettore, con la conoscenza dello scritto presente. Ma solo quando per mezzo di quella memoria si è conosciuto appieno ciò che sia e significhi il principio di ragione, dove si estenda e dove no il suo vigore, e come esso non preceda tutte le cose, per modo che il mondo venga ad esistere solo in conseguenza e conformità sua, essendone quasi il corollario; bensì non sia altro che la forma in cui l'oggetto sotto condizione del soggetto, di qualunque specie quello sia, viene ovunque conosciuto, in quanto il soggetto è un individuo conoscente: solo allora sarà possibile penetrare a fondo nel metodo di filosofare qui per la prima volta tentato, affatto diverso da tutti i precedenti.
Ma la medesima riluttanza a copiare me stesso parola per parola, o anche a dire una seconda volta proprio lo stesso con altre peggiori parole, dopo che avevo già la prima volta usato le migliori, ha prodotto ancora un'altra lacuna nel primo libro di quest'opera; avendo io tralasciato quanto si trova nel primo capitolo della mia memoria Sopra la vista e i colori, e che altrimenti avrebbe qui trovato posto integralmente. Quindi anche la conoscenza di questo piccolo scritto anteriore viene qui presupposta.
Finalmente la terza richiesta da fare al lettore potrebbe anche esser sottintesa: perché non è altra se non quella di conoscere la più importante apparizione che sia avvenuta da due secoli nella filosofia: intendo gli scritti principali di Kant. L'azione, che essi esercitano sullo spirito al quale effettivamente parlino, io la trovo invero paragonabile, come forse è già stato detto, all'operazione della cateratta sui ciechi: e se vogliamo continuare il paragone, il mio intento si può designare dicendo, che a coloro ai quali quell'operazione è riuscita ho voluto porre in mano gli occhiali che adoprano gli operati di cateratta, per l'uso dei quali è adunque prima condizione quell'atto operativo. Ma per quanto io prenda le mosse da ciò che il gran Kant ha fatto, tuttavia appunto lo studio serio delle sue opere mi ha fatto scoprire in quelle notevoli errori, ch'io dovevo staccare dal resto e mostrare come condannabili, per poter presupporre e adoprare puro e purgato da essi quanto nella dottrina kantiana è di véro e di eccellente. Tuttavia, per non interrompere e confondere la mia propria esposizione con la frequente polemica contro Kant, ho concentrato questa in una speciale appendice. Ora, secondo ho detto, come la mia opera presuppone la conoscenza della filosofia kantiana, così presuppone dunque pur la conoscenza di quella appendice: perciò sotto questo riguardo sarebbe consigliabile di leggere prima l'appendice, tanto più che il suo contenuto ha precisi rapporti proprio col primo libro dell'opera presente. D'altra parte non si potè evitare, per la natura della cosa, che anche l'appendice qua e là si riferisse all'opera stessa: da ciò nient'altro consegue se non che anch'essa, come il corpo dell'opera, deve esser letta due volte.
La filosofia di Kant è dunque la sola, di cui assolutamente si suppone una conoscenza a fondo per ciò che qui verrà esposto. Ma se per di più il lettore s'è ancora intrattenuto alla scuola del divino Platone, tanto meglio ne riuscirà preparato e disposto ad udirmi. Se poi anche è diventato partecipe del benefizio dei Veda, l'accesso ai quali, apertoci mediante le Upanisciade, è a' miei occhi il maggior privilegio che questo ancor giovine secolo può vantare sul precedente, in quanto io ritengo che l'influsso della letteratura sanscrita non sarà meno profondo che il rinascimento della cultura greca nel secolo xv, se adunque, io dico, il lettore ha già ricevuto e accolto con animo ben disposto anche la consacrazione dell'antichissima saggezza indiana, allora è nel miglior modo preparato a udire ciò che io ho da esporgli. La materia non sembrerà allora a lui, come a qualche altro, straniera o addirittura ostica; perché io, se non suonasse troppo superbo, vorrei affermare che ciascuna delle singole sentenze staccate, le quali costituiscono le Upanisciade, si lascia dedurre, come conclusione, dal pensiero ch'io devo comunicare; sebbene questo pensiero viceversa non si possa in alcun modo trovare colà.
Ma già sono i più de' lettori scattati con impazienza, prorompendo nel rimprovero a stento trattenuto per tanto tempo, come mai io possa osar di presentare al pubblico un libro con esigenze e condizioni, delle quali le due prime sono presuntuose e affatto immodeste: e questo in una epoca sì ricca di singolari pensieri, che in Germania soltanto per mezzo della stampa ve n'ha i quali diventano annualmente dominio comune in tremila opere dense di contenuto, originali, assolutamente indispensabili, e inoltre in periodici innumerevoli, o addirittura nei giornali quotidiani; in un'epoca, nella quale soprattutto non v'ha punto difetto di filosofi pienamente originali e profondi: sì che nella sola Germania vivono tanti di essi a un tempo, quanti prima potevan produrre varii secoli l'un dopo l'altro. Come mai dunque, interroga l'irato lettore, si può venirne a capo, se bisogna darsi tanto da fare per un libro solo?
Poiché non ho la minima obiezione da fare contro tali rimproveri, da questi lettori non m'attendo qualche gratitudine, se non per averli avvertiti in tempo, affinchè essi non perdano un'ora con un libro la cui lettura non potrebbe dar frutto senza la soddisfazione delle esigenze formulate, e perciò è da tralasciare affatto; massime essendovi d'altronde anche da scommetter grosso, che il libro non piacerebbe loro; che piuttosto esso sarà sempre soltanto paucorum hominum, e perciò paziente e modesto deve attendere i pochi, la cui maniera di pensare non comune lo trovi leggibile. Perché, anche astraendo dall'ampiezza d'idee e dallo sforzo che domanda al lettore, quale uomo colto del nostro tempo, in cui il sapere è arrivato vicino a quel mirabile punto dove paradosso ed errore sono tutt'uno, potrebbe sopportar di trovare quasi ad ogni pagina pensieri, che francamente contrastano con ciò che egli stesso, una volta per sempre, ha stabilito per vero e indubitato? E poi, come taluno si troverà spiacevolmente deluso, non imbattendosi qui in nessun discorso di ciò che egli proprio qui pensa di dover cercare, perché il suo modo di speculare s'incontra con quello di un grande filosofo vivente, il quale ha scritto libri davvero commoventi, ed ha soltanto la piccola debolezza di veder pensieri fondamentali, innati nello spirito umano, in tutto quanto egli ha imparato e accettato prima del suo quindicesimo anno! Chi potrebbe sopportare tutto ciò? Quindi il mio solo consiglio è di metter via il libro, ancora una volta. Ma temo io stesso di non uscirne così. Il lettore, una volta arrivato al proemio che lo respinge, ha pur comprato il libro a denaro sonante, e domanda che cosa ne lo risarcirà. Mio ultimo riparo è ora il rammentargli che egli può utilizzare un libro in vari modi, senza bisogno di leggerlo. Può, come tanti altri, riempire un vuoto della sua biblioteca, dov'esso, ben rilegato, farà certo buona mostra di sé. O anche deporlo sulla toilette o sul tavolino da the della sua dotta amica. O infine egli può ancora, ciò che di certo è il meglio di tutto ed io particolarmente consiglio, farne una recensione.
E così, dopo che mi son permesso lo scherzo, al quale non c'è pagina per quanto seria che non debba far posto in questa vita, la quale sempre e ovunque mostra una duplice faccia, offro con intima gravità il libro, con la fiducia che presto o tardi raggiungerà coloro, ai quali solo può esser rivolto; e d'altronde tranquillamente rassegnato a vedergli toccare in piena misura il destino, che sempre toccò alla verità, in ogni dominio del sapere, e tanto più in quello che più importa: alla quale verità è destinato solo un breve trionfo, fra i due lunghi spazi di tempo in cui ella è condannata come paradossale o spregiata come banale. E il primo destino colpisce insieme colui che l'ha trovata. Ma la vita è breve, e la verità opera lontano e lungamente vive: diciamo la verità.
(Scritto in Dresda nell'agosto 1818).