§ 36.

Al filo degli eventi tien dietro la storia: ella è prammatica, in quanto deduce quelli secondo la legge di motivazione, la qual legge determina la manifestantesi volontà, dove questa è illuminata dalla conoscenza. Nei gradi inferiori della sua oggettità, dove ancora agisce senza conoscenza, è la scienza naturale, che studia come etiologia le leggi delle variazioni dei suoi fenomeni, e quanto è in essi permanente studia come morfologia; la quale allevia il suo compito quasi infinito con l'aiuto dei concetti, raccogliendo il generale per ricavarne il particolare. Infine le semplici forme, nelle quali – per la conoscenza del soggetto in quanto individuo – appariscono le idee scisse nella pluralità, ossia tempo e spazio, sono studiate dalla matematica. Tutte queste, che hanno il nome comune di scienze, seguono il principio di ragione nei suoi vari atteggiamenti, e la materia loro è sempre il fenomeno, le sue leggi, i suoi nessi, e i rapporti che ne derivano. Ma qual maniera di conoscenza studia ciò che stando fuori e indipendente da ogni relazione è in verità la sola cosa essenziale del mondo, la vera sostanza dei suoi fenomeni, a nessun mutamento soggetta e quindi in ogni tempo con pari verità conosciuta – in una parola, le idee, che sono l'immediata e adeguata oggettità della cosa in sé, della volontà? È l'arte, l'opera del genio. Ella riproduce le eterne idee afferrate mediante pura contemplazione, l'essenziale e il permanente in tutti i fenomeni del mondo; ed a seconda della materia in cui riproduce, è arte plastica, poesia o musica. Sua unica origine è la conoscenza delle idee; suo unico fine la comunicazione di questa conoscenza. Mentre la scienza, tenendo dietro all'incessante e instabile flusso di cause ed effetti quadruplicemente atteggiati, ad ogni mèta raggiunta viene di nuovo sospinta sempre più lontano e non mai può trovare un termine vero, né un pieno appagamento, più di quanto si possa raggiungere correndo il punto in cui le nubi toccano l'orizzonte; l'arte all'opposto è sempre alla sua mèta. Imperocché ella strappa l'oggetto della sua contemplazione fuori dal corrente flusso del mondo e lo tiene isolato davanti a sé: e quest'oggetto singolo, ch'era in quel flusso una infinitamente minima parte, diviene per lei un rappresentante del tutto, un equivalente del molteplice infinito nello spazio e nel tempo: a questo singolo ella s'arresta: ella ferma la ruota del tempo: svaniscono per lei le relazioni: soltanto l'essenziale, l'idea, è suo oggetto. Noi possiamo adunque senz'altro indicarla come il modo di considerar le cose indipendentemente dal principio di ragione all'opposto della considerazione che appunto di tal principio tien conto, la quale è la via dell'esperienza e della scienza. Quest'ultima maniera di considerazione va paragonata ad una linea orizzontale corrente all'infinito; la prima, invece, alla verticale che la taglia in qualsivoglia punto. Quella che tien dietro al principio di ragione è la maniera razionale, che nella vita pratica, come nella scienza, sola vale e soccorre; quella che prescinde dal contenuto del principio stesso è la maniera geniale, che sola vale e soccorre nell'arte. La prima è la maniera di Aristotele; la seconda, in complesso, quella di Platone. La prima somiglia al violento uragano, che senza principio e fine trascorre, e tutto piega, scuote, trascina con sé: la seconda al placido raggio di sole, che traversa la via di quell'uragano senza esserne scosso. La prima somiglia alle innumerabili, impetuosamente agitate gocce della cascata, che sempre mutando non posano un attimo: la seconda al placido arcobaleno, che poggia su questo tumulto furioso. Solo mediante la pura contemplazione sopra descritta, assorbentesi intera nell'oggetto, vengono colte le idee, e l'essenza del genio sta appunto nella preponderante attitudine a tale contemplazione: e poi che questa richiede un pieno oblio della propria persona e dei suoi rapporti, ne viene che genialità non è altro se non la più completa obiettità, ossia direzione obiettiva dello spirito, contrapposta alla direzione subiettiva, che tende alla propria persona, ossia alla volontà. Quindi genialità è l'attitudine a contenersi nella pura intuizione, a perdersi nell'intuizione, e la conoscenza, che in origine esiste soltanto in servizio della volontà, sottrarre a codesto servizio; ossia il proprio interesse, il proprio volere, i propri fini perdere affatto di vista, e così spogliarsi appieno per un certo tempo della propria personalità per rimanere alcun tempo qual puro soggetto conoscente, chiaro occhio del mondo. E ciò non per pochi istanti; ma così durevolmente e con tanta conscienza, quanto è necessario per riprodurre con meditata arte il conosciuto, e «ciò che fluttua in ondeggiante apparizione fissare in durevoli pensieri». Gli è come se – perché il genio si riveli in un individuo – dovesse a questo esser toccata in sorte una tal misura di forza conoscitiva, da superar di molto quella che occorre al servizio d'una volontà individuale; e questo più di conoscenza, divenuto libero, diventa allora un soggetto sciolto da volontà, un lucido specchio dell'essenza del mondo. Così si spiega la vivacità spinta all'irrequietezza in individui geniali, di rado potendo loro bastare il presente, perché non riempie la loro conscienza; questo da loro quella tensione senza posa, quell'incessante ricerca di oggetti nuovi e degni di considerazione, quindi anche quell'ansia quasi mai appagata di trovare esseri a loro somiglianti, fatti per loro, coi quali possano comunicare; mentre l'ordinario figlio della terra, tutto riempito ed appagato dall'ordinario presente, in esso si assorbe, e trovando inoltre dappertutto pari suoi, possiede quello speciale benessere nella vita quotidiana, che al genio è negato. S'è riconosciuto come parte essenziale della genialità la fantasia, anzi talora la si è tenuta identica a quella: nel primo caso con ragione, a torto nel secondo. Imperocché oggetti del genio in quanto tale sono le eterne idee, le permanenti essenziali forme del mondo e di tutti i suoi fenomeni; ma la conoscenza dell'idea è, per necessità, intuitiva, non astratta: in tal modo sarebbe la conoscenza del genio limitata alle idee degli oggetti effettivamente presenti alla sua persona, e dipendenti dalla catena delle circostanze che a lui lì condussero, se la fantasia non allargasse il suo orizzonte molto di là dalla realtà della sua personale esperienza e non lo ponesse in grado di ricostruire, dal poco che è venuto nella sua effettiva appercezione, tutto il rimanente; e così far passare davanti a sé quasi tutte le possibili immagini della vita. Inoltre, gli oggetti reali quasi sempre non sono che manchevoli esemplari dell'idea in loro manifestantesi: quindi il genio ha bisogno della fantasia, per veder nelle cose non ciò che la natura ha in effetti formato, bensì ciò ch'ella si sforzava di formare, ma che a causa della lotta – nel precedente libro ricordata – delle sue forme tra loro, non è riuscita a compiere. Torneremo su questo proposito in seguito, trattando della scultura. La fantasia allarga dunque la cerchia visuale del genio oltre gli oggetti offrentisi in realtà alla sua persona; e l'allarga sia per la qualità che per la quantità. Quindi una non comune forza della fantasia è compagna, anzi condizione della genialità. Invece, quella non è prova di questa; anzi, possono anche uomini tutt'altro che geniali aver molta fantasia. Imperocché come si può considerare un oggetto reale in due modi opposti – o in modo puramente obiettivo, geniale, cogliendo l'idea di esso, o in modo comune, sol nelle sue relazioni con altri oggetti e con la propria volontà, conformi al principio di ragione – così anche un fantasma si può considerare nell'un modo e nell'altro: nel primo, esso è un mezzo per la conoscenza dell'idea, della quale è comunicazione l'opera d'arte; nel secondo, il fantasma è impiegato a costruir castelli in aria, che piacciono al nostro egoismo e al nostro capriccio, e momentaneamente ingannano e rallegrano. E così, facendo dei fantasmi in tal guisa intrecciati, vengono invero conosciute sempre le sole relazioni. Chi pratica questo giuoco è un cervello fantastico: facilmente confonderà le immagini, della sua fantasia, come fanno i romanzi ordinari d'ogni specie, che sollazzano i pari suoi ed il gran pubblico, per ciò che i lettori sognano di trovarsi al posto dell'eroe e trovano quindi il racconto molto piacevole.

L'uomo comune, questa mercé all'ingrosso della natura, che ne produce migliaia al giorno, è, come abbiamo detto, capace solo fugacemente di guardare le cose in maniera affatto disinteressata in ogni senso – ciò che costituisce la vera contemplazione. Può alle cose volgere la sua attenzione solo in quanto esse abbiano una qualsiasi relazione, anche se molto indiretta, con la sua volontà. Poi che sotto questo riguardo, il quale sempre richiede solamente la conoscenza delle relazioni, è bastevole ed anzi è spesso più valido il concetto astratto della cosa, non s'indugia a lungo l'uomo comune nell'intuizione pura, e quindi non poggia a lungo lo sguardo sopra un oggetto; bensì egli cerca sollecito in tutto ciò, che gli si offre, soltanto il concetto, al quale la cosa va ricondotta, come l'accidioso cerca la sedia – e non se ne interessa più oltre. Perciò si sbriga di tutto così alla svelta: di opere d'arte, di belli oggetti naturali, e dell'ognora significante spettacolo della vita in tutte le sue scene. Egli non s'indugia: cerca soltanto la sua strada nella vita, o anche, per ogni caso, tutto ciò che potrebbe essere un giorno la sua strada, ossia cerca notizie topografiche nel senso più ampio della parola: con l'osservazione della vita stessa come tale non sta a perder tempo. L'uomo geniale invece, la cui forza conoscitiva si sottrae, per la propria prevalenza, al servizio della sua volontà, si trattiene a considerar la vita per se stessa, si sforza di raggiunger l'idea d'ogni cosa, e non già le relazioni di ciascuna con le altre: perciò trascura sovente la considerazione del suo proprio cammino nella vita, e lo percorre quindi il più delle volte in modo abbastanza maldestro. Mentre per l'uomo comune il proprio patrimonio conoscitivo è la lanterna, che illumina la strada, esso è per l'uomo geniale il sole, che disvela il mondo. Questa sì dissimile maniera di guardar dentro alla vita, si fa presto visibile perfino dall'apparenza esterna dei due. Lo sguardo dell'uomo, in cui il genio vive e opera, fa distinguere costui facilmente, perché, vivace e fermo insieme, ha il carattere della contemplazione; quale possiamo vedere nelle immagini delle poche teste geniali, che la natura ha di quanto in quanto prodotto fra gli innumeri milioni. Invece nell'occhio dell'altro – quando non sia, come è il più spesso, opaco o insignificante – si osserva facilmente il vero contrapposto della contemplazione: il cercare. Per conseguenza l'«espressione geniale di una testa consiste nel palesarvisi un risoluto prevaler del conoscere sul volere, e quindi anche nell'esprimervisi un conoscere senz'alcuna relazione con un volere, ossia un puro conoscere». Viceversa, in teste quali sono di regola, predomina l'espressione del volere, e si vede che il conoscere entra sempre in azione solo in seguito a spinta del volere, e perciò è sempre indirizzato secondo motivi.

Poi che la conoscenza geniale, ossia conoscenza dell'idea, è quella che non segue il principio di ragione, l'altra invece che lo segue dà nella vita saggezza e raziocinio, e produce le scienze; perciò individui geniali avranno quelle manchevolezze che trae con sé la trascuranza dell'altro modo di conoscere. Tuttavia va qui notata la restrizione, che ciò ch'io verrò dicendo sotto tale riguardo, li tocca solo in quanto e mentre essi sono veramente in atto di aver la conoscenza geniale, e questo non è punto il caso in ogni momento di lor vita; imperocché la grande – sebbene spontanea – tensione, che si richiede per vedere le idee fuori della volontà, necessariamente si rilascia ed ha grandi pause; in cui gli uomini geniali vengono, sia riguardo ai pregi che ai difetti, su per giù a somigliare agli uomini comuni. Perciò s'è dai tempi più remoti indicata l'attività del genio come un'ispirazione; anzi, secondo esprime la parola stessa, come l'attività di un essere sovrumano distinto dall'individuo medesimo, che sol periodicamente s'impadronisce di questo. La ripugnanza degli individui geniali a diriger l'attenzione sul contenuto di principio di ragione, si rivelerà dapprima rispetto al principio d'esistenza, come ripugnanza per la matematica, la cui cognizione va alle forme più universali del fenomeno, tempo e spazio, che per l'appunto non sono se non forme del principio di ragione; ed è quindi proprio l'opposto di quella cognizione, che cerca viceversa il contenuto del fenomeno, l'idea esprimentevisi dentro, prescindendo da ogni relazione. Inoltre anche la trattazione logica della matematica ripugnerà al genio, perché questa, sbarrando la via alla vera e propria penetrazione, non appaga; bensì, presentando semplicemente una catena di sillogismi, secondo il principio della ragione di conoscenza, tra tutte le forze dello spirito occupa prevalentemente la memoria, per tenere ognora presenti le proposizioni anteriori, a cui ci si riferisce. Anche l'esperienza ha confermato, che grandi genii dell'arte non hanno alcuna attitudine per la matematica: mai è esistito un uomo eccellente in pari tempo nell'una e nell'altra. Alfieri narra di non aver mai potuto capire neppur il quarto teorema di Euclide. A Goethe la mancanza di cognizioni matematiche fu a sazietà rimproverata dagli stolti avversari della sua teoria dei colori: e invero quivi, dove non si trattava di calcolare e misurare su dati ipotetici, bensì d'immediata conoscenza intuitiva della causa e dell'effetto, era quel rimprovero così storto e fuori posto, che coloro hanno appunto tanto con esso mostrato alla luce del giorno la lor completa assenza di ragione, quanto con le altre lor sentenze degne del re Mida. Che oggi ancora, quasi un mezzo secolo dopo l'apparir della teoria goethiana dei colori, possano perfino in Germania rimanere indisturbate in possesso delle cattedre le fandonie neutoniane, e che si continui in tutta serietà a discorrere delle sette luci omogenee e della lor varia rifrangibilità, conterà un giorno tra le maggiori caratteristiche intellettuali dell'umanità in genere e del germanesimo in ispecie. Con lo stesso motivo sopra indicato si spiega il fatto notissimo, che viceversa eccellenti matematici hanno poca comprensione per le opere delle arti belle; secondo è espresso in modo particolarmente ingenuo dal noto aneddoto di quel matematico francese, che dopo aver letta l'Ifigenia di Racine domandò alzando le spalle: Qu'est-ce-que cela prouve? Poi che inoltre un'acuta comprensione dei rapporti secondo la legge di causalità e motivazione costituisce l'intelligenza, mentre la conoscenza geniale non è rivolta alle relazioni, ne viene che un uomo intelligente, in quanto e nel mentre è tale, non ha genio; e l'uomo di genio, in quanto e nel mentre è tale, non è intelligente. Infine la conoscenza intuitiva in genere, nel cui dominio esclusivo è l'idea, sta proprio di fronte alla conoscenza razionale o astratta, guidata dal principio di ragione del conoscere. È anche raro, com'è noto, trovar grande genialità unita a predominante ragionevolezza, che anzi al contrario individui geniali sono spesso in preda ad effetti violenti e irragionevoli passioni. E di ciò non è punto causa debolezza di ragione, bensì, in parte, eccezionale energia di tutto il fenomeno della volontà, che forma l'uomo di genio, e che si manifesta con la vivacità di tutti gli atti volitivi; e in parte predominio della conoscenza intuitiva, mediante sensi e intelletto, sull'astratta; quindi tendenza risoluta al campo intuitivo; – l'espressione del quale, energica in sommo grado, di tanto supera negli uomini geniali gl'incolori concetti, che non più questi, bensì quella dirige l'azione divenuta appunto perciò irrazionale: e per conseguenza l'impressione del presente è su di loro potentissima, li trascina all'atto inconsapevole, all'affetto, alla passione. Anche perciò, e soprattutto perché la lor conoscenza s'è in parte sottratta al servizio della volontà, nella conversazione baderanno non tanto alla persona, con la quale parlano, quanto alla cosa di cui parlano, che vivacemente aleggia loro dinnanzi: quindi giudicheranno in un modo troppo obiettivo, senza riguardo al proprio interesse, o racconteranno, invece di tacere, cose che prudenza vorrebbe taciute, e così via. Quindi, finalmente, sono inclinati a monologare, e possono in genere lasciar scorgere in sé tante debolezze, da avvicinarsi davvero alla follia. Che genialità e pazzia abbiano un lato in cui confinano, anzi si confondono, fu osservato sovente; e perfino l'estro poetico fu detto una specie di pazzia: amabili insania lo chiama Orazio (Od. III, 4), e «graziosa follia» Wieland nell'introduzione dell'Oberon. Lo stesso Aristotele, secondo riferisce Seneca (de tranq. animi, 15, 16) avrebbe detto: «Nullum magnum ingenium sine mixtura dementiae fuit». Il medesimo esprime Platone, nel sopracitato mito della caverna oscura (de Rep. 7), col dire: Coloro, che fuor della caverna hanno contemplata la vera luce solare e le cose davvero esistenti (le idee), non possono rientrando nella caverna più nulla vedere, perché i loro occhi hanno perduto l'abitudine dell'oscurità, né più sanno distinguere lì sotto le ombre; ed essi vengono perciò nei loro errori derisi dagli altri, che non sono mai usciti da questa caverna e da queste ombre. Egli dice anche espressamente nel Fedro (p. 317) che senza qualche follia non può darsi poeta vero; anzi (p. 327) che ciascuno, il quale nelle effimere cose conosca le eterne idee, apparisce qual folle. Pur Cicerone riferisce: «Negat enim, sine furore, Democritus, quemquam poëtam magnum esse posse, quod idem dicit Plato» (de divin. I, 37). E finalmente dice Pope:

Great wits to madness sure are near allied,
And thin partitions do their bounds divide.

Particolarmente istruttivo a questo proposito è il Torquato Tasso di Goethe; dove questi ci pone innanzi agli occhi non solo il dolore, il martirio proprio del genio in quanto tale, ma anche il suo perenne inclinar verso la follia. Infine l'immediato contatto tra genialità e pazzia è confermato dalle biografie di uomini genialissimi – per esempio Rousseau, Byron, Alfieri –, e da aneddoti delle altrui vite; per converso devo ricordare d'aver trovato, visitando frequentemente i manicomi, taluni soggetti dotati di capacità innegabilmente grandi, la cui genialità traluceva palese attraverso la follia; la quale nondimeno aveva qui preso del tutto il sopravvento. Ora, questo fatto non può essere attribuito al caso, perché da un lato il numero dei pazzi è relativamente assai piccolo, mentre dall'altro un individuo geniale è un fenomeno raro oltre ogni comune misura, e sol come straordinaria eccezione comparisce nella natura: basti a persuadercene il contare i genii davvero grandi che tutta intera l'Europa ha prodotto nell'era antica e nella moderna – ma comprendendovi soltanto gli autori di opere che in ogni tempo hanno conservato un durevole valore per l'umanità – e il numero di questi singoli paragonar coi 250 milioni d'uomini che, rinnovandosi di trenta in trent'anni, costantemente vivono in Europa. Ancora, non voglio tacere che varie persone ho conosciuto, dotate d'una superiorità intellettuale sicura, se pur non considerevole, che in pari tempo dimostravano una leggera aria di follia. Da questo può apparire che ogni elevazione dell'intelletto sopra il livello comune, essendo un carattere anormale, già disponga alla follia. Nondimeno voglio nel modo più breve possibile esporre la mia opinione sul motivo puramente intellettuale di quella parentela tra genialità e follia, poiché codesto esame contribuirà senza dubbio a chiarire la vera essenza della genialità, ossia di quella proprietà dello spirito che sola può produrre vere opere d'arte. Ma questo rende necessario anche un breve esame della follia.

Un chiaro, compiuto riconoscimento dell'essenza della follia; un esatto e limpido concetto di ciò che propriamente distingue il folle dal savio, non s'è ancora, per quanto io sappia, trovato. Né ragione, né intelletto si possono negare ai folli; imperocché questi discorrono e intendono, anzi spesso ragionano molto bene; di regola intuiscono con giustezza ciò ch'è loro presente, e scorgono il rapporto tra causa ed effetto. Visioni, simili a fantasmagorie febbrili, non sono punto un ordinario sintomo di follia: il delirio altera la percezione, la follia altera i pensieri. Il più delle volte invero non errano i folli nella cognizione dell'immediato presente, bensì il lor farneticare si riferisce ognora all'assente e passato, e solo per tal via al rapporto di quello col presente. Perciò adunque sembra a me che il loro male tocchi particolarmente la memoria; non già nel senso che questa manchi ad essi del tutto (che molti sanno a memoria molto, e riconoscono talora persone da tempo non vedute), ma che il filo della memoria sia rotto, smarrita la concatenazione costante di quella, e reso impossibile un regolare coordinato risovvenirsi di ciò che fu. Singole scene del passato si presentano con giustezza, come l'isolato presente: ma nel risalire indietro s'incontrano lacune, che i folli riempiono con fantasie, le quali o essendo sempre le medesime diventano idee fisse (e allora si ha monomania, malinconia) o cambiano ogni volta, in forma d'immaginazioni momentanee (chiamandosi in questo caso stravaganza, fatuitas). Perciò è tanto difficile ricavar da un folle, nel suo entrare in manicomio, informazioni sulla sua vita passata. Sempre più viene a confondersi nella sua memoria il vero col falso. Per quanto sia conosciuto rattamente l'immediato presente, lo si altera mediante la fittizia connessione con un immaginario passato: i folli ritengono quindi se stessi, o altri, identici a persone che esistono soltanto nel loro chimerico passato, non riconoscono invece talune persone note, ed hanno così, pur rappresentandosi con esattezza il singolo presente, ognora false relazioni di questo con l'assente. Quando la follia raggiunge un alto grado, viene una completa assenza di memoria, per cui il folle diventa affatto incapace di riferirsi ad alcunché di assente o di passato, ma è determinato esclusivamente dalla fantasia momentanea, in rapporto con le chimere che nel suo capo riempiono il passato. Allora non si è mai sicuri un istante, vicino a lui, dalla violenza o assassinio, quando non gli si tenga ognora davanti agli occhi la forza dominatrice. Il modo di conoscere del folle ha di comune con l'animale, l'essere entrambi limitati al presente; ma questo li distingue: che l'animale non ha propriamente alcuna rappresentazione del passato come passato, per quanto esso agisca sull'animale stesso per il mezzo dell'abitudine, sì che a mo' d'esempio il cane riconosce anche dopo anni il suo antico padrone, ossia riceve l'usata impressione dal suo sguardo, pur non avendo nessun ricordo del tempo da allora trascorso: mentre il folle invece reca pur sempre nella sua ragione un passato in abstracto, ma però falso, che per lui solo esiste; e questo, o rimane costante, o varia a momenti. Ora, l'influsso di questo falso passato impedisce anche quell'uso del presente, conosciuto con giustezza, che l'animale tuttavia può fare. Che intensa vita intellettuale, inattesi orribili eventi producono spesso follia, io mi spiego nel modo seguente. Ciascuna di quelle sofferenze è sempre, in quanto evento reale, limitata al presente; quindi passeggera e perciò non mai oltremisura grave; smisuratamente grande si fa solo col diventar dolore fisso. Ma come tale, esso non è più che un pensiero, e sta quindi nella memoria. Ora, se un tale affanno, una tal dolorosa consapevolezza o memoria è di tanto tormento da riuscire affatto intollerabile, tanto che l'individuo finirebbe col soggiacervi, – allora la natura in sì estremo grado angosciata ricorre alla follia, come all'estrema àncora di salvamento della vita: lo spirito, cotanto travagliato, fa come se strappasse il filo della propria memoria, riempie le lacune con chimere, e da un dolore intellettuale, che soverchia le sue forze, si rifugia nella follia – come si amputa un membro preso dalla cancrena e lo si sostituisce con altro di legno. Per esempio si consideri Aiace furioso, il re Lear e Ofelìa: imperocché le creature del genio vero, che sole si possono qui allegare, essendo a tutti note, sono per la lor verità da tenersi come persone reali; e d'altronde in ciò dimostra esattamente lo stesso anche la frequente esperienza effettiva. Una lontana somiglianza con quella maniera di passaggio dal dolore alla follia si scorge nel cercare che tutti spesso facciamo, di allontanare quasi meccanicamente un penoso ricordo, il quale improvviso ci sopravvenga, con una qualsiasi esclamazione o con un movimento, distogliendo noi stessi di là, distraendocene con violenza.

Se vediamo adunque il folle ben conoscere, nel modo indicato, il singolo presente, e anche qualche singolo passato, ma misconoscerne le relazioni e quindi errare e farneticare, proprio in ciò è il suo punto di contatto con l'individuo geniale. Imperocché anche il geniale, tralasciando la conoscenza delle relazioni conforme al principio di ragione, per vedere e cercar nelle cose soltanto l'idea loro, afferrare la lor vera essenza come intuitivamente gli si rivela (per la quale essenza un oggetto rappresenta tutta intera la sua specie, sì che, dice Goethe, un caso vale per mille), – anche il geniale perde con ciò di vista la conoscenza del nesso che lega le cose: il singolo oggetto della sua contemplazione, oppure il presente, da lui con eccessiva vivezza percepito, gli appariscono in così chiara luce, che i rimanenti anelli della catena a cui quelli appartengono vengono di conseguenza a trovarsi nell'ombra; la qual cosa produce fenomeni, che hanno con quelli della follia una somiglianza da tempo riconosciuta. Quel che in una singola cosa non esiste se non incompiutamente e indebolito da modificazioni, il modo di vedere del genio Io innalza fino all'idea, al compiuto: da per tutto quindi il genio vede estremi, e appunto perciò la sua azione va sempre all'estremo: non sa cogliere la giusta misura, gli manca la temperanza, e il risultato è quel che s'è detto. Conosce le idee appieno, ma non gl'individui. Perciò un poeta, come fu osservato, può conoscere intimamente e a fondo l'uomo, molto male invece gli uomini: egli è facile a essere ingannato, ed è un trastullo in mano degli astuti.

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