Rappresentare intuitivamente, in maniera diretta, l'idea nella quale la volontà raggiunge il massimo grado della sua oggettivazione, è finalmente il gran compito della pittura storica e della scultura. Il lato obiettivo del piacere prodotto dal bello è qui affatto prevalente, e il lato soggettivo è rientrato nella penombra. Inoltre è da osservare, che ancor nel grado immediatamente più prossimo sotto di questo, nella pittura animale, il caratteristico è tutt'uno col bello: il più caratteristico leone, lupo, cavallo, pecoro, toro v'è anche ognora il più bello. La ragione di questo è che gli animali hanno solo il carattere della specie, e nessun carattere individuale. Ma nella rappresentazione dell'uomo si distingue invece il carattere della specie dal carattere dell'individuo: quello si chiama bellezza (in senso del tutto oggettivo), mentre questo mantiene il nome di carattere o espressione; e subentra la nuova difficoltà, di rappresentarli entrambi in pari tempo nello stesso individuo.
Umana bellezza è un'espressione oggettiva, la quale indica la più perfetta oggettivazione della volontà nel grado più alto della sua conoscenza possibile, l'idea dell'uomo in genere, pienamente espressa nella forma intuita. Ma per quanto prevalga qui il lato oggettivo del bello, rimane tuttavia suo perenne compagno il soggettivo. E appunto perché nessun oggetto ci rapisce così presto nell'intuizione puramente estetica, come fa il bellissimo aspetto e la forma dell'uomo, alla cui vista subitamente un piacere inesprimibile ci coglie, e sopra noi stessi e ogni nostro tormento ci eleva; appunto per questo ciò è possibile solo in quanto cotale evidentissima e purissima conoscibilità della volontà anche ci trasporti nel modo più lieve e rapido in quello stato del puro conoscere, in cui la nostra personalità, il nostro volere, con la sua assidua pena, svanisce, fin quando persiste la pura gioia estetica: perciò dice Goethe: «Chi scorge l'umana bellezza, niente di male può spirargli contro: egli si sente con se stesso e col mondo in accordo». Che alla natura possa riuscir una bella figura d'uomo, si spiega col fatto che la volontà, oggettivandosi a tale altissimo grado in un individuo, vince appieno sia per favorevoli circostanze sia per forza propria tutti gli ostacoli e la resistenza opposti a lei dalle manifestazioni della volontà nei gradi inferiori: di codesta sorte son le forze naturali, a cui ella deve ognora cominciar col conquistare e strappare la materia, a tutte comune. Inoltre il fenomeno della volontà nei gradi superiori ha sempre varietà di forma: già l'albero non è che un sistematico aggregato di germinanti fibre moltiplicate indefinitamente: questa complessità s'accresce man mano che si salga nei gradi, e il corpo umano è un complicatissimo sistema di parti affatto diverse, ciascuna delle quali, al complesso subordinata, ha tuttavia anche una vita propria. E l'esser tutte codeste parti appunto nel giusto modo subordinate all'insieme, e il contribuire armonicamente all'aspetto generale, nulla trovandovisi di eccessivo, nulla di manchevole; tali son le rare condizioni, di cui è risultato la bellezza, il carattere della specie perfettamente improntato. Così fa la natura. Ma come fa l'arte? Si crede, con l'imitar la natura. Ma a che cosa riconoscerebbe un artista l'opera di natura ben riuscita e da imitare, scegliendola tra le non riuscite, se egli non avesse del bello una nozione anteriore all'esperienza? E poi, ha mai la natura prodotto un essere umano perfettamente bello in ogni parte? Allora s'è pensato che l'artista dovesse scegliere le parti belle singolarmente distribuite in molte creature, per comporne un solo essere perfetto: opinione assurda e insensata. Imperocché ci si torna a chiedere: a qual segno deve conoscere, che proprio queste forme sono le belle, e non le altre? E possiamo vedere che sorta di bellezza hanno trovata gli antichi pittori tedeschi, con l'imitar la natura! Basta guardare i loro nudi. No: a posteriori, e per semplice esperienza, non si può aver cognizione del bello: questa è sempre, almeno in parte, a priori, sebbene di tutt'altra specie che i modi a noi noti a priori del principio di ragione. Questi si riferiscono alla general forma del fenomeno come tale, in quanto essa è base alla conoscenza in genere, al come – universale e senza eccezione – del fenomeno (da tal conoscenza nascono matematica e scienza naturale pura). Invece quell'altra maniera di conoscenza a priori, che rende possibile la rappresentazione del bello, non concerne la forma, bensì il contenuto dei fenomeni: non il «come» del loro manifestarsi, bensì il «che cosa». Noi tutti conosciamo, vedendola, la beltà umana; ma nell'artista una tal conoscenza avviene con tal chiarezza, ch'egli mostra quella beltà, come non l'ha veduta mai, e sorpassa nella sua rappresentazione la natura: questo è possibile sol perché la volontà, la cui adeguata oggettivazione nel suo massimo grado va qui giudicata e scoperta, è noi stessi. Solo così possiamo avere in effetti una cognizione anticipata di ciò che la natura (la quale è appunto la volontà che costituisce il nostro proprio essere) si sforza di rappresentare; e codesta cognizione anticipata nel vero genio s'accompagna con tal grado di riflessione, che esso, mentre nel singolo oggetto conosce l'idea rispettiva, quasi viene a comprender la natura attraverso mezze parole; e così può esprimer nettamente ciò ch'ella appena balbetta; tanto da imprimer nel duro marmo la bellezza della forma che a lei in mille tentativi fallisce, e quella bellezza contrappone alla natura, quasi esclamando: «Questo era, ciò che tu volevi esprimere!» – e, «Sì, questo era!» fa eco l'intenditore. Solo così potè il greco geniale scoprire il prototipo della forma umana, e porlo come canone nella scuola della scultura; ed anche solo in grazia di tale anticipazione è a noi tutti possibile di conoscere il bello, là dove esso è alla natura in un singolo esemplare effettivamente riuscito. Codesta anticipazione è l'ideale: è l'idea, in quanto essa, almeno a metà, è conosciuta a priori, e, come tale, venendo a completar quanto ci è offerto dalla natura a posteriori, diventa pratica per l'arte. La possibilità di simile anticipazione del bello a priori nello scultore, come del suo riconoscimento a posteriori nell'intenditore, sta in questo, che artista e conoscitore sono essi medesimi l'in-sé della natura, l'oggettivantesi volontà. Soltanto dal simile, come disse Empedocle, si conosce il simile: soltanto natura può comprendere se stessa; soltanto natura da fondo a se stessa: e similmente dal solo spirito è inteso lo spirito.
L'assurda opinione che i greci abbiano trovato l'ideale della umana bellezza in modo affatto empirico, mediante scelta di singole parti belle, qui un ginocchio, là un braccio denudando o notando, ha del resto il suo riscontro in un'opinione analoga concernente la poesia: l'opinione che, p. es., gl'infinitamente vari caratteri de' suoi drammi, così veri, così sostenuti, così ricavati dal profondo, abbia Shakespeare notati nella propria personale esperienza della vita sociale, e poi riprodotti. L'impossibilità e assurdità di tale opinione non ha bisogno d'esser dimostrata: è evidente che il genio, come produce le opere dell'arte plastica sol per mezzo di una presaga anticipazione del bello, così produce le opere della poesia solo mediante una consimile anticipazione del caratteristico; per quanto l'una e l'altra richiedano l'esperienza come uno schema, indispensabile, perché quanto era loro noto oscuramente a priori venga innalzato alla piena chiarezza, e nasca così la possibilità di una meditata rappresentazione.
Umana bellezza fu qui sopra spiegata come la più perfetta oggettivazione della volontà nel più alto grado della sua conoscibilità. Essa si esprime attraverso la forma: questa è soltanto nello spazio, e non ha relazione necessaria col tempo; come l'ha, per esempio, il moto. Possiamo dire adunque: l'adeguata oggettivazione della volontà per mezzo d'un fenomeno spaziale è bellezza, nel senso oggettivo. La pianta non è altro che un tal fenomeno, puramente spaziale, della volontà; imperocché nessun movimento e quindi nessuna relazione col tempo (astraendo dal suo sviluppo) appartiene all'espressione della sua essenza: la sua forma esprime da sola tutta la sua essenza, e aperta la palesa. Ma uomo e animale per la piena rivelazione della volontà in loro manifestantesi abbisognano ancora d'una serie di atti, attraverso cui quel fenomeno viene a prendere in essi un'immediata relazione col tempo. Tutto ciò fu già spiegato nel libro che precede: alla nostra indagine presente si riannoda per quanto segue. Come il fenomeno puramente spaziale della volontà può oggettivar quest'ultima in ciascun grado perfettamente o imperfettamente, il che produce appunto bellezza o bruttezza: così può anche la temporale oggettivazione della volontà, ossia l'azione, e precisamente l'azione immediata, il movimento, corrisponder in modo puro e perfetto alla volontà che in lei si oggettiva; senza estranea mescolanza, senza superfluità, senza manchevolezza, ma solo esprimendo per l'appunto ogni volta quel determinato atto di volontà; – oppure può tutto questo accadere a rovescio. Nel primo caso, il movimento è compiuto con grazia; e nel secondo, senza. Come adunque bella è la ben rispondente rappresentazione della volontà in genere mediante il suo fenomeno puramente spaziale, così è grazia la ben rispondente rappresentazione della volontà mediante il suo fenomeno temporale; ossia l'espressione in tutto giusta e commisurata di ciascun atto di volontà, per mezzo del movimento e della posizione che l'oggettiva. Poiché movimento e posizione già presuppongono il corpo; quindi è giustissima e calzante la definizione di Winckelmann, quando dice: «La grazia è il particolare rapporto della persona agente con l'azione» (Werke, vol. I, p. 258). Se ne ricava naturalmente, che a piante può attribuirsi bellezza, ma non grazia, fuor che in senso figurato; ad animali e uomini entrambe, bellezza e grazia. La grazia consiste, adunque, in questo: che ogni movimento e atteggiamento venga eseguito o preso nel modo più facile, più conveniente e più comodo, e sia quindi l'espressione diretta del proposito suo, ossia dell'atto di volontà, senza nulla di superfluo (che il superfluo si presenta come agitazione disordinata, priva di senso, o posizione assurda) né di manchevole (che produce lignea rigidità). La grazia richiede, come condizione, un giusto equilibrio di tutte le membra, una regolare, armonica struttura del corpo; poiché sol per questo mezzo è possibile il perfetto agio e la palese opportunità in tutte le posizioni e movenze: e quindi la grazia non si dà senza un certo grado di bellezza corporea. Questa e quella perfette e congiunte sono il più limpido fenomeno della volontà nel grado supremo della sua oggettivazione.
È uno de' contrassegni dell'umanità – l'abbiamo osservato – il trovarsi in lei distinti il carattere della specie e quel dell'individuo; sì che, com'è detto nel libro precedente, ciascun essere umano rappresenta, in un certo senso, un'idea tutta a sé. Quindi le arti il cui fine è posto nel rappresentar l'idea dell'umanità, hanno per compito, oltre la bellezza – carattere della specie – anche il carattere individuale, che suol chiamarsi appunto carattere senz'altro. Quest'ultimo tuttavia, alla sua volta, solo in quanto sia da considerarsi non già come alcunché di casuale, come una singolarità appartenente in proprio a un dato individuo; bensì come un aspetto, specialmente rilevantesi in quell'individuo, dell'idea dell'umanità: a palesare la quale è perciò opportuna la rappresentazione dell'individuo medesimo. Quindi il carattere, pur essendo individuale, deve tuttavia esser colto e rappresentato idealmente, ossia mettendo in rilievo la sua significanza in rapporto con l'idea dell'umanità in genere (alla cui oggettivazione esso contribuisce a sua guisa): e oltre a ciò poi la rappresentazione è ritratto, riproduzione del singolo come tale, con tutte le sue accidentalità. Ma il ritratto medesimo dev'essere, come dice Winckelmann, l'immagine ideale dell'individuo.
Quel carattere, da cogliersi idealmente, che è il rilievo di uno speciale aspetto dell'idea dell'umanità, si fa visibile nei transitori affetti e passioni, nelle reciproche alterne modificazioni del conoscere e del volere: cose tutte esprimentisi nel volto e nel movimento.
Appartenendo ognora l'individuo all'umanità, e viceversa rivelandosi ognora l'umanità nell'individuo, anzi rivelandosi con la particolar significazione ideale di esso, non può né la bellezza esser cancellata dal carattere, né questo da quella: perché soppressione del carattere della specie a tutto vantaggio di quello individuale darebbe caricatura; e soppressione dell'individuale, per lasciare il solo carattere della specie, darebbe insignificanza. Dovrà quindi la rappresentazione, in quanto miri alla bellezza, – il che fa soprattutto la scultura – sempre modificar tuttavia quella (ossia il carattere della specie) in taluna cosa mediante il carattere individuale; e l'idea dell'umanità sempre esprimere in determinata, individuale maniera, rilevandone un particolare aspetto; imperocché l'umano individuo come tale ha la dignità di un'idea sua propria, ed all'idea dell'umanità è appunto essenziale il manifestarsi in individui di speciale significazione. Perciò nelle opere degli antichi troviamo, che la bellezza da loro limpidamente intuita non è espressa da una figura sola, ma da molte, aventi carattere diverso, quasi fosse colta sempre sotto un nuovo aspetto, e quindi altrimenti rappresentata in Apollo, altrimenti in Bacco, altrimenti in Ercole, altrimenti in Antinoo: anzi, il caratteristico può limitare il bello e addirittura arrivar fino alla bruttezza, nel Sileno ebbro, nel Fauno, e così via. Ma se il caratteristico perviene a sopprimer veramente il carattere della specie, ossia a toccare l'innaturale, diventa caricatura. Tuttavia molto meno ancora della bellezza deve la grazia venir sopraffatta dal caratteristico: qualunque posizione e movimento richieda l'espressione del carattere, devono tuttavia quelli esser presi o compiuti nel modo più adatto alla persona, più confacente allo scopo e più facile. Tale precetto osserverà non soltanto lo scultore e pittore, ma pur ciascun buon attore: in caso contrario, si ha anche qui caricatura, sotto forma di contorcimento, distorsione.
Nella scultura rimangono bellezza e grazia la qualità essenziale. Il vero carattere dello spirito, rilevantesi in affetto, passione, giuoco alterno del conoscere e volere, rappresentabile solo mediante l'espressione del volto ed il gesto, è soprattutto privilegio della pittura. Perché sebbene occhi e colorito, – i quali stanno fuor del dominio della scultura – molto contribuiscano alla bellezza, ben più sono essenziali per il carattere. Inoltre la bellezza si dispiega più completamente a chi l'osservi da vari lati: mentre la espressione, il carattere, possono anche da un sol punto di vista essere compresi appieno.
Essendo la bellezza precipuo fine della scultura, ha Lessing cercato di spiegare il fatto che Laocoonte non grida, con l'addurre che il gridare non sia compatibile con la bellezza. Poi che per Lessing questo argomento divenne il tema, o per lo meno il punto di partenza, d'un libro speciale, ed anche prima e dopo di lui tanto vi si è scritto intorno, sia a me concesso di esporre qui per incidenza la mia opinione a questo proposito; sebbene un'analisi tanto particolare non entri propriamente nella trama di un'argomentazione, che mira, in modo esclusivo, ai principi generali.