Se ora, armati delle nostre considerazioni precedenti sull'arte in generale, ci volgiamo dalle arti figurative alla poesia, non dubiteremo, che anch'essa si proponga di rivelar le idee – gradi dell'oggettivazione della volontà – e con quella chiarezza e vivacità, in cui le percepì l'animo del poeta, comunicarle all'ascoltatore. Le idee sono essenzialmente intuitive: se quindi ciò, che nella poesia vien comunicato direttamente con parole, sono concetti astratti, è nondimeno palese l'intenzione di far che il lettore intuisca, nei rappresentanti di codesti concetti, le idee della vita; la qual cosa non può aversi senza l'aiuto della fantasia di lui. Ma per scuoter quest'ultima in conformità del fine, devono i concetti astratti, che sono il diretto materiale della poesia come della più arida prosa, esser riuniti in modo, che le loro sfere s'intersechino, sì che nessuna possa permaner nella sua astratta universalità; e in luogo di questa si presenti alla fantasia un suo rappresentante intuitivo, che le parole del poeta vengano sempre più a modificare secondo l'intento proposto. Come il chimico da liquidi affatto chiari e trasparenti ricava, mescolandoli, precipitazioni solide, così il poeta sa dall'astratta, trasparente universalità dei concetti, secondo la maniera con cui li collega, far precipitare il concreto, l'individuale, la rappresentazione intuitiva. Imperocché solo intuitivamente vien conosciuta l'idea: e conoscenza dell'idea è lo scopo di tutte le arti. La maestria del poeta, come quella del chimico, lo fa capace di raccoglier sempre quel precipitato per l'appunto che si era proposto. A tal fine servono nella poesia i molti epiteti, dai quali viene limitata l'universalità di ciascun concetto, sempre più, fino a renderlo intuibile. Omero accoppia quasi a ogni sostantivo un aggettivo, il cui concetto taglia la sfera del concetto primo, e tosto considerevolmente la riduce, sì che questo già molto s'avvicina all'intuizione: per esempio
Εν δ’επεσ΄ Ωκεανω λαμπρον φαος ηελιοιο,
‘Ελκον νυκτα μελαιναν επι ξειδωρον αρουραν.
(Occidit vero in Oceanum splendidum lumen solis,
Trahens noctem nigram super almam terram).
E i versi:
Un lieve vento dal cielo azzurro spira,
Sta immoto il mirto ed alto sta l'alloro.
Da pochi concetti traggono innanzi alla fantasia sensibilmente tutta l'ebbrezza del clima meridionale.
Ausiliarii tutti proprii della poesia sono ritmo e rima. Del loro effetto, efficace in modo incredibile, non so dare altra spiegazione se non questa: che le nostre forze rappresentative, essenzialmente legate al tempo, ne abbiano derivata una proprietà, in grazia della quale noi si segue internamente ogni suono ripetentesi a regolari intervalli, e quasi facciamo coro. Perciò in parte ritmo e rima diventano un vincolo per la nostra attenzione, facendoci ascoltar più volentieri la recitazione; e in parte sorge dentro di noi per loro mezzo quasi un intuitivo accompagnamento musicale, anteriore a ogni giudizio, di ciò che vien recitato: dal che questo prende un certo potere di persuasione enfatico, indipendente da tutte le ragioni.
Per l'universalità della materia, di cui la poesia si vale a comunicar le idee – ossia, de' concetti – molto vasta è la cerchia del suo dominio. La natura tutta quanta, le idee in tutti i gradi si posson per suo mezzo rappresentare, nel mentre ella, a seconda dell'idea che vuol comunicarci, procede or descrivendo, ora narrando, ora rappresentando direttamente in forma drammatica. Ma, se nel rappresentare i gradi infimi dell'oggettità della volontà, l'arte figurativa supera il più delle volte la poesia, perché la natura inconsciente e anche quella puramente animale tutta l'essenza loro rivelano in un unico momento ben colto; viceversa è l'uomo – in quanto non con la semplice sua forma o con l'espressione del volto rivela se stesso, ma con una catena d'azioni e coi pensieri e affetti che l'accompagnano – il principale oggetto della poesia: e nessun'altra arte può gareggiare con lei, perché in questo alla poesia soccorre il progressivo sviluppo dell'argomento, negato alle arti figurative.
Rivelazione di quella idea, che è il grado più alto nell'oggettità della volontà, rappresentazione dell'uomo nella serie coordinata delle sue tendenze e dei suoi atti, questo è il grande soggetto della poesia. È vero bensì che anche l'esperienza, anche la storia insegnano a conoscere l'uomo; ma più spesso gli uomini che non l'uomo: ossia danno notizie empiriche sul contegno degli uomini tra loro, dalle quali emergono regole per la condotta individuale, piuttosto che far penetrare lo sguardo addentro nell'intimo essere dell'uomo. Non che questa penetrazione sia loro del tutto preclusa: ma ogni qual volta veramente si apra a noi nella storia, o nella personale esperienza, l'essenza dell'umanità, vuol dire che o da noi l'esperienza, o dallo storico la storia sono state percepite già con occhi d'artista, poeticamente, ossia nell'idea, e non nel fenomeno, nell'intimo essere, e non nelle relazioni. Assoluta condizione, per comprendere la poesia come la storia, è l'esperienza propria: perché è quasi il dizionario della lingua, che parlano entrambe. Ma la storia sta alla poesia come il ritratto sta al quadro storico: quello rende il vero nel particolare, questo il vero in generale: quello rende la verità del fenomeno, e col fenomeno documenta la verità; questo rende la verità dell'idea, che non si trova in nessun fenomeno singolo ma da tutti parla. Il poeta rappresenta con opportuna scelta e intenzione significanti caratteri in significanti situazioni: lo storico prende queste e quelli come vengono. Anzi, egli non ha da considerare e scegliere le circostanze e le persone secondo la loro interna, genuina significazione, esprimente l'idea; ma piuttosto secondo la significazione esterna, apparente, relativa, importante rispetto ai loro nessi, alle loro conseguenze. Nessuna cosa può guardare in sé e per sé, nel carattere e nell'espressione essenziali, bensì deve tutto considerare in rapporto alla relazione, alla concatenazione, all'influsso e a ciò che ne consegue; in rapporto, soprattutto, alla sua epoca. Non potrà quindi trascurar l'azione di un re, anche se poco importante, anzi in se stessa ordinaria: perché quest'azione ha conseguenze ed effetto. Viceversa non dovrà far cenno di azioni per se medesime significantissime, compiute da singoli, eminenti individui, quando non abbiano avuto né conseguenze né effetto. Imperocché la sua indagine procede secondo il principio di ragione, e s'attacca al fenomeno, di cui quello è forma. Coglie invece il poeta le idee, l'essenza dell'umanità, fuori d'ogni relazione, fuor d'ogni tempo, adeguata oggettità della cosa in sé nel suo grado più alto. Anche se in quella maniera d'indagine ch'è necessaria allo storico non può andar del tutto smarrita l'essenza intima, la significanza dei fenomeni, il nocciolo di tutti quei gusci, o almeno la si lascia ancora scoprire e riconoscere da chi la cerca; tuttavia quel che per se stesso e non per le sue relazioni è importante, ossia il vero sviluppo dell'idea, si ritroverà di gran lunga più preciso e limpido nella poesia che non nella storia. Ed alla poesia, per quanto suoni paradossale, sarà quindi da attribuire molto più genuina, intima, vera verità che alla storia. Imperocché lo storico è obbligato a seguire con esattezza gli eventi individuali secondo il corso della vita, quale si svolge nel tempo in concatenazioni variamente intrecciate di cause e di effetti; ma gli è impossibile di conoscer tutti i dati, tutto vedere, tutto investigare: ad ogni istante l'originale del suo quadro si allontana, oppure un originale falso si frappone innanzi al vero; e questo accade tanto spesso, ch'io credo potermi convincere essere in tutte le storie più di falso che di vero. Il poeta invece ha colto l'idea dell'umanità in uno dei suoi aspetti, che vuol rappresentare. Quel che per lui si oggettiva in quella, è l'essenza del suo proprio io: la sua conoscenza è, secondo fu sopra esposto a proposito della scultura, mezza a priori: il suo modello gli sta davanti allo spirito, fermo, limpido, in piena luce, e non può allontanarsi: perciò egli ci mostra pura e chiara nello specchio del proprio spirito l'idea, e la raffigurazione, ch'egli ne dà, è, fino ai minimi particolari, vera come la vita stessa.
I grandi storici antichi sono perciò, quando pongono in disparte gli elementi di fatto, per esempio, nei discorsi dei loro eroi, poeti; ed anzi tutta la loro trattazione della materia tiene dell'epico: ciò che per l'appunto dà unità ai loro racconti, e fa che questi contengano la verità interna pur là dove l'esterna non era agli storici accessibile, o addirittura era falsata. E se dianzi paragonammo la storia al ritratto, in opposizione alla poesia che corrisponderebbe alla pittura storica, troviamo che la massima di Winckelmann, dovere il ritratto esser l'ideale dell'individuo, fu seguita pur dagli antichi storici, rappresentando essi il singolo in modo che ne risultasse l'idea dell'umanità dentro esprimentevisi: mentre i moderni, pochi eccettuati, non offrono di solito che «un cesto di spazzatura e un ripostiglio d'oggetti fuori uso, e al più affari capitali e di stato». A quegli adunque, che vuol conoscere l'umanità nella sua intima essenza, identica in tutti i fenomeni e svolgimenti, nella sua idea, offriranno le opere dei grandi, immortali poeti un quadro ben più fedele e limpido che non possano gli storici offrirgli: imperocché anche i migliori tra questi sono lungi dall'esser come poeti i primi, e inoltre non hanno la mano libera. Il loro reciproco rapporto, sotto questo rispetto, può ancora esser chiarito dal paragone che segue. Lo storico semplice, puro, che non lavora se non sui dati, somiglia a taluno, che, senza conoscere punto la matematica, da figure per caso ritrovate calcola, misurando, i rapporti loro, venendo a un risultato empirico cui sono inerenti tutti gli errori della disegnata figura: mentre il poeta somiglia al matematico, che quelle relazioni costruisce a priori, in pura intuizione, e li manifesta non quali sono effettivamente nella figura disegnata, ma quali nell'idea ond'è immagine sensibile il disegno. Perciò dice Schiller:
Quello che mai né in alcun luogo è stato,
Quello soltanto non invecchia mai.
Devo anzi, in riguardo alla cognizione dell'essenza dell'umanità, attribuire maggior pregio alle biografie, e soprattutto alle autobiografie, che non alla storia vera e propria – almeno come di solito è trattata. Imperocché per un verso sono in quelle raccolti i dati con più precisione e compiutezza che in questa; per l'altro, nella storia vera e propria non agiscono tanto uomini quanto popoli ed eserciti, e gl'individui, che riescono ad entrarvi, appariscono a sì gran distanza, con sì gran contorno e tale seguito, e coperti per di più da rigidi abiti di gala, e grevi, non pieghevoli armature, che davvero difficile si rende il riconoscere fra tutto questo il moto umano. Invece la vita fedelmente esposta di un singolo individuo, in una sfera limitata, ci mostra la condotta degli uomini in tutte le loro sfumature e in tutti i loro aspetti: l'eccellenza, la virtù, anzi la santità di alcuni, la perversità, la miseria morale, la malizia dei più, la scelleraggine di non pochi. In ciò, sotto il rispetto che qui esclusivamente consideriamo, ossia in rapporto all'intimo significato del fenomeno, è affatto indifferente, se gli oggetti intorno a cui s'aggira l'azione siano, relativamente considerati, piccolezze o cose di gran peso, masserie o regni: imperocché tutte codeste cose, senza importanza di per sé, ne acquistano solo in quanto la volontà è da esse agitata; il motivo ha importanza solo per la sua relazione con la volontà, mentre la relazione, che esso in quanto oggetto può avere con altri oggetti, non entra punto in gioco. Come un circolo d'un pollice di diametro e un altro con un diametro di quaranta milioni di miglia hanno esattamente le stesse proprietà geometriche, così sono gli avvenimenti e la storia d'un villaggio o quelli d'un regno, in sostanza, i medesimi; e si può negli uni come negli altri studiare e conoscere l'umanità. Si ha anche torto di ritenere che le biografie siano in tutto inganno e finzione. Anzi la menzogna (sebbene possibile dappertutto) v'è forse più difficile che altrove. La finzione è facilissima nel semplice conversare; ma – per quanto sembri paradossale – è già più difficile in una lettera, perché quivi l'uomo, abbandonato a se stesso, guarda in sé e non fuori, stenta ad aver da presso ciò che gli è estraneo e lontano, e non ha innanzi agli occhi la misura dell'effetto sopra un altr'uomo. Quest'altro invece, calmo, in una disposizione d'animo estranea a quella dello scrittore, scorre la lettera, la rilegge a varie riprese ed in tempi diversi, e così finisce con lo scoprirvi facilmente l'intenzione riposta. Il miglior modo, di conoscere un autore anche come uomo, è cercarlo nel suo libro, perché quivi agiscono ancor più forte e durevolmente tutte quelle condizioni: e farsi in una biografia diversi da quel che si è, è tanto difficile, che non ve n'ha forse alcuna, la quale non sia in complesso più vera di qualsivoglia altra storia scritta. L'uomo, che ritrae la propria vita, la vede nelle sue grandi linee: i singoli fatti s'impiccioliscono, le cose vicine s'allontanano, mentre s'avvicinano le lontane, i riguardi s'attenuano: egli sta con se medesimo in confessione, e vi si è disposto liberamente. Lo spirito della menzogna non l'afferra qui tanto facilmente: essendo in ogni uomo insita un'inclinazione alla verità, che per ciascuna bugia dev'esser prima rattenuta, e che all'atto del confessarsi acquista il predominio. Il rapporto tra biografia e storia dei popoli si rende manifesto con l'esempio che segue. La storia ci mostra l'umanità, come la vista da un alto monte ci mostra la natura: molto vediamo con un'occhiata, ampie distese, grandi masse; ma nulla è distintamente riconoscibile in tutto il suo vero essere. Viceversa la vita di un singolo individuo ci mostra l'uomo a quel modo stesso, con cui apprendiamo a conoscer la natura passeggiando tra i suoi alberi, piante, rocce e acque. Ma, come per mezzo della pittura di paesaggi, nella quale l'artista ci fa veder la natura con gli occhi suoi, vengono a noi resi molto più facili la conoscenza delle idee di questa e lo stato del puro conoscere, scevro di volontà, per tal conoscenza richiesto; così ha l'arte poetica per la rappresentazione delle idee, che noi potremmo cercar nella storia e nella biografia, grandi vantaggi su queste ultime: perché anche quivi il genio regge davanti a noi il chiarificante specchio, nel quale tutto ciò ch'è essenziale e significativo si raccoglie, e, posto in piena luce, ci si fa incontro, mentre ciò ch'è causale ed estraneo, viene rimosso.
La rappresentazione dell'idea dell'umanità, che al poeta incombe, può da lui esser fatta o in modo che il rappresentato sia anche colui che rappresenta: il che accade nella poesia lirica, nella canzone in senso proprio, dove il poeta vede e descrive vivacemente solo il suo stato personale, sì che diviene essenziale in questo genere poetico una certa soggettività, a causa dell'argomento; oppure quegli che rappresenta è affatto distinto dalla cosa rappresentata, come accade in tutti gli altri generi poetici, dove chi rappresenta più o meno si cela dietro al rappresentato e finisce con lo scomparire. Nella romanza lirico-drammatica, chi rappresenta esprime ancora in qualche modo, mediante il tono e l'andatura dell'insieme, il proprio stato: molto più oggettiva della canzone, la romanza ha tuttavia ancor qualcosa di soggettivo, che impallidisce già vieppiù nell'idillio, e più ancora nel romanzo, e svanisce quasi del tutto nell'epopea, e, fino all'ultima traccia, nel dramma, che è il più oggettivo, e per vari riguardi più perfetto, ma anche più difficile genere poetico. La lirica è per questo motivo il genere più facile; e se l'arte in complesso è dominio esclusivo del genio vero, che è tanto raro, tuttavia anche un uomo il quale non sia nell'insieme molto eminente può, quando in effetti siano le sue forze spirituali innalzate da una forte eccitazione esteriore, da un qualche entusiasmo, mettere insieme una bella canzone: perché a ciò occorre non altro che una viva intuizione del proprio stato in un momento d'agitazione. Questo provano molti canti isolati composti da individui altrimenti ignoti, in ispecie i canti popolari tedeschi, dei quali noi abbiamo un'ottima raccolta nel Wunderhorn, e così pure innumerabili canti popolari d'amore o d'altro soggetto in tutte le lingue. Imperocché il cogliere e fissare nella canzone la disposizione del momento, è tutto il compito di questo genere poetico. Tuttavia nella lirica dei poeti veri si riflette l'intimo di tutta l'umanità; e tutto ciò, che milioni d'uomini passati, presenti, futuri hanno sentito o sentiranno nelle medesime situazioni sempre rinascenti, trova colà la sua voce. Quelle situazioni, per il loro costante ritorno, appunto come l'umanità rimangono perenni, e ognora producono i sentimenti medesimi: e perciò le liriche dei veri poeti durano per millenni giuste, efficaci e fresche. Il poeta, in sostanza, è l'uomo universale: tutto ciò che ha scosso un cuore umano, ciò che l'umana natura in qualsivoglia stato da se medesima esprime, tutto ciò che in un petto umano può trovarsi e covare, – è suo tema e sua materia; come, inoltre, tutta quanta la rimanente natura. Può così il poeta cantare la voluttà come il misticismo, essere Anacreonte o Angelus Silesius, scrivere tragedie o commedie, rappresentare animi alti o volgari, – secondo ha capriccio e vocazione. E a nessuno è lecito prescrivere al poeta d'esser nobile ed elevato, morale, pio, cristiano, essere questo o quello; e tanto meno rimproverarlo di non essere questo e quello. Egli è lo specchio dell'umanità, e la fa consapevole di ciò ch'ella sente ed opera.
Consideriamo ora più da presso l'essenza della canzone vera e propria, togliendo a esempio qualche modello eccellente e puro insieme: non di quelli, che già in certo modo s'accostano a un altro tipo, come sarebbe alla romanza, all'elegia, all'inno, all'epigramma, e così via; troveremo così, che l'essenza caratteristica della canzone in senso preciso è la seguente. È il soggetto della volontà, ossia il proprio volere, che empie la conscienza di chi canta; spesso come sciolto, appagato volere (gioia), e più spesso come un volere contrastato (dolore); sempre, tuttavia, come affetto, passione, animo agitato. Ma nondimeno accanto a questo, e insieme con questo, colui che canta diviene, alla vista della natura d'intorno, conscio di sé qual soggetto del puro conoscere, scevro di volontà: la cui incrollabile pace spirituale viene a trovarsi in contrasto con l'urto del volere sempre costretto, ancor sempre assetato. E la sensazione di tal contrasto, di tal giuoco alterno, è proprio ciò che s'esprime nel complesso della canzone, e costituisce in genere lo stato lirico. Si direbbe, che in tal stato ci si faccia dappresso il puro conoscere, per liberarci dal volere e dal suo impulso; noi lo seguiamo, ma sol per brevi istanti: sempre di nuovo il volere, il ricordo dei nostri fini personali, ci strappa alla pacata contemplazione; ma ogni volta ci discioglie dai lacci del volere la bella natura circostante, nella quale a noi si offre la pura conoscenza libera da volontà. Perciò sono nella canzone e nella disposizione lirica il volere (l'interesse personale per i propri fini) e la pura intuizione del mondo circostante in singolar modo frammisti: tra loro vengon cercate e immaginate relazioni; la disposizione soggettiva, la commozione della volontà comunica i suoi colori all'ambiente intuito, e questo a quella: di tutto questo stato d'anima sì commisto e discorde è la vera canzone un riflesso. Per rendere comprensibile con esempi questa analisi astratta d'uno stato ben lontano da ogni astrazione, sì può prender ciascuna delle immortali canzoni di Goethe; ma come particolarmente chiare per il nostro scopo ne raccomando solo alcune: Lamento d'un pastore, Il benvenuto e il commiato, Alla luna, Sul lago, Sensazione d'autunno Sono anche ottimi esempi le canzoni del Wunderhorn: soprattutto quella che comincia: O Brema, or ti debbo lasciare . Come parodia comica, e giustissima, del carattere lirico, mi sembra notevole una canzone, in cui Voss descrive ciò che prova un copritetti ubriaco, nell'atto di cader da una torre; il quale, pur cadendo, fa l'osservazione, molto fuori luogo nel suo stato presente, e quindi spettante alla conoscenza scevra di volontà, che l'orologio della torre segna per l'appunto le undici e mezza. Chi divide la mia opinione sullo stato lirico, dovrà pur convenire che esso è propriamente la conoscenza intuitiva e poetica di quella massima stabilita nel mio scritto sul principio di ragione, e in quest'opera già ricordata, che l'identità del soggetto del conoscere con quello del volere può esser chiamata il miracolo κατ’εξοχην sì che l'effetto poetico della canzone poggia da ultimo sulla verità di quella massima. Nel corso della vita que' due soggetti o, per esprimermi alla buona, testa e cuore, vengono sempre più discostandosi l'uno dall'altro: sempre più scindiamo il nostro sentimento soggettivo dalla conoscenza oggettiva. Nel fanciullo sono entrambi ancor fusi del tutto: egli sa a stento distinguer sé da ciò che lo circonda, e vi si dissolve. Nel giovane, ogni percezione produce dapprima sentimento e stato d'animo; e molto bene è ciò espresso da Byron:
I live not in myself, but I become
Portion of that around me; and to me
High mountains are a feeling.
Appunto perciò il giovine è tanto attaccato all'intuitiva faccia esterna delle cose; appunto perciò egli non è capace d'altra poesia che lirica, e soltanto l'uomo maturo è capace della drammatica. Il vecchio possiamo immaginarcelo al più come poeta epico, quali furono Ossian e Omero: perché il narrare appartiene al carattere del vecchio.
Nei generi più oggettivi, specialmente nel romanzo, nell'epopea e nel dramma, lo scopo, rivelazione dell'idea dell'umanità, viene raggiunto soprattutto con due mezzi: con esatta e profonda rappresentazione di significanti caratteri, e col trovar significanti situazioni, in cui quelli si dispieghino. Imperocché come al chimico tocca non solo presentar puri e genuini i corpi semplici e le lor principali combinazioni; ma anche esporli all'azione di reagenti tali, per cui le proprietà loro si rendano chiare e visibili appieno; così tocca al poeta non solo portarci innanzi con verità e fedeltà, come fa la natura medesima, significanti caratteri; ma deve, per farceli conoscere, metterli in situazioni, nelle quali le proprietà loro si svolgano compiutamente e si presentino nette con precisi contorni, situazioni che perciò appunto si chiamano significanti. Nella vita reale e nella storia è raro che il caso introduca situazioni di questa natura, e quelle poche stanno isolate, smarrite e nascoste nella folla delle situazioni insignificanti. La continuata importanza delle situazioni distingue il romanzo, l'epopea, il dramma dalla vita reale, altrettanto come li distingue l'accolta e la scelta di caratteri espressivi: ma nell'una cosa e nell'altra è inesorabile condizione dell'effetto la più rigida verità. E mancanza di unità nei caratteri, contraddizioni interne in quelli, oppur contrasti con l'essenza dell'umanità in genere, e impossibilità, o inverosimiglianza (che all'impossibilità è vicina) dei fatti, sia pur soltanto in circostanze secondarie, offendono nella poesia quanto figure mal disegnate, o falsa prospettiva, o luce difettosa offendono in pittura: perché noi vogliamo, là come qui, lo specchio fedele della vita, dell'umanità, del mondo, sol reso più limpido dalla rappresentazione e più significante della combinazione. Uno essendo lo scopo di tutte le arti, rappresentazione delle idee, e consistendo la sostanzial differenza di quelle solamente nel diverso grado di oggettivazione della volontà toccato all'idea da rappresentare, dal qual grado è a sua volta determinata la materia della rappresentazione; ne consegue che anche le arti tra loro più discoste si possono illustrare con reciproci confronti. Per esempio, a ben comprendere le idee esprimentisi nell'acqua, non basta veder l'acqua d'un placido stagno o corrente d'un corso regolare ed eguale: quelle idee si rivelano appieno sol quando l'acqua si mostra alle prese con tutte le situazioni e gli ostacoli che, operando su lei, la spingono alla manifestazione piena di tutte le sue proprietà. Perciò la troviamo bella quando precipita, rumoreggia, spumeggia, si slancia in alto o ricadendo si fa polvere, o alfine, ad arte costretta, come raggio sprizza verso il cielo. E così in circostanze diverse variamente mostrandosi, sempre afferma costante il carattere proprio. Altrettanto è a lei naturale sprizzar nell'alto, quanto star quieta come specchio: all'uno e all'altro stato è subito disposta, non appena se ne presentino le circostanze. Ora, ciò che con la materia liquida può fare un artefice del genere, fa con la solida l'architetto, e non altrimenti fa il poeta epico o drammatico con l'idea dell'umanità. Disvelamento e chiarimento dell'idea esprimentesi nell'oggetto di ogni arte, della volontà oggettivantesi in ogni grado, è di tutte le arti compito comune. La vita dell'uomo, quale apparisce il più sovente nella realtà, somiglia all'acqua come noi di solito la vediamo, in fiume e stagno: ma nell'epopea, nel romanzo e nella tragedia vengono eletti caratteri posti in circostanze, nelle quali tutte le lor proprietà si dispiegano, gli abissi dell'animo umano si dischiudono e fanno visibili in azioni straordinarie, altamente significative. Così l'arte poetica oggettiva l'idea dell'umanità, della quale è caratteristico il presentarsi in caratteri fortissimamente individuali.
Come vetta dell'arte poetica, tanto riguardo alla grandezza dell'effetto, quanto alla difficoltà dell'opera, è da considerarsi ed è generalmente ritenuta la tragedia. Per il complesso di tutta la nostra indagine è molto importante e da tener bene in conto, che scopo di quest'altissima creazione poetica è la rappresentazione della vita nel suo aspetto terribile; che il dolore senza nome, l'affanno dell'umanità, il trionfo della perfidia, la schernevole signoria del caso e il fatale precipizio dei giusti e degl'innocenti vengono qui a noi presentati: imperocché si ha in ciò un significante segno intorno alla natura del mondo e dell'essere. È il contrasto della volontà con se medesima, che qui, nel grado supremo della sua oggettità, dispiegato in tutta la sua pienezza, tremendamente balza alla luce. Nel dolore della umanità si fa visibile: e quello è prodotto parte dal caso e dall'errore, che quali dominatori del mondo intervengono, e per la loro malizia, che giunge fino ad aver l'apparenza di consapevolezza, sono personificati nel destino; parte proviene dall'umanità stessa, per le incrociantesi voglie degli individui, per la malvagità e perversità dei più. Una e identica volontà è quella, che in tutti vive e si manifesta, ma le sue manifestazioni si combattono e si dilaniano a vicenda. In un individuo si rivela potente, in un altro più debole, qui più, lì meno accordata con la riflessione e attenuata dalla luce della conoscenza, fin quando alfine in taluno questa conoscenza, purificata ed elevata mediante il dolore stesso, tocca il punto in cui il fenomeno, il velo di Maja, non più l'inganna. Allora la forma del fenomeno, il principium individuationis, viene da lei visto bene addentro; e perciò l'egoismo che su questo si fonda è spento, sì che i motivi prima sì poderosi perdono la loro forza, e in luogo di quelli la piena cognizione dell'essenza del mondo, agendo come quietivo della volontà, fa nascer la rassegnazione, la rinunzia non alla vita soltanto, ma all'intera volontà di vivere. Così vediamo nella tragedia i più nobili caratteri da ultimo rinunziar per sempre, dopo lungo combattere e soffrire, agli scopi fino allora sì vivamente perseguiti, e a tutti i piaceri della vita, o la vita stessa abbandonare volenterosi e lieti. Così il principe costante di Calderón; così Margherita nel Faust; così Amleto, cui il suo Orazio volentieri seguirebbe, ma Amleto gl'impone di rimanere, e ancora un poco respirare con dolore in questo duro mondo, per far luce sul destino di lui e lavar da ogni macchia la sua memoria; così ancora la Pulcella d'Orléans, la Fidanzata di Messina: tutti muoiono purificati dal dolore, ossia quando in loro la volontà di vivere è già morta. Questo è significato alla lettera nelle ultime parole del Mohammed di Voltaire, dove la Palmira grida a Mohammed: «Il mondo è fatto pei tiranni: vivi!». Invece il pretender la cosiddetta giustizia poetica poggia sopra un assoluto misconoscer l'essenza della tragedia, anzi l'essenza del mondo. Sfacciatamente questa pretesa si mostra in tutta la sua scipitaggine nei saggi critici, che il dr. Samuel Johnson ha scritto su ciascun dramma di Shakespeare, dov'egli in maniera proprio ingenua lamenta che la giustizia poetica sia sempre trascurata. Ed è vero: che male hanno commesso le Ofelie, le Desdemone, le Cordelie? Ma soltanto la piatta, ottimista, protestante-razionalistica, o propriamente giudaica concezione del mondo pretenderà la giustizia poetica e troverà il proprio soddisfacimento nel soddisfacimento di quella. Il vero senso della tragedia è la cognizione ben più profonda, che l'eroe non sconta i suoi peccati personali, ma il peccato universale, ossia la colpa stessa dell'essere:
Pues el delito mayor
Del hombre es haber nacido,
come apertamente afferma Calderón.
Guardando più da presso il modo di compor la tragedia, voglio permettermi ancora un'osservazione. Il rappresentare una grande sventura è la sola cosa essenziale alla tragedia. Ma le molte vie, per le quali la sventura può essere introdotta dal poeta, sono di tre specie. Può accadere per la straordinaria perfidia, spinta a toccar gli estremi limiti della possibilità, d'un carattere, il quale diventa causa della sventura: esempi di questo genere sono Riccardo III, Jago nell'Otello, Shylok nel Mercante di Venezia, Franz Moor, la Fedra d'Euripide, Creonte nell'Antigone e così via. Oppure può accadere per un cieco destino, ossia caso ed errore: di tale specie è un vero modello il re Edipo di Sofocle, ed anche le Trachinie, e in genere la maggior parte delle tragedie antiche; tra le moderne sono esempi Romeo e Giulietta, il Tancred di Voltaire, la Fidanzata di Messina. La sventura può esser cagionata in fine dalla semplice situazione rispettiva delle persone, dai loro rapporti, sì che non v'ha bisogno né d'un mostruoso errore o d'un caso inaudito, né d'un carattere, che tocchi i confini umani del male: ma caratteri come sotto il rispetto morale ve n'ha tanti, in circostanze quali occorrono sovente, sono posti di fronte in modo, che la situazione loro li costringe a farsi l'un l'altro, sapendo e vedendo, il più gran male, senza che in ciò il torto sia tutto da una parte sola. Quest'ultima specie sembra a me di molto preferibile alle altre due: imperocché ci fa apparir la più grande delle sventure non come un'eccezione, non come effetto di circostanze rare o di mostruosi caratteri, ma come alcunché venuto facilmente e spontaneamente, quasi per naturale necessità, dall'azione e dai caratteri degli uomini; e appunto perciò la rende in terribile modo vicina a noi stessi. E se noi nelle altre due specie vediamo il mostruoso destino e l'orrenda malvagità bensì come forze terribili, ma che solo da gran distanza ci minacciano e alle quali possiamo sfuggire, senza cercar ricovero nella completa rinunzia, l'ultima invece presenta a noi quelle forze, onde felicità e vita son travolte, come fatte di tal natura che anche contro di noi possono aprirsi la via ad ogni istante; e il più gran dolore può venirci da complicazioni, la cui essenza può pesare anche sul nostro destino, e da azioni, che noi anche saremmo capaci di commettere, sì che non potremmo lagnarci d'ingiustizia. Allora rabbrividendo ci sentiamo già in mezzo all'inferno. Ma la composizione d'una tragedia di quest'ultimo tipo è pur la più difficile, dovendosi qui con un minimo impiego di mezzi e di moventi produrre il massimo effetto, solo mediante la situazione e la distribuzione di quelli: perciò anche in nome delle migliori tragedie questa difficoltà è girata. Qual perfetto modello del genere è tuttavia da citare un dramma, che sotto altro riguardo è di molto superato da altre opere del medesimo grande maestro: Clavigo. Della stessa natura è in un certo senso Amleto, se non guardiamo che alla situazione del protagonista davanti a Laerte e ad Ofelia; anche il Wallenstein ha questo merito; tale è pure il Faust, se si considera come azione principale soltanto ciò che accade a Margherita ed a suo fratello; così il Cid di Corneille, al quale manca nondimeno l'esito tragico, che invece si trova nell'analoga situazione di Max rispetto a Teda nel Wallenstein .