Con tutte le considerazioni fatte finora sulle azioni umane abbiamo preparata l'ultima, e molto alleviato il compito che ci rimane: elevare a chiarezza filosofia e concatenare nel nostro sistema il vero significato etico dell'azione, che nella vita si indica con le parole buono e cattivo, con le quali ci s'intende perfettamente.
Ma voglio dapprima ricondurre al lor senso verace quei concetti di buono e cattivo, che dagli scrittori filosofici dei nostri giorni vengono trattati, cosa singolarissima, come concetti semplici, e quindi non atti ad analisi alcuna. Questo farò, affinchè non s'abbia per avventura a restare nella nebbiosa illusione, ch'essi contengano più di quanto contengono in effetti, e già esprimano in sé e per sé quanto occorre al nostro argomento. E posso farlo, perché io stesso son così lontano dal cercarmi nell'etica un riparo dietro la parola buono, quanto lontano fui dal cercarlo finora dietro le parole bello e vero; per poi far credere mediante l'appiccicamento di un – tà – che oggi si pretende ch'abbia una speciale σεμνότης e quindi in molti casi può servire, e mediante un'aria solenne, d'aver con la formulazione di codeste tre parole fatto più che indicar tre concetti assai ampi ed astratti, e quindi punto ricchi di contenuto, i quali hanno ben diversa origine e diverso valore. A quale uomo invero, cui sian noti gli scritti dei dì nostri, non son venute finalmente a nausea quelle tre parole, per quanto riferentisi in origine a sì nobili cose, allor ch'egli ha dovuto mille volte vedere, come i più inetti all'esercizio del pensare credano che basti averle emesse, a bocca spalancata e con l'aria d'una pecora inspirata, per aver rivelato una solenne saggezza?
L'esplicazione del concetto di vero è già data nello scritto sul principio di ragione, cap. 5, §§ 29 sgg. Il contenuto del concetto di bello ha per la prima volta trovato la sua giusta illustrazione in tutto il nostro terzo libro. Ora ricondurremo al suo significato il concetto di buono, cosa che può farsi con molto poco. Questo concetto è essenzialmente relativo, e indica la conformità di un oggetto con una qualsivoglia determinata aspirazione della volontà. Quindi tutto ciò che conviene alla volontà in qualunque delle sue manifestazioni, e soddisfa la sua mira, vien pensato sotto il concetto di buono, per quanta varietà vi possa essere nel rimanente. Perciò noi diciamo buon cibo, buone strade, tempo buono, buone armi, buon presagio, etc.: in breve, chiamiamo buono tutto ciò che è come noi vogliamo che sia; quindi per l'uno può esser buono ciò che per l'altro è addirittura l'opposto. Il concetto di buono si suddivide in due sottospecie: quella cioè della soddisfazione immediata e quella della mediata, vale a dire la soddisfazione della volontà nel futuro: e sono il piacevole e l'utile. Il concetto opposto viene espresso con la parola cattivo, e più raramente e astrattamente con la parola male, che indica così tutto quanto non si confaccia a ciascuna aspirazione della volontà. Come tutti gli altri esseri, che posson venire in relazione con la volontà, si son poi detti buoni anche uomini, ai desiderati fini favorevoli, servizievoli, amicamente disposti, benefici; buoni adunque nel medesimo senso, e sempre con la riserva della relatività di codesto senso, quale si mostra per esempio nella frase: «Costui è buono verso di me, e non verso di te». Coloro invece, il cui carattere comportava di non porre ostacolo in genere alle altrui aspirazioni, e costantemente erano servizievoli, benevoli, amichevoli, benefici, furon chiamati uomini buoni per cotale relazione della loro condotta con la volontà degli altri. Il concetto opposto s'indica in tedesco, e da forse cent'anni anche in francese, riferendosi ad esseri conoscenti (animali e uomini) con parola diversa da quella usata per gli esseri privi di conoscenza – ossia la parola böse (malvagio), méchant, mentre in quasi tutte le altre lingue codesto divario non esiste, e κακος, malus, cattivo, bad vengono usati sì per gli uomini sì per le cose inanimate, quando si oppongano ai fini di una determinata, individuale volontà. Partita adunque in tutto e per tutto dal lato passivo del buono, l'indagine poteva solo più tardi volgersi all'attivo, e studiar la condotta dell'uomo chiamato buono non più in rapporto ad altri, bensì a lui medesimo, proponendosi in particolar modo la spiegazione sì della stima puramente obiettiva, che quella condotta visibilmente produceva in altri, sì della singolar contentezza di sé prodotta in lui stesso; come, al contrario, dell'intimo dolore, che accompagna la cattiva intenzione, per quanti vantaggi esteriori produca a chi la nutre. Ora, di qui ebbero origine i sistemi etici, tanto filosofici quanto religiosi. Gli uni e gli altri cercan sempre di collegare in qualche modo la felicità con la virtù; i primi, o in virtù del principio di contraddizione, o anche in virtù del principio di ragione, ma sempre sofisticamente; gli ultimi invece affermando l'esistenza d'altri mondi da quello che può esser conosciuto dall'esperienza.
Viceversa per l'indagine nostra l'intima essenza della virtù si rivelerà come una tendenza in direzione affatto opposta a quella che conduce alla felicità, ossia al benessere e alla vita.
In virtù di quanto fu detto più sopra, il buono è, considerato nel suo concetto, των προς τι,sia è ogni cosa buona essenzialmente relativa, avendo la sua essenza sol nel suo rapporto con una volontà in atto. Bene assoluto è quindi una contraddizione: sommo bene, summum bonum, significa ancora lo stesso, cioè propriamente il finale appagarsi della volontà, dopo il quale nessun volere nuovo subentri: un ultimo motivo, il cui raggiungimento produca una indistruttibile soddisfazione della volontà. Per le considerazioni fatte finora in questo quarto libro, un tal bene non si può concepire. La volontà non può per qualsivoglia appagamento cessar di ricominciare ognora a volere, più di quanto possa il tempo cominciare o finire: una durevole soddisfazione, che appaghi appieno e per sempre la sua sete, non esiste per lei. Ella è la botte delle Danaidi: non v'ha per lei alcun sommo bene, alcun bene assoluto, bensì ognora appena un bene provvisorio. Ma se frattanto piacesse mantenere un posto onorifico a un'antica espressione, la quale per abitudine non si vorrebbe del tutto sopprimere, come a un funzionario emerito, allora si potrebbe chiamar bene assoluto, summum bonum in modo tropico e figurato, la completa soppressione e negazione della volontà, la vera assenza di volontà, che unica per sempre placa e sopprime la sete del volere, unica da quella pace la quale non può più esser turbata, unica ci redime dal mondo. Di lei tratteremo alla fine di tutta la nostra opera, considerandola come unico radicale rimedio della malattia, di fronte alla quale tutti gli altri beni non sono che palliativi anodini. In tal senso il greco τελος, com'anche il latino finis bonorum, corrisponde ancor meglio alla verità. E questo basti intorno alle parole buono e cattivo; veniamo ora al sodo.
Se un uomo, non appena ne abbia l'occasione e nessun potere esterno lo trattenga, è sempre inclinato a commettere ingiustizia, lo chiamiamo cattivo. Secondo la nostra spiegazione dell'ingiustizia, ciò significa che costui non solo afferma la volontà di vivere, quale essa si manifesta nel suo corpo, ma in codesta affermazione va tanto oltre, da negare la volontà manifestantesi in altri individui. Egli pretende con ciò le forze loro pel servigio della volontà propria, e l'esistenza loro cerca di sopprimere, quando della volontà di lui essi contrariano le aspirazioni. Di ciò è sorgente prima un alto grado di egoismo, la cui essenza fu esposta più sopra. Due cose son qui subito palesi: primo, che in un tale uomo si esprime una volontà di vivere estremamente impetuosa, oltrepassante di gran lunga l'affermazione del suo proprio corpo; secondo, che la conoscenza di lui, tutta presa dal principio di ragione e prigioniera nel principio individuationis, rimane attaccata alla distinzione completa messa da quello tra la sua persona e tutte le altre. Perciò egli cerca solo il benessere proprio, affatto indifferente a quello di tutti gli altri, il cui essere è a lui del tutto estraneo, separato dal suo mediante un ampio abisso. Gli altri vede egli addirittura come larve senza realtà. E codeste due note sono gli elementi fondamentali del carattere malvagio.
Quella grande vivacità del volere è intanto già in sé e per sé una perenne fonte di dolore. Dapprima, perché ogni volere, in quanto tale, deriva dalla privazione, ossia dal dolore (perciò, come il lettore ricorderà dal terzo libro, il momentaneo tacere della volontà, che si produce appena noi come puro, privo di volontà soggetto del conoscere – correlato dell'idea – ci abbandoniamo alla contemplazione estetica, è già per l'appunto un elemento principale della gioia provata davanti al bello). In secondo luogo, perché, in forza della causale concatenazione delle cose, quasi tutte le aspirazioni rimangono inappagate, e la volontà viene ben più spesso ostacolata che soddisfatta; sì che, anche per questo, vivace e forte volere trae sempre con sé vivace e forte soffrire. Imperocché ogni soffrire non è null'altro se non inappagato e contrariato volere: lo stesso dolore del corpo, quando questo vien ferito o distrutto, è in quanto dolore unicamente possibile pel fatto, che il corpo non è se non la volontà medesima fattasi oggetto. Perciò adunque, poi che molto e vivo soffrire da molto e vivo volere è inseparabile, già l'espressione del volto in uomini assai cattivi ha l'impronta dell'interno dolore. Quand'anche abbiano raggiunto ogni felicità esteriore, hanno sempre aspetto d'infelici, a meno che non si trovino in uno stato di giubilo momentaneo o che s'infingano. Da questo interno tormento, che in loro è proprio direttamente essenziale, vien prodotta in ultimo perfino quella gioia del male altrui, non più causata dal semplice egoismo, ma addirittura disinteressata, che è la malvagità vera e propria, e sale fino alla crudeltà. Per essa l'altrui dolore non è più un mezzo a ottenere il conseguimento dei fini della propria volontà, bensì scopo a se stesso. La precisa spiegazione di questo fenomeno è la seguente. Essendo l'uomo fenomeno della volontà, illuminato dalla più chiara conoscenza, paragona sempre l'effettivo, provato appagamento della sua volontà con quello, solamente possibile, che la conoscenza gli pone davanti agli occhi. Da ciò nasce l'invidia: ogni privazione viene infinitamente esasperata dall'altrui godimento, e sollevata dal sapere che anche altri patiscono la privazione medesima. I mali a tutti comuni, e dalla umana vita inseparabili, poco ci turbano: e similmente quelli che al clima, al paese tutto appartengono. Il ricordo di mali maggiori, che non siano i nostri, placa il dolore di questi: attenua i nostri la vista dei dolori altrui. Ora, un uomo preso da un estremo, impetuoso impeto della volontà, con ardente cupidigia vorrebbe tutto abbracciare per ispegnere la sete dell'egoismo; ma intanto, com'è fatale, deve sperimentar che ogni appagamento è illusorio, né il bene conseguito mai corrisponde a ciò, che il bene desiderato prometteva, ossia definitivo cessare della rabbiosa sete; perché invece il desiderio con l'appagamento non fa che mutar di forma, e in forma nuova torturare ancora; anzi da ultimo, quando tutte le forme sono esaurite, la sete della volontà pur senza aspirazione consapevole permane, manifestandosi come insanabile martirio, qual sentimento della più atroce desolazione e del vuoto universale. Tutto questo, che nei gradi ordinari della volontà, sentito solamente in più tenue misura, produce anche solo un grado ordinario di turbamento dell'animo, in colui, che invece è fenomeno della volontà spinto fino all'aperta cattiveria, sviluppa necessariamente un'estrema tortura intima, eterna inquietudine, insanabile dolore. Allora costui cerca in modo indiretto quel sollievo, che non può raggiungere in modo diretto, ossia cerca di lenire il male suo con la vista dell'altrui, che egli in pari tempo vede come una manifestazione della propria forza. Altrui dolore gli diviene scopo in se stesso, è uno spettacolo nel quale egli esulta: e così nasce il fenomeno della vera e propria crudeltà, della sete di sangue, che la storia tanto spesso ci mostra, nei Neroni, nei Domiziani, nei Robespierre, etc.
Alla malvagità è già affine la sete di vendetta, che il male paga col male, non per riguardo al futuro, il che costituisce il carattere della pena, ma solo per il fatto accaduto, passato; quindi senza vantaggio; non come mezzo, ma come fine, per letiziarsi nel tormento, da noi stessi inflitto l'offensore. Ciò che distingue la vendetta dalla pura malvagità, e in qualche po' la scusa, è un'apparenza di giustizia; in quanto lo stesso atto, che stavolta è vendetta, quando fosse legale, ossia compiuto secondo una regola fissa e notoria, e in seno a una collettività, da cui questa fosse sanzionata, si chiamerebbe pena, cioè diritto. Fuori delle sofferenze descritte, nate con la malvagità da una stessa radice, l'eccessiva volontà, e quindi da quella inseparabili, alla malvagità è ancora associata un'altra sofferenza affatto diversa e particolare, la quale si fa sensibile ad ogni cattiva azione commessa, sia poi questa una semplice ingiustizia per egoismo, o malvagità pura; e secondo il tempo della sua durata si chiama breve rimorso o duratura angoscia della coscienza. Chi abbia presente nella memoria quanto si contiene finora in questo quarto libro, e particolarmente la verità illustrata in principio, che alla volontà di vivere è assicurata ognora la vita stessa, qual semplice immagine e specchio di lei – quegli troverà che, conformemente alle considerazioni fatte, il rimorso non può avere altro significato se non questo che ora seguirà. Ossia, il suo contenuto, astrattamente espresso, è il seguente, nel quale si distinguono due parti, che nondimeno devono da ultimo essere riunite e pensate come affatto congiunte.
Per quanto fitto sia il velo di Maja che avvolge l'animo del malvagio, ossia per quanto chiusa sia la prigionia di lui nel principio individuationis, in virtù del quale egli tiene la propria persona come distinta assolutamente, e da ogni altra separata mediante un ampio abisso, la qual cognizione, perché è la sola conforme al suo egoismo e ne forma il sostegno, egli tien ferma con tutta forza, essendo quasi sempre la cognizione corrotta dalla volontà, si agita tuttavia nell'intimo della sua coscienza l'occulta sensazione, che un siffatto ordine di cose sia nondimeno nient'altro che fenomeno; e che in sé la cosa sia tutt'altra. Dividano pur tempo e spazio lui medesimo da altri individui e dai tormenti inenarrabili ch'essi soffrono, anzi per cagion sua soffrono, e veda egli pur costoro come affatto stranieri a lui medesimo, tuttavia è l'unica volontà di vivere che in sé, prescindendo dalla rappresentazione e dalle sue forme, in essi tutti si palesa; ella è, che se stessa disconoscendo, contro sé volge le proprie armi; e mentre cerca con un dei propri fenomeni un maggiore benessere, perciò appunto infligge a un altro il maggior dolore. E l'uomo malvagio è per l'appunto codesta volontà tutta intera, sì ch'ei viene a essere non solo il tormentatore, ma anche il tormentato, dal cui dolore egli è separato e si crede libero sol mediante un sogno illusorio, che ha per forma il tempo e lo spazio. Ma il sogno svanisce; ed egli, per forza della verità, deve il piacere pagare col dolore; tutta la sofferenza ch'egli conosce solo in quanto possibile, lui colpisce effettivamente, in quanto egli è volontà di vivere; imperocché sol per la conoscenza individuale, solo per virtù del principii individuationis, e non già in sé, sono distinte possibilità e realtà, lontananza e vicinanza di tempo e di spazio. È questa la verità, che miticamente, ossia conformata al principio di ragione e tradotta con ciò nella forma del fenomeno, viene espressa dalla dottrina della migrazione delle anime: ma la sua espressione più pura da ogni mescolanza l'ha per l'appunto in quell'angoscia oscuramente sentita, eppure inconsolabile, che si chiama rimorso. Ma questo procede inoltre da una seconda, immediata conoscenza, con quella prima esattamente congiunta: ossia dalla conoscenza del vigore, con cui nell'individuo malvagio la volontà di vivere si afferma; vigore che va ben oltre l'individuale fenomeno di lui, fino alla completa negazione della medesima volontà rivelantesi in altri individui. Quindi l'interno orrore del malvagio per la sua propria azione, orrore ch'ei cerca di celare a se stesso, contiene, oltre quel vago sentimento della nullità e della pura apparenza sì del principio di ragione sì della distinzione, ch'esso mette tra lui e gli altri, contiene, dico, in pari tempo anche la cognizione della violenza della propria volontà, dell'impeto con cui questa ha ghermito la vita, e l'ha succhiata. Questa vita appunto, di cui egli vede la faccia orrenda nell'angoscia di chi è da lui oppresso; e con la quale è nondimeno così strettamente avvinto, che perciò appunto il più tristo orrore proviene da lui medesimo, qual mezzo per la compiuta affermazione della sua propria volontà. Egli si riconosce come concentrato fenomeno della volontà di vivere, sente fino a qual punto ei sia in potere della vita, e quindi anche degli innumerabili dolori, che a questa sono essenziali, avendo essa infinito tempo e infinito spazio per cancellare il divario tra possibilità e realtà, e tutti i mali da lui per ora sol conosciuti convertire in mali provati. I milioni d'anni delle continue rinascite sussistono in verità soltanto nel concetto, come soltanto nel concetto esistono tutto il passato ed il futuro: il tempo realmente pieno, la forma del fenomeno della volontà è solo il presente, e per l'individuo è il tempo ognora nuovo: egli si ritrova sempre come nato allora. Imperocché dalla volontà di vivere è inseparabile la vita, e sua unica forma è l'adesso. La morte (mi si scusi la ripetizione del paragone) somiglia al tramonto del sole, il quale solo in apparenza viene inghiottito dalla notte, mentre in realtà, esso ch'è sorgente unica d'ogni luce, senza interruzione arde, a nuovi mondi reca nuovi giorni, in ogni attimo si leva e in ogni attimo tramonta. Principio e fine toccano solo all'individuo, per mezzo del tempo, forma del fenomeno individuale per la rappresentazione. Fuori del tempo non è che la volontà, la cosa in sé di Kant, e la sua adeguata oggettità, ossia l'idea di Platone. Perciò non dà il suicidio salvazione di sorta: ciò che ciascuno nel suo più intimo vuole, ciò deve egli essere: e ciò che ciascuno è, ciò appunto egli vuole. Quindi accanto alla cognizione soltanto sentita della pura apparenza e della nullità delle forme della rappresentazione, per cui vengono distinti gli individui, gli è l'autocognizione della propria volontà e del suo grado quella che dà pungolo alla coscienza. Il corso vitale produce l'immagine del carattere empirico, di cui è originale il carattere intelligibile, ed il malvagio ha orrore di questa immagine: sia essa tracciata a grosse linee, sì che il mondo partecipi al suo proprio orrore, o sia tracciata invece in linee così sottili, ch'egli solo le veda: che lui unicamente essa immagine tocca in modo immediato. Il passato sarebbe indifferente, come semplice fenomeno, e non potrebbe angustiare la coscienza, se il carattere non si sentisse sciolto da ogni tempo e, attraverso il tempo, immutabile, finch'esso non abbia rinnegato se medesimo. Perciò azioni commesse anche da gran pezzo pesano pur sempre sulla coscienza. La preghiera: «Non m'indurre in tentazione», significa: «Non lasciarmi vedere che io mi sia». Dalla forza, con cui il malvagio afferma la vita, e che gli si manifesta nei dolori da lui inflitti ad altri, egli misura quanto lontane siano da lui appunto la rinunzia e la negazione di quella volontà, che sono l'unica redenzione possibile dal mondo e dal suo male. Vede, fino a che punto egli al mondo appartiene ed è con esso avvinto: il conosciuto dolore altrui non è giunto a scuoterlo: della vita e del dolore direttamente provato egli è in pieno potere. Tralasciamo per ora di vedere, se questa diretta prova infrangerà e vincerà la violenza del suo volere.
Quest'illustrazione del valore e dell'intima essenza del malvagio, la qual sol come sentimento, ossia non come chiara, astratta conoscenza, è il contenuto del rimorso, acquisterà ancor maggior limpidità e compiutezza mediante l'analisi, condotta nel medesimo modo, del buono, come proprietà dell'umano volere; e poi, da ultimo, della rassegnazione e santità, la quale proviene da quella proprietà, quand'essa ha raggiunto il grado più alto. Imperocché i contrari s'illuminano sempre vicendevolmente, e il giorno rivela insieme se medesimo e la notte, secondo ha detto eccellentemente Spinoza.