§ 66.

Una morale senza fondamento, ossia un semplice moraleggiare, non può aver effetto, perché non fornisce motivi. Ma una morale che dia motivi, può farlo solo con l'agire sull'amore di sé. Ed il frutto di codesto amore non ha alcun valore morale. Ne deriva, che per la via della morale, e della conoscenza astratta in genere, nessuna genuina virtù può essere prodotta; bensì questa deve provenire dalla conoscenza intuitiva, la quale nell'individuo estraneo riconosce l'essenza medesima che è in noi stessi.

La virtù procede invero dalla conoscenza; ma non dall'astratta, comunicabile per mezzo di parole. Se così fosse, la si potrebbe insegnare; e proclamandone qui astrattamente l'essenza, e la cognizione che alla virtù servisse di fondamento, avremmo migliorato ognuno che ciò avesse compreso. Ma non è punto così. Con etiche conferenze o prediche non si fabbrica un virtuoso, più di quanto tutte le estetiche, a cominciar da quella d'Aristotele, abbian mai fabbricato un poeta. Che per la vera e propria essenza intima della virtù il concetto è infruttifero, come per l'arte, e solo in maniera affatto subordinata può render servigio nell'esecuzione e conservazione di quanto s'è per altra via conosciuto e deciso. Velle non discitur. Sulla virtù, ossia sulla bontà dell'animo, non hanno i dogmi astratti in realtà effetto alcuno: non la turbano i falsi, e difficilmente la favoriscono i veri. E sarebbe d'altronde gran male, se la cosa più importante dell'umana vita, il suo valore etico, da valere per l'eternità, dipendesse da elementi, il cui acquisto è tanto soggetto al caso, come sono dogmi, religiosi, filosofemi. I dogmi hanno per la moralità questo semplice valore, che in essi chi è già virtuoso in virtù d'una diversa conoscenza la quale spiegheremo, trova uno schema, un formulario, secondo il quale rende conto, conto il più delle volte immaginario, alla propria ragione degli atti non egoistici da lui compiuti, dei quali la ragione, ossia egli medesimo, non comprende l'essenza. E di tal conto egli ha abituato la ragione a contentarsi.

Forte influenza possono bensì avere i dogmi sulla condotta, sull'agire esterno; così pure l'abitudine e l'esempio (quest'ultimo, perché l'uomo comune non fida nel giudizio proprio, di cui conosce la fiacchezza, bensì segue soltanto la propria o l'altrui esperienza); ma con ciò non è mutato l'animo. Ogni conoscenza astratta non da che motivi: i motivi tuttavia possono, com'è mostrato più sopra, cambiar solamente l'indirizzo della volontà, e non la volontà medesima. Ma intanto ogni conoscenza mediata può sulla volontà agire sol come motivo; perciò, comunque la guidino i dogmi, nondimeno quel che l'uomo propriamente e genericamente vuole rimane sempre il medesimo: egli ha solo ricevuto altri pensieri intorno alle vie, per cui la sua volontà va attuata, e motivi immaginari lo guidano come i reali. Quindi è per esempio affatto indifferente, rispetto al suo valore morale, se egli faccia grandi donazioni a indigenti, persuaso di riavere in una vita futura, decuplicato, il suo dono, o se impiega quella stessa somma a migliorare una tenuta che gli frutterà interessi bensì tardivi, ma perciò appunto più sicuri e considerevoli: – e un assassino, non meno del bandito, che si guadagna col delitto un compenso, è anche quegli che ortodossamente consegna l'eretico alle fiamme, o addirittura, guardato nel suo intimo, anche colui che scanna i Turchi in Terrasanta, se, come l'altro, ciò propriamente fa perché crede di guadagnarsi così un posto nel cielo. Imperocché solo a se stessi, al proprio egoismo, voglion costoro pensare; proprio come quel bandito, da cui essi si distinguono unicamente per l'assurdità dei mezzi. Dal di fuori, come abbiam detto, si perviene alla volontà solo per mezzo di motivi: nondimeno questi mutano esclusivamente il modo con cui la volontà si manifesta, e non mai la volontà stessa. Velle non discitur.

Nelle buone azioni, il cui autore si fonda su dogmi, bisogna però sempre distinguere, se codesti dogmi sono poi veramente il motivo dell'azione, o se, com'io dicevo poc'anzi, non sono che l'apparente giustificazione, con cui quegli cerca di appagare la propria ragione intorno ad una buona azione originata da tutt'altra sorgente, ch'egli compie perché è buono, ma che non sa sufficientemente spiegarsi, perché non è filosofo, e pur vorrebbe pensar qualcosa in proposito. Ma la differenza è assai difficile a scorgere, perché sta nell'intimo dell'animo. Perciò non possiamo quasi mai rettamente giudicare il valore morale delle azioni altrui, e raramente delle nostre. Gli atti e i modi d'agire del singolo, come d'un popolo, possono da dogmi, esempii e abitudine essere di molto modificati. Ma in sé son tutte le azioni (opera operata) nient'altro che vuote immagini, e soltanto l'animo, che a quelle mena, dà loro il valore morale. E questo può in realtà essere il medesimo, anche sotto ben diversa apparenza esteriore. Pur possedendo lo stesso grado di malvagità, che presso un popolo si esprime in grossi tratti, con l'assassinio e il cannibalismo, e nell'altro invece sottilmente e delicatamente en miniature con intrighi di corte, oppressioni e astute manovre d'ogni maniera: l'essenza rimane la stessa. Si potrebbe immaginare che uno stato perfetto, o addirittura fors'anche un dogma di ricompense e pene nell'al di là, a cui si prestasse fede assolutamente piena, impedisse ogni delitto: ora, politicamente sarebbe questo un gran risultato, ma nullo moralmente; anzi si sarebbe solo interdetto alla vita di riflettere la volontà.

La genuina bontà dell'animo, la disinteressata virtù e la pura generosità non provengono adunque da conoscenza astratta, ma bensì tuttavia da una conoscenza: ossia da una conoscenza immediata ed intuitiva, che non si può cancellare né eccitare con arzigogoli di ragione; da una conoscenza, che appunto perché non è astratta, non si lascia comunicare, ma deve in ognuno nascere spontanea, e che perciò trova la sua vera, adeguata espressione non già in parole, bensì esclusivamente in atti, nella condotta, nel corso vitale dell'uomo. Noi, che qui cerchiamo la teoria della virtù, e quindi dobbiamo anche esprimere astrattamente l'intimo essere della conoscenza, che le serve di base, non potremo tuttavia fornire in tale espressione quella conoscenza in sé, bensì esclusivamente il suo concetto. Sempre dovremo partire dalla condotta, sol nella quale essa diviene visibile, e alla condotta riferirci come alla sua sola espressione adeguata, che noi possiamo appena chiarire e spiegare, ossia formulando astrattamente ciò che propriamente in lei accade.

Ma prima che noi, in contrasto con la trattazione fatta del malvagio, veniamo a trattare di ciò ch'è propriamente buono, ci tocca accennare, come grado intermedio, alla semplice negazione del malvagio: alla giustizia. Che cosa siano giusto e ingiusto, abbiamo sufficientemente spiegato: potremo quindi dire ora in breve, che colui il quale volontariamente riconosce e rispetta quel confine puramente morale, anche dove nessuno stato o altra forza lo difende, e perciò, secondo la nostra spiegazione, non arriva mai nell'affermazione della propria volontà fino a negar quel che si palesa in un altro individuo – colui è giusto. Non infliggerà dunque dolori ad altri, per accrescere il suo proprio benessere: ossia non commetterà nessun crimine, rispetterà i diritti, rispetterà il bene altrui. E noi vediamo, ora, che per un tale uomo giusto, il principium individuationis non è già più, come per il malvagio, un'immobile parete divisoria; vediamo ch'egli non afferma, come il malvagio, solamente il suo proprio fenomeno di volontà, e tutti gli altri nega; che gli altri uomini non sono per lui semplici larve, la cui essenza sia affatto diversa dalla sua. Viceversa con la sua maniera d'agire dimostra ch'egli la sua propria essenza, ossia la volontà di vivere, in quanto cosa in sé, riconosce anche nel fenomeno estraneo, dato a lui esclusivamente come rappresentazione; ritrova in quello se stesso, fino a un certo grado, il grado del non commettere ingiustizia, del non ferire. In questo grado appunto egli penetra di là dal principio individuationis, dal velo di Maja: considera l'essenza, ch'è fuori di lui, pari, fino a questo segno, alla propria: non fa ingiuria.

In codesta giustizia, quando la si guardi nel suo intimo, già si trova il proposito di non andar nell'affermazione della volontà propria tant'oltre, ch'essa neghi gli estranei fenomeni di volontà, obbligandoli a servirci. Si vorrà dunque agli altri tanto concedere, quanto da loro si riceve. Il grado supremo di tale giustizia dell'animo, che sempre nondimeno già s'accoppia con la bontà vera e propria, il cui carattere non è più soltanto negativo, arriva fino a porre in dubbio i propri diritti su di un patrimonio ereditato, a voler mantenere il corpo sol mediante le forze proprie, intellettuali o corporali, ad accogliere ogni altrui prestazione di servigi, ogni lusso come un rimprovero, e ad abbracciare da ultimo la volontaria povertà. Così vediamo Pascal, quando prese l'indirizzo ascetico, non poter più sopportare d'essere servito, sebbene avesse servi a sufficienza; non badando alla permanente cagionevolezza della sua salute, si rifaceva da sé il letto, toglieva egli stesso il suo cibo dalla cucina, e così via (Vie de Pascal par sa soeur, p. 19). In piena corrispondenza con ciò si narra che taluni Hindù, e addirittura dei Rajà, pur possedendo molta ricchezza, questa impiegano solo nel mantenimento della famiglia, della corte dei servi, mentr'essi con rigido scrupolo osservano la massima di nulla mangiare che non abbiano con le lor mani seminato e raccolto. In fondo a questo è nondimeno un certo malinteso: imperocché il singolo uomo può, appunto essendo ricco e potente, al complesso dell'umana società rendere servigi sì considerevoli, da corrispondere all'ereditata ricchezza, della cui sicurtà egli va debitore allo Stato. Propriamente quell'eccessiva giustizia di cotali hindù è già più che giustizia: è reale rinunzia, negazione della volontà di vivere, ascesi; del che tratteremo da ultimo. Viceversa può il semplice far niente e il vivere delle forze altrui, con una proprietà ereditata, senza nulla operare, esser già considerato come moralmente ingiusto, anche se deve rimaner giusto secondo le leggi positive.

Abbiamo trovato, che la giustizia volontaria ha la sua più profonda origine in un certo grado di superamento del principii individuationis, mentre in questo principio riman sempre del tutto prigioniero l'uomo ingiusto. Codesto superamento può aver luogo non soltanto nel grado a ciò richiesto, ma anche in un grado maggiore, che spinge al benvolere e al benfare attivi, all'amor del prossimo: e questo può accadere per quanto forte ed energica sia in sé pur la volontà manifestantesi in tale individuo. Sempre può la conoscenza tenerlo in equilibrio, insegnargli a resistere alla tentazione dell'ingiustizia, fino a produrre tutti i gradi della bontà e addirittura della rassegnazione. Perciò l'uomo buono non va punto considerato come un fenomeno di volontà, il quale sia dall'origine più debole dell'uomo cattivo: bensì è la conoscenza, che in lui governa il cieco impeto della volontà. Vi sono invero individui, che sembrano buoni sol per la debolezza della volontà in essi palesantesi: ma quel ch'essi veramente sono appare presto dal fatto, che sono incapaci d'ogni notevole sforzo su se medesimi per compiere un'azione giusta o buona.

Se poi ora ci capita, come rara eccezione, un uomo, il quale per avventura possegga una considerevole rendita, ma di questa poco prenda per sé, e tutto il rimanente dia ai miseri, mentr'egli medesimo di molti godimenti e comodi si privi; e se noi cerchiamo di spiegarci la condotta di quest'uomo; troveremo, prescindendo affatto dai dogmi ond'egli vuol forse far comprensibile alla propria ragione il suo agire, essere questa la più semplice, generica espressione, e questo il carattere essenziale della sua condotta: che egli minor differenza pone, di quanto solitamente si faccia, tra sé e gli altri. Se per l'appunto codesta differenza, agli occhi di tanti altri, è sì grande, che altrui dolore è al malvagio diretta gioia, all'ingiusto è gradito mezzo per conseguire il benessere proprio; e se quegli ch'è semplicemente giusto si limita a non causar quel dolore; e se in genere la maggior parte degli uomini vede e conosce in sua prossimità innumerabili dolori altrui, ma non si risolve a mitigarli, perché dovrebbe a tal fine patire a sua volta qualche privazione; se adunque a ciascuno di cotali uomini sembra che un forte divario passi tra il proprio io e l'altrui; a quel generoso invece, che noi immaginammo, non pare quel divario sì considerevole. Il principium individuationis, la forma del fenomeno, non lo tiene più così stretto; invece il dolore, ch'ei vede in altri, lo tocca quasi come il suo proprio: egli cerca perciò di tener tra questo e quello l'equilibrio, si rifiuta godimenti, si assume privazioni, per attenuare i mali altrui. Si persuade, che la distinzione tra lui e gli altri, la quale è per il malvagio un sì grande abisso, è in realtà prodotta da un effimero, illusorio fenomeno; conosce, direttamente e senza bisogno di sillogismi, che l'in-sé del suo proprio fenomeno è pur quel dell'altrui, ossia è quella volontà di vivere, che costituisce l'essenza d'ogni cosa e in tutto vive; conosce, anzi, che quest'essenza si estende fino agli animali e alla natura intera: perciò non tormenterà mai un animale. Egli è oramai così poco in grado di lasciar che altri stenti la vita, mentr'egli possiede financo il superfluo, come a nessuno verrebbe in mente di soffrire una giornata di fame, per avere il dì seguente più di quanto possa mangiare. Imperocché a quegli, che pratica le opere dell'amore, il velo di Maja si è fatto trasparente; da lui è svanita l'illusione del principii individuationis. Se stesso, il suo io, la sua volontà egli conosce in ogni essere, e quindi anche in chi soffre. Da lui è fuggita la stoltezza, con la quale la volontà di vivere, se medesima disconoscendo, qui gode in un individuo fuggitivi, finti piaceri, mentre in cambio là soffre e stenta; e così affanno cagiona ed affanno patisce; senza conoscere che, come Tieste, la propria carne avido divora, e poi qui geme sopra un immeritato dolore, là folleggia senza timor della Nemesi, sempre e sempre sol perché se stesso disconosce nell'altrui fenomeno, e quindi non percepisce l'eterna giustizia, essendo prigioniero del principii individuationis, ossia ognora di quel modo di conoscenza, che il principio di ragione governa. Esser guarito da questo errore illusorio del velo di Maja, e praticar le opere dell'amore, è tutt'uno. Questa pratica è l'immancabile sintomo di quella guarigione.

Il contrario del rimorso, del quale furon chiariti più sopra l'origine e il valore, è la buona coscienza, la soddisfazione che noi proviamo dopo ogni azione, quale viene generata dal diretto riconoscer la nostra propria essenza in sé anche nell'altrui fenomeno, dà di rimando a noi la conferma di codesta conoscenza: la conoscenza, cioè, che il nostro vero io non risiede soltanto nella persona nostra, la quale è un fenomeno isolato, ma bensì in tutto quanto ha vita. Da ciò si sente il cuore fatto più ampio, come viceversa per l'egoismo si sente più stretto. Imperocché, come l'egoismo concentra la nostra partecipazione nel singolo fenomeno del nostro individuo, nel quale stato la conoscenza ci tiene ognora presenti i pericoli innumerevoli, onde questo fenomeno è minacciato, sì che ansia e preoccupazione divengono il fondo dell'animo nostro, la conoscenza invece che ogni cosa vivente è per l'appunto la nostra stessa essenza in sé com'è nostra la nostra persona, estende viceversa la nostra partecipazione a tutto quanto vive; ed il cuore ne è allargato. Mediante questo diminuito interesse al nostro io, l'angosciosa ansia a suo riguardo viene intaccata e limitata nella radice: di là proviene la tranquilla, fiduciosa letizia, che animo virtuoso e buona coscienza ci danno; di là viene il loro sempre più chiaro manifestarsi ad ogni azione buona, perché l'azione buona ci conferma la verità di quella disposizione. L'egoista si sente circondato da fenomeni estranei ed ostili, ed ogni sua speranza poggia sul bene proprio. Il buono vive in un mondo di fenomeni amici: il bene d'ognuno di questi è il suo bene. Quindi, se pur la cognizione dell'umano destino universale non può far lieto il suo animo, nondimeno il saldo riconoscer l'essenza propria in tutto ciò che vive gli dà un certo equilibrio, e perfino serenità d'animo. Perché l'interesse diffuso su innumerevoli fenomeni non può angustiare come l'interesse concentrato sopra uno solo. I casi accidentali ond'è colta l'universalità degli individui si compensano, mentre quelli occorrenti a un individuo isolato apportano felicità o sventura.

Se altri, adunque, potè stabilire principi morali, gabellandoli come regole di virtù, e leggi da seguirsi per obbligo, non posso invece io, come ho detto, fornirne di altrettali: perché all'eternamente libera volontà non ho da prescrivere dovere né legge. Invece, nell'organismo del mio sistema ciò che in certo modo corrisponde analogicamente a quel proposito è la verità, puramente teoretica, di cui è semplice sviluppo il complesso di questa mia esposizione. Ossia, che la volontà è l'in-sé d'ogni fenomeno, e quindi, come tale, sciolta dalle forme fenomeniche e dalla pluralità; la qual verità io, riguardo alla condotta, non so esprimere più degnamente che con la citata formula del Veda: «Tat tvam asi!» («questo sei tu!»). Chi sa ripeterla a se stesso con limpida cognizione e ferma, intima persuasione innanzi a ciascun essere con cui venga in contatto, è certo con essa di conseguire ogni virtù e beatitudine, e si trova sulla via diritta che conduce alla redenzione.

Ma, prima che io proceda oltre e mostri, come termine della mia trattazione, in qual modo l'amore, di cui già conosciamo essere origine ed essenza il poter guardare di là dal principio individuationis, conduca alla redenzione, ossia alla cessazione completa della volontà di vivere, cioè d'ogni volere; ed in qual modo vi conduca pure un'altra via, meno dolce, eppur più frequente; deve ancora venir formulato e chiarito un paradosso: non perché sia tale, ma perché è vero, ed entra nella compiutezza del pensiero ch'io voglio esporre. Esso è il seguente: «Ogni amore (αγαπη, caritas) è compassione».

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