Dopo questa digressione sull'identità del puro amore e della pietà, la quale ultima facendo ritorno a noi medesimi ha per sintomo il fenomeno del pianto, riprendo il filo della nostra esposizione riguardante il valore etico della condotta; per venire a mostrare come dalla sorgente medesima, da cui proviene ogni bontà, amore, virtù e nobiltà, si origini infine anche quella, ch'io chiamo negazione della volontà di vivere.
Come vedemmo odio e malvagità aver per condizione l'egoismo, e questo poggiar sulla conoscenza circoscritta nel principio individuationis; così trovammo essere origine ed essenza della giustizia, nonché, salendo più in su, dell'amore e della nobiltà fino ai gradi più alti, l'oltrepassamento di quel principii individuationis. Che solo il guardar di là da questo sopprime la distinzione tra l'individuo nostro e gli altri, e rende possibile e spiega la perfetta bontà dell'animo, fino al più disinteressato amore e al più generoso sacrificio di sé.
Ma, dato in alto grado di chiarezza questo superamento del principii individuationis, data questa diretta cognizione della volontà identica in tutti i suoi fenomeni, essa eserciterà immediatamente sulla volontà un influsso procedente ancor più lontano. Se invero davanti agli occhi d'un uomo quel velo di Maja, che è il principium individuationis, s'è tanto sollevato, che quest'uomo non ponga più l'egoistico divario tra la sua persona e l'altrui, bensì agli altrui dolori tanta parte prenda, quanta ai propri, e quindi non soltanto sia in altissima misura soccorrevole, ma pronto addirittura a sacrificar se stesso non appena più individui estranei sian da salvare col sacrificio suo; allora ne consegue spontaneamente che un tale uomo, il quale in tutti gli esseri il suo più intimo e più vero io riconosce, anche gl'infiniti mali d'ogni vivente tiene come suoi, e così fa suo il dolore del mondo intero. Nessun dolore gli è più straniero. Tutti gli affanni altrui, ch'egli vede e può sì raramente lenire; tutti gli affanni, di cui ha notizia indiretta, o che semplicemente conosce come possibili, agiscono sullo spirito di lui come i suoi propri. Non è più l'alterno bene e male della sua persona, quel ch'egli ha in vista, com'è il caso degli uomini ancor prigionieri dell'egoismo; invece, scorgendo egli di là dal principio individuationis, tutto gli è ugualmente vicino. Conosce il tutto, ne comprende l'essenza, e la trova sempre involta in un continuo perire, in un vano aspirare, in intimo contrasto e in perenne dolore; vede, dovunque guardi, la sofferente umanità e la sofferente animalità, e un mondo evanescente. E tutto è a lui così vicino, com'è vicina all'egoista la sua propria persona. Ora, come potrebb'egli mai, con tal conoscenza del mondo, questa vita affermare con continui atti di volontà, e in siffatto modo sé ognora più strettamente alla vita avvincere, sempre più forte a sé stringerla? Se adunque colui il quale ancor prigioniero nel principio individuationis, nell'egoismo, soltanto singole cose conosce, e il rapporto di esse con la sua persona; e quelle diventan poi motivi sempre rinnovati del suo volere; viceversa quella cognizione del tutto, dell'essenza delle cose in sé, diventa un quietivo della volontà in genere e in particolare. La volontà si distoglie oramai dalla vita: ha orrore dei suoi piaceri, nei quali riconosce l'affermazione di quella. L'uomo perviene allo stato della volontaria rinunzia, della rassegnazione, della vera calma e della completa soppressione del volere. A noi, che ancora avvolge il velo di Maja, traluce a momenti, in mezzo a dolori nostri pesantemente sofferti o a dolori altrui vivacemente percepiti, la conoscenza della vanità e amarezza della vita, e allora con piena, definitivamente risoluta rinuncia vorremmo strappare al desiderio il suo pungolo, a ogni dolore sbarrare il cammino, purificarci e santificarci; ma tosto ci riafferra nelle sue maglie l'illusione del fenomeno, e di nuovo i suoi motivi mettono in moto la volontà: né perveniamo a districarcene. Gli adescamenti della speranza, la lusinga del presente, la dolcezza dei piaceri, il benessere, ond'è partecipe la nostra persona in mezzo al travaglio d'un mondo doloroso, in balìa del caso e dell'errore, ci traggono novellamente a sé e stringono di nuovo i legami. Perciò dice Gesù: «È più facile a una gomena passare attraverso una cruna d'ago, che a un ricco venire nel regno di Dio». Paragoniamo la vita a un'orbita fatta di carboni ardenti, con pochi spazi freddi, orbita che noi dobbiamo senza posa percorrere: a chi in quell'orbita è preso da conforto il piccolo spazio freddo, sul quale per il momento egli si trova, o che vicino innanzi a sé vede, e continua a percorrere l'orbita. Ma quegli che, guardando oltre il principium individuationis, conosce l'essenza delle cose in sé, e quindi il tutto, non è più sensibile a quel conforto: vede se stesso contemporaneamente su tutta l'orbita, e ne viene fuori. La sua volontà muta indirizzo, non afferma più la sua propria essenza, rispecchiantesi nel fenomeno, bensì la rinnega. Il processo, con cui ciò si manifesta, è il passaggio dalla virtù all'ascesi. Non basta più a quell'uomo amare altri come se stesso, e far per essi quanto fa per sé; ma sorge in lui un orrore per l'essere, di cui è espressione il suo proprio fenomeno, per la volontà di vivere, per il nocciolo e l'essenza di quel mondo riconosciuto pieno di dolore. Quest'essenza appunto, in lui medesimo palesantesi e già espressa mediante il suo corpo, egli rinnega; il suo agire sbugiarda ora il suo fenomeno, entra con esso in aperto contrasto. Egli, che non altro è, se non fenomeno della volontà, cessa di volere, si guarda dall'attaccar la sua volontà a una cosa qualsiasi, cerca di rinsaldare in se stesso la massima indifferenza per ogni cosa. Il suo corpo, sano e forte, esprime per mezzo dei genitali l'istinto sessuale, ma egli rinnega la volontà e sbugiarda il corpo: non vuole la soddisfazione del sesso, a nessun patto. Volontaria, perfetta castità è il primo passo nell'ascesi, ovvero nella negazione della volontà di vivere. Essa rinnega così l'affermazione della volontà, che va oltre la vita individuale; e con ciò dà segno che con la vita di questo corpo la volontà, di cui esso è fenomeno, è soppressa. La natura, sempre vera e ingenua, dice che, se questa massima diventasse universale, perirebbe il genere umano: e dopo quanto fu detto nel secondo libro intorno alla connessione di tutti i fenomeni della volontà, credo di poter ammettere, che col fenomeno di volontà più alto svanirebbe anche quel più debole riflesso che è il mondo animale: come in piena luce svaniscono anche le penombre. Con la piena soppressione della conoscenza, si perderebbe da sé nel nulla anche il rimanente mondo: che non v'ha oggetto senza soggetto. A ciò potrei perfino riferire un passo del Veda, che dice: «Come in questo mondo bambini affamati si stringono intorno alla madre, così attendono tutti gli esseri il santo sacrificio» «Asiatic researches», vol. 8: Colebrooke, On the Vedas, nell'estratto del Sama-veda: si trova anche in Colebrooke, Miscellaneous Essays, vol. I, p. 88). Sacrificio significa genericamente rassegnazione, e la residua natura deve attendere la sua redenzione dall'uomo, ch'è nel medesimo tempo sacerdote e vittima. E merita d'esser notato come cosa singolarissima, che questo pensiero fu espresso anche dall'ammirabile e incommensurabilmente profondo Angelus Silesius, nel versetto intitolato l'uomo porta tutto a Dio, che suona così:
Uomo! tutto ti ama; a te intorno è gran ressa:
Tutto verso te corre, per così giungere a Dio.
Ma un mistico ancor più grande, Meister Eckhard, le cui mirabili opere sono or finalmente rese accessibili dall'edizione di Franz Pfeiffer (1857), scrive (ibid., p. 459), proprio nel senso qui illustrato: «Io confermo ciò con Cristo, che dice: quando vengo sollevato dalla terra, voglio tutte le cose trarre dietro a me (Giov., 12, 32). Similmente deve l'uomo buono tutte le cose elevare a Dio, alla loro origine prima. Questo ci confermano i Maestri, che tutte le creature sono fatte per la volontà dell'uomo. Questo verificate in tutte le creature, che una creatura all'altra giova: al giovenco l'erba, al pesce l'acqua, all'uccello l'aria, alla bestia selvatica il bosco. E così tutte le creature portano giovamento all'uomo buono: e l'una creatura nell'altra è portata dall'uomo buono a Dio». Vuol dire: l'uomo mette a profitto gli animali in questa vita, per il fine di redimerli in sé e con sé. Mi sembra che perfino il difficile passo della Bibbia in Romani, 8, 21-24 sia da interpretarsi a questo modo.
Anche nel Buddhismo non mancano espressioni di ciò: per esempio, quando Buddha, ancora in forma di Bodhisattva, fa sellare un'ultima volta il suo cavallo, per la fuga dalla paterna residenza verso il deserto, dice ad esso queste parole: “Già lungo tempo tu fosti nella vita e nella morte: ma ora devi cessar di portare e di trascinare. Sol questa volta ancora, o Kantakana, portami via di qua, e quando io avrò conseguita la legge (diventato Buddha), non mi dimenticherò di te” (Foe Koue Ki, traduz. di Abel Rémusat, p. 233).
L'ascesi si rivela inoltre nella volontaria, meditata povertà, che non sopravviene per accidens, in quanto il patrimonio venga donato per lenir mali altrui, ma è già scopo a se stessa, serve di permanente mortificazione della volontà, affinchè l'appagamento dei desideri e la mollezza della vita non tornino ad eccitar la volontà, della quale ha concepito orrore la vera conoscenza. Chi è pervenuto a tal segno, sente ancor sempre, come corpo animato, come concreto fenomeno di volontà, la disposizione al volere in tutte le sue forme: ma meditatamente la soffoca, costringendosi a nulla fare di quanto vorrebbe, e viceversa a tutto fare quanto non vorrebbe, anche se non abbia altro fine, che quello di servire alla mortificazione della carne. Poiché egli medesimo rinnega la volontà palesantesi nella sua persona, non resisterà se altri fa lo stesso, ossia se gli fa un torto: ogni sofferenza, che a lui venga dall'esterno, sia per caso, sia per altrui malvagità, è la benvenuta; e così ogni danno, ogni smacco, ogni offesa. Tutto accoglie gioiosamente, come occasione di dare a se medesimo la certezza, ch'egli la volontà più non afferma, bensì lieto prende le parti di ciascun nemico sorto contro quel fenomeno di volontà, ch'è la sua propria persona. Tale onta e dolore sopporta quindi con inesauribile pazienza e dolcezza, paga senza ostentazione il male col bene, e non tollera che il fuoco dell'ira si risvegli in lui, più che non tolleri il fuoco della brama. Come mortifica la volontà, così mortifica la sua forma visibile, l'oggettità di lei: il corpo. Scarsamente lo nutre, affinchè il suo rigoglioso fiorire e prosperare non torni a far più viva e forte la volontà, di cui esso è semplice espressione e specchio. Similmente pratica il digiuno, anzi la macerazione, l'autoflagellazione, per sempre più uccidere mediante perenne privazione e sofferenza la volontà, ch'egli conosce ed aborrisce qual sorgente del proprio doloroso essere come di quello del mondo. Viene finalmente la morte, a disciogliere questo fenomeno di quella volontà, la cui essenza qui, già da gran tempo, per libera negazione di se medesima, fuori del fioco resto che ne appariva in mantener vita al corpo, era spenta. E la morte, come invocata redenzione, è altamente ben venuta, e lietamente viene accolta. Con lei non termina in questo caso, com'è per gli altri, il solo fenomeno; bensì l'essenza medesima è soppressa, la quale qui ancor soltanto nel fenomeno, e per suo mezzo, aveva una pallida vita: ultimo fragile vincolo, ora anch'esso spezzato. Per quegli, che così finisce, è il mondo insieme finito.
E ciò, ch'io qui con debole lingua e solo in termini generali ho descritto, non è per avventura una fiaba filosofica di mia invenzione, e che solo da oggi duri: no, era invece l'invidiabile vita di numerosi santi e di belle anime tra i Cristiani, e ancor più tra gli hindù e i Buddhisti, e pure in altre confessioni. Per quanto fossero diversi i dogmi impressi nella loro ragione, nell'identica guisa venne tuttavia ad attuarsi, mediante il modo di vivere, l'intima, diretta, immediata conoscenza, da cui esclusivamente può procedere ogni virtù e santità. Imperocché anche qui si mostra il grande divario tra la conoscenza intuitiva e l'astratta, finora troppo poco osservato, ma in tutto il nostro sistema così importante e penetrante in ogni dove. Tra le due conoscenze è un ampio abisso, attraverso il quale, riguardo alla cognizione dell'essenza del mondo, la sola filosofia può condurre. Intuitivamente invero, ossia in concreto, ogni uomo è consapevole di tutte le verità filosofiche: ma portarle nel suo sapere astratto, nella riflessione, è affare del filosofo: il quale, oltre a questo, nulla deve, nulla può.
Forse qui adunque per la prima volta, in forma astratta e pura d'ogni mito, l'intima essenza della santità, negazione di sé, morte della volontà, ascesi, è formulata come negazione della volontà di vivere; la quale subentra dopo che la compiuta conoscenza del proprio essere è divenuta quietivo d'ogni volere. Viceversa l'hanno direttamente conosciuta ed espressa nella realtà tutti quei santi e asceti che, pur avendo la stessa intima cognizione, parlavano una lingua assai diversa, secondo i dogmi che avevano accolti nella loro ragione, e in virtù dei quali un santo indiano, cristiano, lamaico devono render diversissimo conto della propria azione; il che è, per la sostanza, del tutto indifferente. Un santo può esser pieno della più assurda superstizione, o esser viceversa un filosofo: i due si equivalgono. Soltanto il suo modo d'agire prova ch'egli è santo: perché esso, sotto il riguardo morale, non proviene dalla conoscenza astratta, bensì dall'intuitiva, immediata conoscenza del mondo e della sua essenza; e da quegli sol per appagamento della sua ragione viene spiegato con un dogma purchessia. Che il santo sia un filosofo, è tanto poco necessario, quanto poco necessario che il filosofo sia un santo: come necessario non è che un uomo bellissimo sia un grande scultore, o che un grande scultore sia pure un bell'uomo. Sarebbe d'altronde singolare il pretendere da un moralista, ch'egli non deva raccomandare se non le virtù da lui stesso possedute. Rispecchiare astrattamente, universalmente e limpidamente in concetti l'intera essenza del mondo; e così, quale immagine riflessa, deporla nei permanenti e ognora disposti concetti della ragione: questo e non altro è filosofia. Richiamo alla memoria il passo, citato nel primo libro, di Bacone da Verulamio.
Ma appunto, esclusivamente astratto e generico e quindi freddo è il modo, ond'io ho più sopra descritta la negazione della volontà di vivere, ossia la condotta di una bell'anima, di un santo rassegnato, che faccia volontaria penitenza. Essendo intuitiva e non astratta la conoscenza, da cui nasce la negazione della volontà, non può trovar la sua espressione compiuta in concetti astratti, bensì esclusivamente nell'azione e nella condotta. Quindi, per meglio comprendere ciò che noi esprimiamo filosoficamente col concetto di negazione della volontà di vivere, si devono conoscere esempi tolti all'esperienza e alla realtà. Non li incontreremo di certo nell'esperienza di tutti i giorni: nam omnia praeclara tam difficilia quam rara sunt, dice benissimo Spinoza. Se adunque non si è stati testimoni oculari per una sorte particolarmente benigna, bisognerà contentarsi di legger le biografie di quegli uomini. La letteratura indiana, come già possiam vedere dal poco che finora ne conosciamo in traduzioni, è assai ricca di biografie dei santi, dei penitenti, detti Samani, Saniassi, e così via. Anche la nota, sebben tutt'altro che in tutto lodevole, Mythologie des Indous di Mad. de Polier contiene molti eccellenti esempi di tal genere (specialmente nel 13° cap. del 2° volume). Né mancano esempi tra i cristiani. Si leggano le biografie, di solito scritte male, di coloro che or vengono chiamati anime sante, ora pietisti, quietisti, pii visionarii, etc. Raccolte di tali biografie si fecero in diverse epoche, per esempio dal Tersteegen, Vite di anime sante, dal Reiz, Storia dei Rigenerati; a' nostri giorni si ha una raccolta del Kanne, che tra molta roba cattiva ne contiene pure alcuna buona, e specialmente, secondo me, la Vita della beata Sturmin. In modo particolarissimo va qui ricordata la vita di san Francesco d'Assisi, vera personificazione dell'ascesi, e modello di tutti i monaci mendicanti. La vita di lui, descritta dal suo contemporaneo, alquanto più giovane, e celebre anche come filosofo scolastico, san Bonaventura, è comparsa recentemente in nuova edizione (Soest, 1847): Vita S. Francisci a S. Bonaventura concinnata, poco dopo ch'era uscita in Francia una biografia di san Francesco accurata, ampia, e condotta su tutte le fonti: Histoire de S. Francois d'Assise, di Chavin de Mallan (1845). Come paralleli orientali di codesti scritti claustrali abbiamo il libro interessantissimo di Spence Hardy: Eastern Monachism, an Account of the Order of Mendicants founded by Gotama Budha (1850). Ci mostra la stessa cosa in altra veste. E vi si vede, come sia alla cosa indifferente il prender le mosse da una religione teista o atea. Ma soprattutto posso raccomandare, come speciale, amplissimo esempio e illustrazione effettiva dei concetti da me formulati, l'autobiografia di Madame de Guyon. Conoscere quella bella e grande anima, il cui ricordo mi riempie ognora d'ammirazione, e render giustizia all'eccellenza delle sue disposizioni spirituali, pur facendo riserve sulla superstizione della sua mente, dev'essere per ogni uomo bennato una gioia, come invece quel libro starà sempre in cattiva luce presso il comune volgare, ch'è costituito dai più; perché sempre e dovunque ciascuno può ammirar solo quel ch'è a lui in certa maniera analogo, e per cui ha una sia pur debole tendenza. Questo vale sì pel dominio intellettuale e sì nel morale. In un certo senso, si potrebbe ravvicinare a questi esempi anche la nota biografia francese di Spinoza, se si adopra come chiave per penetrarvi la magnifica introduzione a quella molto scadente opera di lui ch'è il De emendatione intellectus: introduzione, che posso consigliare come il più efficace mezzo ch'io mi conosca per placare la tempesta delle passioni. Finalmente, anche il gran Goethe, per quanto greco egli sia, non ha stimato indegno di sé mostrar questo bellissimo aspetto dell'umanità nel chiarificante specchio della poesia, col rappresentarci idealizzata nelle Confessioni di una bell'anima la vita della signorina Klettenberg; e più tardi, nella propria autobiografia, diede anche notizia storica di lei; come pure ci ha raccontato ben due volte la vita di san Filippo Neri. La storia del mondo tacerà invero sempre, e deve tacere, degli uomini la cui condotta è la migliore, l'unica soddisfacente illustrazione di questo punto essenziale della nostra indagine. Perché la materia della storia del mondo è tutt'altra, anzi è l'opposto: non è il negare, il rinunciare della volontà di vivere, ma è per l'appunto l'affermarla, il rilevarsi di lei in individui innumerabili. E quivi, in codesto affermarsi, apparisce con tutta chiarezza, al vertice supremo della sua oggettivazione, il suo dissidio interiore; ponendoci davanti agli occhi ora la prevalenza del singolo mediante l'intelligenza, ora la violenza della folla mediante la massa, ora il potere del caso personificato nel destino, ma sempre la caducità e nullità di tutti i desideri. Ma noi, che non dobbiamo qui seguire nel tempo il filo dei fenomeni, bensì come filosofi abbiam da investigare il valore etico delle azioni, e di questo il criterio unico per misurare quanto è per noi significativo e importante, noi non tratterrà nessun timore della volgarità e della scipitaggine raccolte in perpetua maggioranza, dal proclamare che il più alto, il più importante, il più significativo fenomeno, che il mondo possa mostrare, non è chi il mondo conquista, ma chi il mondo supera. Ossia è in verità la silenziosa, inosservata condotta di un uomo, al quale sia venuta tal conoscenza, che per effetto di lei egli getti via da sé e rinneghi quell'avida volontà di vivere, che tutto riempie e in tutto si agita. Solo in lui la volontà apparisce allora libera: ma la sua condotta diviene opposta alla condotta comune. Per il filosofo sono adunque sotto questo riguardo incomparabilmente più istruttive e importanti, quanto riguardo alla significazione del contenuto, le biografie di santi uomini, per male che sian scritte di solito, e presentate con un misto di superstizione e di stoltezza, che non siano Plutarco e Livio.
Alla migliore e più compiuta conoscenza di quel che noi, nell'astrazione e nell'universalità del nostro modo d'esporre, chiamiamo negazione della volontà di vivere, molto contribuirà, inoltre, lo studio delle massime etiche le quali in questo senso furon date da uomini pieni di cotale spirito. Esse ci mostreranno insieme, come antica sia la nostra concezione, per quanto nuova possa essere la sua formula filosofica. Più dappresso a noi sta il cristianesimo, la cui etica è tutta animata da quello spirito, e non solo conduce al più alto grado dell'amore verso il prossimo, ma anche alla rinunzia. Quest'ultima è già ben visibile in germe negli scritti degli Apostoli, ma tuttavia solo più tardi si sviluppa appieno e viene explicite enunciata. Troviamo che gli Apostoli prescrivono: amor del prossimo eguale all'amor di sé; carità, amore e benevolenza in cambio di odio; pazienza, mitezza, sopportazione d'ogni possibile offesa senza opporvisi: sobrietà nel cibo per mortificare il piacere; resistenza all'istinto sessuale, ove sia possibile, completa. Vediamo qui già i primi gradi dell'ascesi, o propriamente negazione della volontà. E questa nostra espressione indica proprio ciò che negli Evangeli si chiama rinnegar se medesimo e prender su di sé la croce (Math. 16, 24.25; Marc. 8, 34.35; Luc. 9, 23.24; 14, 26.27.33). Quest'indirizzo si sviluppò presto sempre più, e diede origine ai penitenti, agli anacoreti, al monachismo; il quale era in sé puro e santo, ma appunto perciò in nulla adatto alla maggioranza degli uomini, per modo che soltanto finzione e turpitudine potè venirne: imperocché abusus optimi pessimus. Col Cristianesimo meglio sviluppato possiam poi vedere quel germe ascetico aprirsi nel suo pieno fiore, negli scritti dei santi e mistici cristiani. Costoro predicano, oltre il puro amore, anche rassegnazione intera, volontaria, assoluta povertà, verace calma, completa indifferenza riguardo a ogni cosa terrena, morte della volontà individuale e rinascita in Dio, perfetto oblio della propria persona e assorbimento nella contemplazione divina. Di ciò si ha una compiuta esposizione in Fénelon, Explication des maximes des Saints sur la vie intérieure. Ma forse mai lo spirito del Cristianesimo in questo suo sviluppo fu espresso con tanta perfezione e vigore come negli scritti dei mistici tedeschi, e quindi di Meister Eckhard e nel libro a ragione celebrato Die deutsche Theologie (la teologia tedesca), di cui Lutero, nella prefazione che vi fece, disse di non aver da nessun altro libro, eccettuati la Bibbia e sant'Agostino, imparato meglio che da questo, che cosa siano Dio, Cristo e l'uomo. Ma il suo testo genuino l'abbiamo avuto solo il 1851, nell'edizione di Stuttgart curata da Pfeiffer. I precetti e ammaestramenti quivi impartiti sono la più completa illustrazione, inspirata dalla più intima e profonda certezza, di ciò ch'io ho presentato come negazione della volontà di vivere. Colà bisogna quindi imparare a meglio conoscerla, prima di sdottrineggiarvi su con ebraico-protestante saccenteria. Scritta nel medesimo, altissimo spirito, sebbene non tale da mettersi proprio a paro di quell'opera, è l'Imitazione della povera vita di Cristo (Nachfolgung des armen Leben Christi) di Tauler, e anche, dello stesso autore, la Medulla animae. Secondo me gl'insegnamenti di questi genuini spiriti cristiani sono rispetto a quelli del Nuovo Testamento ciò che l'alcool è rispetto al vino. Ossia: ciò che nel Nuovo Testamento ci appare come attraverso velo e nebbia, ci si fa incontro nelle opere dei Mistici scopertamente, in piena chiarità ed evidenza. E si potrebbe, per concludere, considerare il Nuovo Testamento come la prima consacrazione, i Mistici come la seconda σμικρα και μεγαλα μυοτηρια.
Ma ancor più sviluppato, sotto più aspetti formulato, e più vivacemente rappresentato che non fosse possibile nella Chiesa cristiana e nel mondo occidentale, troviamo ciò che noi chiamammo negazione della volontà di vivere nelle antichissime opere della lingua sanscrita. Che quella grave considerazione etica della vita potesse colà raggiungere uno sviluppo ancora più ampio, e più risoluta espressione, è forse principalmente da attribuire al fatto, che quivi essa non fu limitata da un elemento a lei del tutto estraneo, com'è nel Cristianesimo la religione ebraica, alla quale l'alto fondatore di quello dové per necessità, parte consapevolmente e parte forse inconsapevolmente, conformarsi e adattarsi: per modo che il Cristianesimo risulta di due elementi molto eterogenei, dei quali io l'elemento ch'è soltanto etico amerei di preferenza, anzi in modo esclusivo, chiamar cristiano; e vorrei distinguerlo dal dogmatismo ebraico ch'esso trovò innanzi a sé. Se, come già spesso, e in particolar modo nell'età presente si è temuto, quell'alta e redentrice religione dovesse un giorno decadere del tutto, io troverei di ciò la ragione nel fatto, ch'ella consta non già di un elemento semplice, bensì di due elementi in origine eterogenei, e venuti a collegarsi sol per il corso degli eventi. La loro scomposizione, causata dalla naturale disuguaglianza e dal contrasto col progredito spirito di quest'età, non mancherebbe di produrne lo scioglimento; ma in seguito rimarrebbe tuttavia integra la parte puramente morale, perché questa è indistruttibile. Venendo all'etica degli hindù, quale noi già ora, per incompiuta che sia la nostra cognizione di quella letteratura, la troviamo espressa nel modo più vario e più vivace nei Vedas, nei Puranas, nelle opere poetiche, nei miti, nelle leggende dei santi indiani, nelle massime e regole di vita, vediamo che vi si prescrive: amore del prossimo con piena rinunzia ad ogni egoismo; amore non limitato al genere umano, ma estendentesi a ogni cosa viva; carità spinta fino a dare lo stentato guadagno quotidiano; illimitata pazienza verso tutti gli offensori; bontà e amore in cambio d'ogni male, per duro che sia; volontaria e gioiosa tolleranza d'ogni umiliazione; astinenza da ogni nutrizione animale; completa castità e rinunzia a tutti i piaceri da parte di chi aspira alla vera santità; donazione d'ogni patrimonio, abbandono d'ogni domicilio, e di tutti i parenti; profonda, assoluta solitudine, trascorsa in silenziosa contemplazione, con volontaria penitenza e terribile, lenta macerazione, per venire alla compiuta mortificazione della volontà, mortificazione che giunge fino alla morte volontaria per fame, o con l'esporsi ai coccodrilli, o col precipitarsi da una sacra vetta dell'Himalaja, o col farsi seppellire vivi, o col gettarsi sotto le ruote dell'immane carro recante attorno in processione le immagini degli Dei tra canto, giubilo e danza delle bajadere. E a codeste regole, la cui origine risale indietro di quattro millenni, s'informa oggi ancora la vita di quel popolo, per quanto in molte cose degenerato; taluni le seguono addirittura fino agli ultimi eccessi. Ora, quel che sì a lungo, in un popolo comprendente tanti milioni d'uomini, è stato praticato, sebbene imponga i più gravi sacrifici, non può essere un'ubbia inventata a capriccio, ma deve avere il suo fondamento nell'essenza dell'umanità. A ciò si aggiunga, che non ci si meraviglierà mai abbastanza della somiglianza uniforme, che si trova quando si legge la vita di un penitente o santo cristiano, e quella di un indiano. Con dogmi, costumi e luoghi sì fondamentalmente diversi, affatto identica è l'aspirazione e l'interna vita di entrambi. Lo stesso si dica per le loro prescrizioni. Per esempio, Tauler parla dell'assoluta povertà, che bisogna ricercare, e che consiste nel disfarsi appieno di tutto ciò da cui potrebbe trarsi un conforto o una soddisfazione terrena: evidentemente, perché tutto ciò da sempre nuovo alimento alla volontà, che si mira invece a spegnere del tutto. Ora, come analogia indiana troviamo nelle regole del Fo raccomandato al Saniassi, il quale non deve aver domicilio né proprietà alcuna, di non adagiarsi, per di più, troppo sovente sotto lo stesso albero, affinchè non abbia a concepire per quest'albero qualche preferenza o inclinazione. I mistici cristiani e i maestri della filosofia Vedanta s'incontrano anche nel considerar superflue tutte le opere esteriori e pratiche religiose, per colui che abbia raggiunto lo stato perfetto. Tanta concordanza, in tempi e popoli sì diversi, è una prova di fatto che quivi non si esprime, come volentieri afferma l'ottimistica insulsaggine, una stramberia e stoltezza dell'animo, bensì un lato essenziale dell'umana natura, il quale sol per la sua eccellenza di rado si manifesta. Oramai ho indicata la fonte, dalla quale si posson direttamente conoscere, attingendo alla vita stessa, i procedimenti in cui si palesa la negazione della volontà di vivere. In un certo modo è questo il punto più importante di tutto il nostro studio: nondimeno io l'ho esposto tenendomi sempre sulle generali, meglio essendo rimandare a quelli, i quali ne parlano per diretta esperienza, che non ingrossare senza bisogno questo libro con l'affievolita ripetizione di ciò ch'essi hanno detto.
Ma poco altro voglio aggiungere per definire genericamente il loro stato. Vedemmo più indietro il malvagio, per vivacità del suo volere, soffrire perenne, divorante intimo affanno, e da ultimo, quando tutti gli oggetti del volere sono esauriti, placar la rabbiosa sete dell'egoismo con la vista della pena altrui; quegli viceversa, in cui s'è affermata la negazione della volontà di vivere, per quanto povero, scevro di gioia, di privazioni pieno sia il suo stato visto dal di fuori, è pieno d'intima gioia e di vera calma celeste. Non sono più l'irrequieto impulso vitale, l'esuberante gioia, che ha per condizione precedente o successiva un vivo dolore, quali costituiscono la vita di un uomo amante dell'esistenza; ma è invece un'incrollabile pace, una profonda quiete ed intima letizia, uno stato che noi, se ci vien posto davanti agli occhi o alla fantasia, non possiamo guardare senza altissimo desiderio, perché tosto lo riconosciamo come l'unico a noi conveniente, di gran lunga superiore a ogni altra cosa, e verso di esso il nostro spirito migliore ci spinge col grande sapere aude. Sentiamo allora come ogni appagamento dei nostri desideri strappato al mondo è appena simile all'elemosina, che oggi tiene in vita il mendico perché domani ancor soffra la fame. La rassegnazione somiglia invece alla proprietà ereditaria, che libera per sempre il possessore da tutte le angustie.
Ci sovviene il terzo libro, che la gioia estetica del bello consiste per gran parte nel fatto che noi, entrando nello stato della pura contemplazione, siamo pel momento liberati da ogni volere, ossia da tutti i desideri e gli affanni, quasi fossimo sciolti da noi medesimi; non più individuo dotato d'una conoscenza in servizio del suo perenne volere, non più correlato dell'oggetto singolo, a cui le cose divengono motivi; bensì eterno soggetto del conoscere, liberato dalla volontà, correlato dell'idea. E sappiamo come gl'istanti, in cui sciolti dal feroce impulso della volontà veniamo quasi a tenerci sollevati sulla greve aria terrestre, siano i più beati che noi conosciamo. Da ciò possiam ricavare, come felice debba esser la vita di un uomo, la cui volontà sia non per fugaci istanti domata, come accade nel godimento del bello, ma per sempre, e sia anzi spenta del tutto, eccettuata solamente l'ultima estinguentesi scintilla, che regge il corpo e con questo si estinguerà. Un siffatto uomo, che dopo molte amare lotte contro la propria natura, riporta finalmente piena vittoria, non sopravvive più se non come semplice essenza conoscente, come limpido specchio del mondo. Nulla più perviene ad angustiarlo, nulla a scuoterlo: perché tutte le mille fila del volere, che ci tengono legati al mondo, e di qua e di là in forma di sete, paura, invidia, ira ci trascinano dilaniandoci, con assiduo dolore, egli le ha tagliate. Sereno e sorridente egli si volge ora a guardare le finte immagini del mondo, che un tempo sapevano scuotere e affliggere anche l'animo suo, ma ora gli stanno innanzi indifferenti come i pezzi d'una scacchiera a giuoco finito, o come al mattino i vestiti da maschera smessi e dispersi, le cui parvenze ci avevano stuzzicati ed eccitati nella notte di carnevale. La vita e le sue forme ondeggiano oramai davanti a lui come una fuggitiva visione, o come appare nel dormiveglia un lieve sogno mattutino, attraverso il quale già traluce la realtà, e che più non perviene ad illuderci: e appunto come questo sogno svaniscono, senza un brusco passaggio. Da queste considerazioni possiamo intendere in qual senso si esprima spesso così M.me de Guyon, verso la fine della sua autobiografia: «Tutto m'è indifferente; io non posso più nulla volere: spesso non so, se esisto o non esisto». Mi sia anche concesso, per esprimere come, dopo la morte della volontà, pur la morte del corpo (il quale non è che il fenomeno della volontà, soppressa la quale perde anch'esso ogni significato) non abbia più nulla d'amaro, e sia anzi la benvenuta –, di trasportar qui le parole stesse di quella santa penitente, sebbene non siano formulate con eleganza: «Midi de la gloire; jour où il n'y a plus de nuit; vie qui ne craint plus la mort, dans la mort même: parce que la mort a vaincu la mort, et que celui qui a souffert la première mort, ne goûtera plus la seconde mort» (Vie de M.me de Guyon, vol. Il, p. 13).
Non dobbiamo tuttavia ritenere che, una volta subentrata, attraverso la conoscenza ridotta a quietivo, la negazione della volontà di vivere, questa non tentenni mai più, e si possa su lei posare come su d'una proprietà guadagnata. Invece dev'essere con diuturna battaglia sempre di nuovo riconquistata. Perché il corpo è la volontà medesima, ma sol nella forma dell'oggettità, ossia fenomeno nel mondo quale rappresentazione; quindi, finché il corpo vive, sussiste ancora nella propria possibilità tutta intera la volontà di vivere, e tende perennemente a entrar nella realtà, ad ardere di nuovo in tutto il proprio ardore. Quindi troviamo, che nella vita dei santi quella descritta calma e beatitudine è come il fiore, che sorge dalla continua vittoria sulla volontà; il suolo, da cui essa germoglia, è la permanente battaglia con la volontà di vivere: imperocché durevole calma non può aver nessuno sulla terra. Perciò vediamo le narrazioni della vita interna dei santi esser piene di lotte spirituali, tentazioni, e abbandoni della grazia: ossia offuscamenti di quel modo di conoscenza, che facendo inefficaci tutti i motivi doma come universal quietivo tutti i voleri, dà la pace più profonda e apre la porta della libertà. E vediamo quindi anche coloro, i quali son giunti alla negazione della volontà, tenersi con tutti gli sforzi su questo cammino, costringendosi a rinunzie d'ogni maniera, con una espiante dura regola di vita e con la ricerca di ciò che loro spiace: tutto per soffocare la volontà sempre divampante. Da qui vengono infine, poiché essi già conoscono il pregio della redenzione, la loro cura angosciosa per la osservazione del bene raggiunto, i loro scrupoli di coscienza per ogni innocente piacere, e per ogni piccol moto della vanità, che anche in essi è l'ultima a morire, essendo di tutte le inclinazioni umane la più tenace, la più attiva e la più stolta. Con la parola ascesi, già spesso da me usata, io intendo, nel senso più stretto, il deliberato infrangimento della volontà, mediante l'astensione dal piacevole e la ricerca dello spiacevole, l'espiazione e la macerazione spontaneamente scelta, per la continuata mortificazione della volontà.
Ora, se noi vediamo questa mortificazione praticata da chi già è giunto alla negazione della volontà, per mantenervisi, è poi il dolore in genere, quale ci viene inflitto dal destino, una seconda via (δευτερος πλους) per arrivare a quella negazione. Possiamo anzi ritenere, che i più solo da questa vi arrivano, e che è il dolore direttamente provato, non quello semplicemente conosciuto, a produrre la piena rassegnazione, spesso solamente in prossimità della morte. Che solo in pochi basta a ciò la semplice conoscenza, la quale, penetrando oltre il principium individuationis, produce dapprima la perfetta bontà dell'animo, e finalmente fa riconoscer come proprii tutti i mali del mondo, per dar luogo alla negazione della volontà. Anche in colui che a tale stato si avvicina, quasi sempre le condizioni tollerabili della sua persona, la lusinga dell'attimo, l'ingannevole richiamo della speranza e l'ognora offrentesi appagamento della volontà, ossia del piacere, sono un continuo ostacolo alla negazione della volontà stessa, e una continua tentazione di riaffermarla: perciò sotto tale riguardo tutte codeste tentazioni vennero personificate in diavoli. Il più delle volte deve quindi la volontà venire spezzata da un fortissimo dolore personale, prima che pervenga a negarsi. Vediamo allora l'uomo, quando per tutti i gradi della crescente angoscia è giunto, resistendo con violenza, all'orlo della disperazione, improvvisamente tornare in sé, sé e il mondo conoscere, mutare tutto il proprio essere, elevarsi sopra sé stesso e sopra il dolore, e, come fosse da questo dolore purificato e santificato, in non attaccabile calma, in beatitudine e sublimità di spirito rinunziare a tutto quanto prima egli bramava con la massima violenza, e gioioso accogliere la morte. Questo è il corrusco metallo della negazione della volontà di vivere, ossia della redenzione, che all'improvviso balza fuori dalla fiamma purificatrice del dolore. Perfino coloro, che furono molto malvagi, vediamo talora purificati fino a questo grado dai più profondi dolori: sono diventati altre persone da quel che furono, e completamente trasformati. I misfatti prima commessi non angosciano quindi nemmen più la loro coscienza; tuttavia li espiano volentieri con la morte, e di buon animo vedono volgersi al termine il fenomeno di quella volontà, che ora è ad essi straniera ed oggetto d'orrore. Di questa negazione della volontà prodotta da grande sventura e nessuna speranza di salvezza, ci ha dato una limpida e intuitiva rappresentazione, tale ch'io non ne conosco pari nella poesia, il gran Goethe, nel suo immortale capolavoro, il Faust, nella storia del dolore di Margherita. Essa è un esempio perfetto della seconda via, la qual conduce alla negazione della volontà mediante un personale, terribile dolore da noi stessi provato; e non, come la prima, mediante la semplice cognizione del dolore di un mondo intero, che volontariamente si fa dolore proprio. È vero, che molte tragedie conducono da ultimo il loro eroe pieno d'impetuosa volontà a questo punto di completa rassegnazione, in cui di solito si spengono insieme la volontà di vivere ed il suo fenomeno: ma nessuna rappresentazione, ch'io conosca, mi mette innanzi agli occhi ciò ch'è essenziale in quel rivolgimento con tanta limpidità e così puro d'ogni accessorio, come la storia citata del Faust.
Nella vita reale vediamo quegl'infelici, i quali han da vuotare la più gran misura di dolore, allorché è tolta loro del tutto ogni speranza, e in piena lucidità di spirito vanno incontro a una vergognosa, violenta, spesso tormentosa morte sul patibolo, molto spesso trasmutarsi nel modo suddetto. Non penseremo davvero, che tra il carattere loro e quello della maggior parte degli uomini sia tanta differenza, come dà a credere il loro destino, e invece attribuiremo quest'ultimo, il più delle volte, alle circostanze: ma pur tuttavia sono colpevoli, e malvagi in grado considerevole. E intanto vediamo molti di loro, una volta perduta affatto la speranza, convertiti come dicemmo. Dimostrano allora una reale bontà e purezza d'animo, hanno orrore d'ogni atto minimamente malvagio o privo d'amore; ai loro nemici perdonano, fossero pur questi gli autori d'una pena che innocentemente essi soffrono, non solo a parole e forse per ipocrita paura dei giudici dell'al di là, bensì effettivamente, e con intima gravità; né voglion vendetta alcuna. Anzi, il soffrire e morire finisce col diventar loro gradito, imperocché è subentrata la negazione della volontà di vivere; respingono spesso l'offerta salvezza, volentieri muoiono, tranquilli, beati. Nell'eccesso del dolore si è loro palesato il segreto ultimo della vita, che cioè il dolore e la malvagità, la sofferenza e l'odio, il tormentato e il tormentatore, per quanto diversi appariscano alla conoscenza, che segue il principio di ragione, sono in sé tutt'uno, fenomeno di quell'unica volontà di vivere, che il proprio dissidio con se medesima oggettiva mediante il principium individuationis: essi hanno appreso a conoscerne in piena misura le due facce, la malvagità e il dolore, e scorgendone da ultimo l'identità, entrambe le rigettano da sé, rinnegano la volontà di vivere. In quali miti e dogmi diano poi conto alla loro ragione di questa intuitiva e diretta conoscenza, e del proprio mutamento, è cosa, come osservammo, affatto indifferente.
Testimone di una simile trasformazione morale fu, senza dubbio, Matthias Claudius, quando scrisse quel singolare saggio che nel Wandsbecker Boten (parte I, p. 115) si trova sotto il titolo Storia della conversione di ***, e si chiude così: «Il modo di pensare dell'uomo può passar da un punto della periferia al punto opposto, e tornar poi al punto precedente, se le circostanze ve lo spingano. E tali mutamenti non sono nell'uomo nulla di grande e d'interessante. Ma quella strana, cattolica, trascendentale trasformazione, per cui tutto il circolo viene irrevocabilmente lacerato, e tutte le leggi della psicologia diventan vane e vuote; dove il vestimento è tolto alla pelle, o almeno rovesciato, e all'uomo sembrano cadere squame dagli occhi, quella trasformazione è tal cosa che ciascuno, il quale abbia in qualche modo coscienza del fiato nel suo naso, abbandona padre e madre, se ha occasion di udire e apprendere alcunché di sicuro intorno a quest'argomento».
Prossimità della morte e perdita della speranza non sono d'altronde punto necessarie per codesta purificazione prodotta dal dolore. Anche senza di quelle può, mediante grande sventura e grande dolore, la cognizione del contrasto della volontà di vivere con se medesima prodursi vigorosamente, e fare scorgere il nulla d'ogni aspirazione. Per questo si videro sovente uomini, i quali avevano menato una vita assai travagliata nel tumulto delle passioni, re, eroi, cavalieri di ventura, improvvisamente mutare, darsi alla rassegnazione e alla penitenza, farsi eremiti e monaci. Quivi vanno comprese tutte le storie genuine di conversione, ad esempio, anche quella di Raimondo Lullo, il quale da una bella, a cui aveva lungamente fatto la corte, invitato finalmente a raggiungerla in camera sua, si vedeva presso al compimento di tutti i desideri, quand'ella, slacciandosi il corpetto, gli mostrò il seno orribilmente divorato da un cancro. Da quest'istante, com'avesse spinto l'occhio nell'inferno, si convertì; abbandonò la corte del re di Majorca e andò nel deserto, a far penitenza.
A questa conversione somiglia molto quella dell'abate Rancé, che io ho brevemente narrata nel cap. 48 del secondo volume. Se consideriamo come in entrambi il passaggio avvenisse dal piacere agli orrori della vita, abbiamo in ciò una spiegazione del fatto sorprendente, che la nazione più mondana, più allegra, più sensuale e più leggiera d'Europa, ossia la francese, sia pur quella in cui è sorto l'ordine monastico di gran lunga più rigido, la Trappa, poi restaurato dopo la sua decadenza da Rancé, e malgrado rivoluzioni, evoluzioni ecclesiastiche e propagata incredulità, fino al dì d'oggi sopravvivente nella sua purezza e terribile severità.
Ma una cognizione della natura del mondo, quale quella più sopra ricordata, può nondimeno allontanarsi nuovamente dall'uomo, quando cessi l'occasione che l'ha prodotta; ritorna allora la volontà di vivere, e con lei il carattere antecedente. Così vediamo l'impetuoso Benvenuto Cellini, una volta in prigione e altra volta ammalato di grave malattia, trasmutarsi nel modo suddetto; ma, scomparsi i mali, tornar nell'antico stato. In genere, poi, la negazione della volontà non è prodotta dal dolore con la stessa necessità con cui un effetto è prodotto dalla sua causa; la volontà resta libera. Anzi è proprio questo l'unico punto, in cui la sua libertà entri direttamente nel fenomeno; di qui la sorpresa così vivamente espressa dall'Asmus sulla «conversione trascendentale». Accanto a ogni dolore si può immaginare una volontà ad esso superiore in forza, e quindi incoercibile. Così Platone racconta nel Fedone di cotali, che fino all'istante del loro supplizio banchettano, bevono, godono Afrodite, fino alla morte affermando la vita, Shakespeare ci pone innanzi nel cardinale Beaufort la terribile fine di uno scellerato, che muore al colmo della disperazione, non potendo dolore alcuno né morte infrangere la sua volontà spinta fino alla malvagità più estrema.
Quanto più vivace la volontà, quanto più stridente il fenomeno del suo contrasto, tanto è più forte il dolore. Un mondo, il quale fosse fenomeno di una volontà di vivere molto più vivace della presente, ci mostrerebbe dolore d'altrettanto più grande: sarebbe adunque un inferno.
Poiché ogni sofferenza, essendo una mortificazione e un richiamo alla rassegnazione, ha la possibilità d'essere una forza purificatrice, si spiega con questo che una grande sventura e profondi dolori già di per sé ispirino un certo rispetto. Ma del tutto degno di venerazione ci appare colui che soffre, sol quand'egli, guardando al corso della sua vita come a una catena di mali, o soffrendo per un grande, insanabile dolore, non s'indugi a mirar precisamente la concatenazione di circostanze, onde fu precipitata in doglia la sua vita, e non s'arresti a quel singolo grande dolore che l'ha colpito: che entro questi limiti la sua conoscenza seguirebbe ancora il suo principio di ragione e rimarrebbe attaccata al singolo fenomeno, egli vorrebbe ancor sempre la vita, purché in condizioni diverse dalle sue; ma invece, dico, degno di venerazione egli appare veracemente sol quando il suo sguardo s'è elevato dal particolare all'universale, quando egli il suo dolore personale considera come esempio del Tutto, e per lui, diventato ormai geniale sotto il rispetto etico, un caso val quanto mille; sì che il complesso della vita, visto come essenziale dolore, lo conduce alla rassegnazione. In questo senso è degna di venerazione nel Torquato Tasso di Goethe la Principessa, quando si effonde a narrar come sempre mesta e senza gioia fosse la vita sua e quella dei suoi, e ciò facendo guarda al dolore universale.
Un carattere molto nobile ce lo immaginiamo sempre con una certa apparenza di muta tristezza; la quale è tutt'altro che un permanente cattivo umore per le contrarietà quotidiane (che questo non sarebbe un tratto nobile, e darebbe a temere malvagità d'animo); bensì è conscienza, nata da cognizione, della vanità di tutti i beni e del dolore d'ogni vita, non della propria soltanto. Nondimeno questa cognizione può esser dapprima destata da mali personalmente sofferti, soprattutto da un unico grande dolore. Così un'unica, inappagabile brama ha condotto Petrarca a quella rassegnata mestizia nel considerar la vita intera, che tanto ci commuove nelle sue opere: imperocché la Dafne ch'egli inseguiva doveva sfuggire dalle sue mani, per lasciare a lui, in luogo di se stessa, l'alloro immortale. Quando la volontà, per un tal grande e irreparabile diniego del destino, è rotta ad un certo grado, non viene quasi più null'altro desiderato, e il carattere si mostra dolce, triste, nobile, rassegnato. Quando infine il dolore non ha più una casa determinata, ma si estende sul complesso della vita, allora esso è in certo modo un rientrare in sé, un ritirarsi, un graduale svanire della volontà. E la visibilità di questa, il corpo, finisce con l'essere a poco a poco, ma nel più profondo, minata dal dolore; in ciò l'uomo sente una certa liberazione dai suoi ceppi, un dolce presentimento della morte annunziantesi insieme col dissolvimento del corpo e della volontà. Perciò tale dolore s'accompagna con una segreta gioia, quella, secondo me, che il più malinconico di tutti i popoli ha chiamato the joy of grief. Tuttavia si trova proprio qui lo scoglio della sensibilità, sia nella vita, sia nella rappresentazione poetica di questa: se cioè si soffre sempre, e sempre ci si lamenta, senza elevarsi alla rassegnazione e fortificarsi, ci si trova ad aver perduto insieme terra e cielo, conservando solo una lagrimosa sensibilità. Il soffrire è via di redenzione, e degno quindi d'alto rispetto solo in quanto prende la forma della semplice, pura conoscenza; e questa allora, fattasi quietivo della volontà, produce vera rassegnazione. Sotto tale riguardo proviamo alla vista di ciascun grande infelice un certo rispetto, affine a quello che virtù e nobiltà ci inspirano; innanzi a lui ci sembra un rimprovero la nostra condizione felice. Non possiamo trattenerci dal considerare ogni dolore, sia nostro che altrui, come un ravvicinamento, per lo meno possibile, alla virtù e santità; e considerare invece i piaceri e le soddisfazioni terrene come un allontanamento da quelle. Ciò arriva al punto, che ogni uomo il quale patisca una grande sofferenza corporea, o una grave sofferenza morale; o anche addirittura ogni uomo, che compia col sudore nel volto e con visibile sfinimento un semplice lavoro fisico richiedente il massimo sforzo; e tutto ciò sopporti pazientemente e senza mormorare; quest'uomo, dico, quando lo guardiamo con profonda attenzione, ci appare come un malato: il quale faccia una cura dolorosa, ma sopportando di buon animo e addirittura con piacere il dolore, che da quella gli viene, perché sa che quanto più soffre, tanto più sarà estirpata la causa del male. Il dolore presente è la misura della sua guarigione.
Da quanto s'è detto finora apparisce che la negazione della volontà di vivere, la quale è quel che si chiama rassegnazione completa o santità, proviene sempre dal quietivo della volontà, ossia dalla cognizione dell'intimo dissidio a questa inerente, e della sua essenziale vanità, che si manifestano nei dolori d'ogni essere vivente. La differenza, che noi indicammo con l'immagine delle due vie, è questa: se quella cognizione è generata dal dolore semplicemente conosciuto, con spontanea adozione di esso, mediante il superamento del principii individuationis; oppure dal dolore direttamente, personalmente provato. Vera salvezza, redenzione dalla vita e dal dolore non può essere immaginata senza completa negazione della volontà. Prima di giungere a quel punto, noi non siamo altro che quella volontà stessa, il cui fenomeno è un'esistenza evanescente, è un sempre nullo, vano aspirare, è l'intero doloroso mondo della rappresentazione, al quale tutti in egual modo irrevocabilmente appartengono. Imperocché noi vedemmo più sopra, che alla volontà di vivere è ognor sicura la vita, e sua unica forma reale è il presente: a cui gli esseri, per quanto nascita e morte imperino sul fenomeno, mai si sottraggono. Questo esprime il mito indiano, dicendo: «essi tornano a nascere». Il gran divario etico dei caratteri ha il significato seguente. Il malvagio è infinitamente lontano dal raggiungere la conoscenza, da cui si genera la negazione della volontà, e quindi è effettivamente in balìa di tutti gli affanni che nella vita appaiono come possibili: essendo anche la casuale sua presente condizione felice null'altro se non un fenomeno mediato dal principio individuationis, ossia un'illusione della Maja, il sogno felice del mendicante. I dolori, ch'egli nella violenza e nella rabbia della sua sete infligge altrui, sono la misura dei dolori da lui personalmente provati, che non pervengono a infrangere la sua volontà e a guidarlo verso la finale negazione. Ogni vero e puro amore, invece, ed anche ogni libero senso di giustizia, provengono già dal superamento del principii individuationis; il qual superamento, quando avvenga con pieno vigore, ha per effetto la completa santità e redenzione. Il processo di questa è lo stato di rassegnazione sopra descritto, l'incrollabile amore, che tale rassegnazione accompagna, e la suprema letizia nella morte.