Abbiamo veduto come dall'oltrepassamento del principii individuationis venisse, nel grado minore, la giustizia, e nel maggiore la bontà vera e propria dell'animo, la quale ci si mostrò come puro, ossia disinteressato amore per gli altri. Dove quest'amore si fa perfetto, rende l'individuo estraneo e il suo destino affatto pari al nostro: più in là non si può andare, non essendovi ragione di preferire l'altrui individuo al nostro. Può nondimeno la massa degli individui estranei, il cui benessere o la cui vita siano in pericolo, prevalere sui riguardi del bene individuale. In tal caso il carattere asceso all'altissima bontà e alla perfetta generosità sacrifica in tutto il suo bene al bene dei più: così periva Codro, così Leonida, così Regolo, così Decio Mure, così Arnoldo di Winkelried, così ciascuno, che volontariamente e consapevolmente per i suoi, per la patria va a morte sicura. Alla medesima altezza sta chiunque di buon animo affronti dolore e morte per l'affermazione di ciò che all'umanità intera giova ed a buon diritto spetta, ossia per verità generali e importanti, e per l'estirpazione di grossi errori. Così periva Socrate, così Giordano Bruno, così trovarono tanti eroi della verità la morte sul rogo, tra le mani dei preti.
Ma riguardo al paradosso più sopra formulato ho da rammentare, che noi già per l'addietro trovammo essere inerente alla vita, nel suo complesso, il dolore, e dalla vita inseparabile. Vedemmo pure, come ogni desiderio nasca da un bisogno, da una mancanza, da una sofferenza; che quindi ogni appagamento è appena un dolore tolto di mezzo, e non già un piacere positivo; che le gioie appariscono menzogneramente al desiderio come un bene positivo, mentre in verità non sono che negative, quali cessazioni d'un male. Quel che adunque bontà, amore e nobiltà posson fare per altri, è sempre nient'altro che lenimento dei loro mali; e quel che per conseguenza può muoverle alle buone azioni e opere dell'amore, è sempre soltanto la conoscenza dell'altrui dolore, fatto comprensibile attraverso il dolore proprio, e messo a pari di questo. Ma da ciò risulta che il puro amore (αγαπη, caritas) è, per sua natura, compassione, sia pur grande o piccolo (è tra questi ogni desiderio inappagato) il dolore ch'esso lenisce. In diretto contrasto con Kant, il quale ogni vera bontà e ogni virtù ammette come tali sol quando siano originate dalla riflessione astratta, e precisamente dal concetto del dovere e dell'imprativo categorico, mentre dichiara debolezza, e non virtù, la compassione provata, non esiteremo a dire: il puro concetto è per la virtù genuina tanto infecondo, quanto per la genuina arte: ogni vero e puro amore è compassione, e ogni amore che non sia compassione è egoismo. Egoismo è l'ερως; compassione è l'αγαπη). I due si trovano spesso frammisti. Perfino la vera amicizia è sempre mescolanza di egoismo e compassione: quello sta nel compiacersi della presenza dell'amico, la cui individualità corrisponde con la nostra, e costituisce dell'amicizia quasi sempre la massima parte; questa invece, la compassione, si manifesta nel partecipar sinceramente al suo bene e al suo male, e nei sacrifizi disinteressati che per lui si fanno. Perfino Spinoza dice: benevolentia nihil aliud est, quam cupiditas ex commiseratione orta. (Eth., II, pr. 27, cor. 3, schol.). A conferma del nostro paradosso si può osservare, che accento e parole della lingua, e carezze del puro amore coincidono in tutto col tono della compassione: e inoltre, di passata, che in italiano compassione e puro amore vengono indicati con la stessa parola: pietà.
Qui è pure il luogo di spiegare un'altra delle più sorprendenti proprietà dell'umana natura, il pianto, il quale, come il riso, appartiene alle manifestazioni ond'è l'uomo distinto dall'animale. Il piangere non è punto, senz'altro, espressione del dolore: imperocché i dolori pei quali si piange sono i meno. Anzi, secondo me, non si piange mai direttamente per un dolore provato, ma bensì sempre per il riprodursi di esso nella riflessione. Cioè, dal dolore provato, pur quand'è corporale, si passa a una pura rappresentazione di esso, e si trova allora sì compassionevole il proprio stato, che, se altri fosse a soffrire, siamo fermamente e sinceramente persuasi che l'aiuteremmo con tutta pietà e amore. Ma intanto siamo noi stessi l'oggetto di quella nostra sincera pietà: col più soccorrevole animo sentiamo d'essere proprio noi i bisognosi d'aiuto; si sente di patir più di quanto potremmo resistere a veder patire un altro; e in tal situazione singolarmente complessa, in cui il dolore direttamente sentito ritorna alla percezione sol con un doppio rigiro, rappresentandocisi come estraneo, come tale compassionato, e quindi immediatamente ripercepito come nostro, la natura si da sollievo mediante quella strana convulsione corporea. Il pianto è adunque pietà di se stesso, ossia pietà che torna indietro al suo punto di partenza. Perciò esso ha per condizione la capacità dell'amore e della compassione, e la fantasia; quindi né uomini duri di cuore né uomini privi di fantasia piangono facilmente, ed il pianto vien'anzi ognora considerato come segno d'un certo grado di bontà del carattere, e disarma l'ira, perché si sente, che chi può ancora piangere, deve per necessità essere anche capace d'amore, ossia di pietà verso altri; questo essendo che ci mette, nella maniera descritta, in quella disposizione la quale al pianto conduce. Affatto conforme a questa spiegazione, è il modo come Petrarca, esprimendo spontaneo e vero il proprio sentimento, descrive l'origine delle sue lagrime:
I' vo pensando: e nel pensar m'assale
Una pietà sì forte di me stesso,
Che mi conduce spesso
Ad alto lagrimar, ch'i' non soleva.
Quanto abbiam detto trova conferma nel fatto che bambini, i quali abbian patito un dolore, si mettono di solito a piangere solo quando li si compassiona; ossia non per il dolore, ma per la rappresentazione di esso. Quando noi non siam mossi al pianto da nostri, bensì da altrui dolori, ciò accade perché vivacemente ci mettiamo con la fantasia al posto di chi soffre, oppure nel suo destino scorgiamo la sorte dell'umanità intera e quindi principalmente di noi stessi; e così per un ampio giro pur sempre veniamo a piangere su di noi, di noi abbiam pietà. Questo sembra anche essere il motivo principale del comune, e quindi naturale, pianto nei casi di morte. Chi piange un morto non piange ciò che ha perduto; che si vergognerebbe di lagrime sì egoiste; mentre invece a volte si vergogna di non piangere. Piange in primo luogo invero la sorte del defunto: nondimeno piange anche quando in seguito a lunghe, gravi e insanabili sofferenze la morte è per quegli una desiderabile liberazione. Principalmente lo stringe adunque compassione per il destino dell'umanità intera, la quale è in potere d'un fato di morte, in cui ogni vita per quanto attiva e spesso ricca d'azioni dovrà spegnersi e ridursi al nulla. E in questo fato dell'umanità egli vede soprattutto il fato proprio: tanto più, quanto più vicino era a lui il morto: più che mai, quanto il morto era suo padre. Fosse pure a quest'ultimo per età e malattia divenuta un tormento la vita, fosse pure il padre nel suo stato d'impotenza ridotto un carico grave per il figlio, questi piange pur sempre vivamente la sua morte: per il motivo che s'è detto.