Tutta questa nostra esposizione, oramai compiuta, di ciò ch'io chiamo negazione della volontà, si potrebbe ritenere inconciliabile con l'esame, fatto più indietro, della necessità, la quale appartiene alla motivazione come ad ogni altra forma del principio di ragione. In virtù di quella necessità i motivi, come tutte le cause, sono semplicemente cause occasionali, per cui mezzo il carattere dispiega la propria essenza e la manifesta con la necessità d'una legge di natura: sì che noi negammo allora senz'altro la libertà come liberum arbitrium indifferentiae. Ben lungi dal cancellar qui tutto codesto, vi richiamo la memoria. Invero la libertà propriamente detta, ossia indipendenza dal principio di ragione, appartiene soltanto alla volontà come cosa in sé, e non al suo fenomeno, la cui forma essenziale è sempre il principio di ragione, l'elemento della necessità. Ma l'unico caso, in cui quella libertà può direttamente apparire anche nel fenomeno, è quello, in cui essa al fenomeno mette fine; e poiché nondimeno allora il semplice fenomeno, in quanto esso è un anello nella catena delle cause, ossia il corpo animato, continua a sussistere nel tempo, il quale non contiene che fenomeni, sta allora la volontà, in codesto fenomeno manifestantesi, in contrasto con lui: poiché ella nega ciò che esso esprime. Esistono, per esempio, in questo caso, reali e sani, i genitali; come manifestazione visibile dell'istinto sessuale; ma tuttavia la volontà non vuol più, anche nel suo più intimo, nessuna soddisfazione di sensi: ed il corpo tutto non è se non espressione visibile della volontà di vivere, e tuttavia non agiscono più i motivi corrispondenti a questa volontà. Anzi, il dissolvimento del corpo, la fine dell'individuo, e con essa l'ostacolo maggiore opposto alla volontà naturale, è benvenuta e invocata. Questa reale contraddizione, proveniente dal diretto attacco, che la libertà del volere in sé, la quale non conosce necessità di sorta, muove contro la necessità inerente ai fenomeni del volere, viene riflessa filosoficamente dalla contraddizione fra quanto affermammo, per un lato, intorno alla necessaria determinazione della volontà mediante i motivi, nella misura imposta dal carattere; e, per l'altro, intorno alla possibile soppressione completa della volontà, soppressione che toglie forza ai motivi. La chiave per accordare queste contraddizioni è la seguente: lo stato, in cui il carattere si trova ad esser sottratto all'impero dei motivi, non viene direttamente dalla volontà, ma da un mutato modo di conoscere. Finché non si possiede altra conoscenza, che quella irretita nel principio individuationis e asservita tutta al principio di ragione, l'impero dei motivi è irresistibile; ma quando il principium individuations è superato, e le idee, o anzi l'essenza delle cose in sé, come volontà unica ovunque, vengon direttamente conosciute, e da tal conoscenza proviene un general quietivo del volere, allora perdono ogni possa i singoli motivi, perché il modo di conoscenza, che ad essi corrisponde, è venuto a offuscarsi, a scomparire davanti a un modo affatto nuovo. È vero adunque, che un carattere non può mai mutarsi parzialmente, e deve, con la conseguenza di una legge di natura, obbedire di volta in volta alla volontà, di cui è in complesso il fenomeno: ma appunto questo complesso, il carattere medesimo, può esser tolto via del tutto dalla sopraddetta trasformazione della conoscenza. Tale soppressione indica Asmus, come dicemmo, come «cattolica, trascendentale metamorfosi», e ne stupisce: essa è quel che nella Chiesa cristiana vien chiamato molto opportunamente la rigenerazione; e la conoscenza che ne deriva è detta azione della grazia. Appunto perché non si tratta di un mutamento, ma di una completa soppressione del carattere, ne viene che, per diversi che fossero prima della soppressione i caratteri, a cui questa è toccata, essi mostrano in seguito una grande somiglianza, sebbene ciascuno parli ancora molto diversamente, secondo i propri concetti e i propri dogmi.
In questo senso non è adunque infondato il vecchio, sempre discusso e sempre affermato filosofema della libertà del volere; e non è neppure privo di senso e di valore anche il dogma ecclesiastico della grazia operante e della rigenerazione. Li vediamo fusi in unità, il filosofema e il dogma, e possiamo adesso comprendere qual significato intendesse l'eccelso Malebranche con le parole: La liberté est un mystère. Aveva ragione. Quel che i mistici cristiani chiamano azione della grazia e rigenerazione, è per noi l'unica diretta manifestazione della libertà del volere. Questa si ha quando la volontà, pervenuta alla cognizione della propria essenza in sé, riceve da questa un quietivo e appunto perciò è sottratta all'impero dei motivi, il quale sta nel dominio d'un altro modo di conoscenza, i cui oggetti sono esclusivamente fenomeni. L'esser possibile la libertà, manifestantesi in questo modo, è il più alto privilegio dell'uomo, privilegio che all'animale non sarà mai conceduto, avendo per condizione la capacità riflessiva della ragione, la quale fa vedere il complesso della vita, indipendentemente dall'impressione dell'attimo. L'animale non ha libertà possibile, com'è del resto addirittura privo della possibilità d'una scelta vera e propria, ossia riflessa, che ponga termine a un precedente conflitto di motivi: perché a ciò occorrerebbe che i motivi fossero rappresentazioni astratte. Quindi con la stessa necessità, con cui la pietra cade a terra, pianta il famelico lupo i denti nella carne della selvatica preda, senza possibilità di conoscere ch'egli è tanto il divorato quanto il divoratore. Necessità è il regno della natura; libertà è il regno della grazia.
Ora, poiché, come vedemmo, quella autosoppressione della volontà procede dalla conoscenza, ed ogni conoscenza, in quanto tale, è indipendente dall'arbitrio; così anche quella negazione del volere, quell'entrar nella libertà non si può ottenere con deliberato proposito, bensì viene dal più intimo rapporto del conoscere col volere nell'uomo. Viene perciò d'un tratto, quasi arrivasse volando. E questa è la causa per cui fu chiamata dalla Chiesa azione della grazia: ma come la Chiesa fa inoltre dipender l'azione della grazia dall'accoglimento della grazia, così anche l'azione del quietivo è infine un atto di libertà del volere. E poiché in conseguenza di codesta azione della grazia l'intero essere dell'uomo viene dalle fondamenta trasformato e convertito, sì ch'egli più nulla vuole di quanto finora con tanta forza voleva, e quindi è in lui veramente quasi un uomo nuovo sorto al posto dell'antico, la Chiesa chiamò rigenerazione quest'effetto della grazia operante. Quel ch'essa chiama l'uomo naturale, a cui nega ogni capacità di bene, è appunto la volontà di vivere; la quale va negata, se si vuole aver redenzione da una esistenza com'è la nostra. Dietro la nostra esistenza si cela invero qualche altra cosa, che si fa a noi accessibile sol quando abbiamo rimosso il mondo da noi stessi.
Guardando non agli individui, in conformità del principio di ragione, bensì all'idea dell'uomo nella sua unità, la religione cristiana simboleggia la natura, l'affermazione della volontà di vivere, in Adamo: il peccato di lui, disceso ereditariamente fino a noi, ossia l'unità nostra con lui nell'idea, unità che si manifesta nel tempo col vincolo della generazione, ci fa tutti partecipi del dolore e della morte eterna. E simboleggia invece la grazia, la negazione della volontà, la redenzione, nel Dio incarnato: il quale, libero da ogni peccato, ossia da ogni volontà di vivere, non può come noi provenire dalla più risoluta affermazione della volontà, né avere come noi un corpo, che in tutto e per tutto è esclusivamente volontà concreta, fenomeno della volontà; ma invece, generato dalla pura Vergine, ha solo un corpo apparente. Così almeno pretendono i doceti, ch'erano certi padri della chiesa molto conseguenti nel loro pensare. L'insegnò soprattutto Apelle, contro il quale, e contro i successori suoi, si levò Tertulliano. Ma lo stesso Agostino commenta quel passo (Rom., 8, 3): «Deus filium suum misit in similitudinem carnis peccati»; quindi «non enim caro peccati erat, quae non de carnali delectatione nata erat: sed tamen inerat ei similitudo carnis peccati, quia mortalis caro erat» (Liber 83 quaestion., qu. 66). Lo stesso Agostino insegna nell'opera, che ha per titolo Opus imperfectum, I, 47, che nel peccato originale si trova a un tempo peccato e punizione. Si trova già nei neonati, ma apparisce solo col loro crescere. Quindi l'origine di questo peccato sta, secondo lui, nella volontà del peccatore. E il peccatore, dice, fu Adamo, ma in lui siamo tutti esistiti: Adamo divenne infelice, e tutti divenimmo infelici con lui. Sicuramente la dottrina del peccato originale (affermazione della volontà), con quella della redenzione (negazione della volontà), è la gran verità che forma il nocciolo del cristianesimo; mentre il rimanente è il più delle volte una veste e un velo, o un accessorio. Quindi Gesù Cristo va sempre preso in generale come simbolo, o personificazione, della negazione della volontà di vivere; e non già individualmente, sia nella sua storia mitica, com'è negli Evangeli, sia nella storia presumibilmente vera, che serve a quella di base. Né l'una né l'altra appagherebbe facilmente appieno. Questo non è che il tramite per salire a quella concezione: tramite ad uso del popolo, che domanda sempre qualcosa di materiale. Che poi il Cristianesimo nell'età moderna abbia dimenticato il suo vero senso, degenerando in uno scipito ottimismo, è cosa che qui non ci riguarda.
C'è poi un'altra dottrina dell'originario ed evangelico Cristianesimo, che Agostino, col consenso dei capi della Chiesa, sostenne contro le stoltezze dei pelagiani; purificarla da errori e metterla in vigore fu il principale scopo dell'attività di Lutero, com'egli espressamente dichiara nel suo libro De servo arbitrio. È la dottrina, che la volontà non sia libera, ma dall'origine soggetta all'inclinazione del male; che perciò son le sue opere sempre peccaminose, e non posson mai soddisfare la giustizia; che finalmente non già le opere, ma la fede sola salva; e codesta fede non nasce da proposito e da libera volontà; bensì per l'azione della grazia, senza il nostro concorso, viene a noi quasi giungesse dal di fuori. Non soltanto i dogmi più sopra riferiti, ma anche quest'ultimo, genuinamente evangelico, appartengono a quelli, che oggi una rozza e insulsa concezione rigetta come assurdi, o nasconde. Soggetta a quel borghesismo intellettuale pelagiano, che è appunto il razionalismo odierno, codesta concezione, malgrado Agostino e Lutero, mette fra le anticaglie proprio i dogmi più intimamente ed essenzialmente cristiani, e invece tien fermo soltanto e pone in primo luogo il dogma originato e conservato dal giudaismo, collegato col cristianesimo esclusivamente per la via della storia.
Noi viceversa riconosciamo nella dottrina citata la verità corrispondente appieno al risultato delle nostre osservazioni. Vediamo cioè, che la genuina virtù e santità dell'animo ha la sua prima origine non già nel meditato arbitrio (nelle opere), bensì nella conoscenza (nella fede): proprio secondo noi pure concludemmo, muovendo dal nostro pensiero centrale. Se conducessero alla beatitudine le opere, le quali emanano da motivi e da meditato proposito, sarebbe ognora la virtù null'altro che un sottile, metodico, lungimirante egoismo: si giri pur la cosa come si vuole. La fede invece, a cui la Chiesa cristiana promette la beatitudine, è questa: che, come per il peccato originale del primo uomo siamo del peccato tutti partecipi, e destinati alla morte e alla perdizione, tutti saremo egualmente salvati sol per la grazia e perché il divino propiziatore ha assunto su di sé il nostro immane peccato. Saremo salvati senz'alcun nostro merito personale; perché ciò che può venir dall'agire intenzionale (determinato da motivi) dell'individuo, ossia le opere, non potrebbe esserci di giustificazione mai in nessun modo e per propria natura, appunto essendo agire intenzionale, determinato da motivi, opus operatum. In questa fede è primo principio, che il nostro sia originalmente ed essenzialmente uno stato di perdizione, dal quale dobbiamo essere redenti. Vien poi l'altro principio, che noi apparteniamo per essenza al male, e siamo ad esso così strettamente legati, che le nostre opere, fatte secondo legge e secondo prescrizione, ossia secondo motivi, né possono soddisfare la giustizia, né salvarci. La redenzione s'acquista soltanto con la fede, ossia mediante un mutato modo di conoscenza; e questa fede non può venire che dalla grazia, cioè dal di fuori: ciò vuol dire che la salvazione è alcunché d'affatto estraneo alla nostra persona, e indica come necessario per quella salvazione appunto il negare, il sopprimere la persona stessa. Le opere, adempimento della legge in quanto tale, non posson mai giustificare, perché sono sempre un agire per effetto di motivi. Lutero vuole (nel libro De libertate christiana) che, una volta penetrata la fede, le buone opere ne emanino spontanee, come sintomi, come frutti di lei: non già pretendendo d'avere in sé diritto a merito, giustificazione, o ricompensa, ma producentisi invece affatto spontaneamente e disinteressatamente. Così anche noi facemmo sorgere, dalla penetrazione sempre più limpida che va oltre il principium individuationis, dapprima la semplice libera giustizia, poi l'amore, fino alla completa soppressione dell'egoismo, e finalmente la rassegnazione, o negazione della volontà.
Questi dogmi della religione cristiana, che sono in sé estranei alla filosofia, li ho qui introdotti per mostrare, che l'etica risultante da tutto il nostro sistema, e accordantesi e connettentesi in tutto con le varie parti di esso, non è punto nuova e inaudita nella sostanza, se pur tale può parere nella sua formulazione. Essa coincide invece appieno coi veri dogmi cristiani, ed ora anzi già in essi, sostanzialmente, contenuta e presente; così come in tutta precisione coincide con le dottrine e le prescrizioni morali, sebbene presentate anch'esse in tutt'altra forma, dei libri sacri indiani. Inoltre il richiamo ai dogmi della Chiesa cristiana servì a illustrare e dirimere il contrasto apparente tra la necessità di tutte le manifestazioni del carattere in seguito a dati motivi (regno della natura) da una parte, e dall'altra la libertà, che possiede la volontà in sé, di negare se medesima e sopprimere il carattere, con tutta la necessità dei motivi che su di esso si fonda (regno della grazia).