I MOTI TOSCANI DEL 1847 E 1848 LORO CAUSE ED EFFETTI

CONFERENZA

DI

NICCOLÒ NOBILI.

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L'autore di questa conferenza non potè rivederne le stampe, perchè la morte lo incolse prima che il suo scritto vedesse la luce.

Del Senatore Niccolò Nobili, molti ricorderanno, oltre alle benemerenze civili e patriottiche, la gentilezza dell'animo e l'amore agli studi: di che la Società nostra ebbe più d'una prova, mentr'egli fu Presidente della Deputazione Provinciale, che concesse liberale ospitalità alle Letture nella Sala di Luca Giordano.

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Correva l'autunno del 1845 quando in tutti i ritrovi delle città di Toscana e specie di Firenze, che ospitava gran numero di emigrati pontifici, l'argomento delle discussioni cadeva generalmente sopra le esorbitanti condanne pronunziate da una Commissione straordinaria in Ravenna. A quei parlari più liberi seguì tutto ad un tratto un dir sottovoce, con frasi tronche e interrotte, come se per l'aria ci fosse qualche cosa di misterioso e di grosso. Si parlava di armi giunte in Livorno, portate nascostamente a traverso la Toscana e introdotte nella Romagna papale. Si diceva che accordi fossero intervenuti tra le città delle Legazioni e delle Marche, che la fiera di Sinigaglia ne avea offerto il mezzo; che si voleva far pro del malumore suscitato dalle condanne ravennati e che [140] tutto era fissato per una contemporanea rivolta. Ora se ne dava il giorno come sicuro, ora si diceva che nulla stava più bene, perchè da Rimini era venuto un contrordine e che, di ciò offesa, una parte dei cospiratori era rientrata in Toscana.

Mentre queste notizie, con le solite frangie, con le solite assicurazioni sopra l'autenticità delle fonti, correvano di bocca in bocca, si sa che la sommossa è scoppiata in Rimini; che un tal Renzi, con pochi de' suoi, s'è impadronito della caserma, ha arrestato i pochi ufficiali colti qua e là alla sprovvista ed ha proclamato il governo provvisorio sotto la sua presidenza.

Due giorni dopo, la sommossa era svanita. Le Marche, le Legazioni eran rimaste tranquille: il Renzi e una trentina de' suoi rifugiati in Toscana, avean consegnate le armi, colla promessa che tutti sarebbero imbarcati a Livorno e avviati verso la Francia.

Comunque abortito quel movimento, non il primo nè il solo, preconizzava un'agitazione popolare. L'atmosfera politica era grave di nubi, più o meno cariche di elettricità in ogni parte d'Italia, e neanche in Toscana il cielo potea dirsi tranquillo e sereno, benchè il clima, generalmente temperato e mite, non facesse temere lo scroscio di meteore devastatrici. [141] E per metter subito da parte le forme rettoriche, mi spiego sul significato di questo mite clima toscano, delineando in breve il carattere del popolo, la condizione in cui questo si trovava al cominciare dei moti politici del 1846 e come vi fosse arrivato.

Fermatevi per un momento con me dinanzi ad una di quelle tante urne cinerarie etrusche, di cui è ricco il nostro Museo. Guardate quella figura d'uomo, distesa come sopra un lungo guanciale, col torso a metà sollevato perchè l'avambraccio fa sostegno e puntello alla testa: quella figura ha gli occhi aperti e fissi, non volti nè alla terra nè al cielo: è quello un atteggiamento mistico non di molle riposo; è figura di uomo che pensa e par che vi dica: son pronto a levarmi su non appena sia d'uopo. Or bene: molti secoli son decorsi, molte generazioni son passate, ma quella figura può rappresentare ancora il tipo della gente toscana. Questo popolo ha mente acuta e sottile, facile a discernere il lato pratico delle cose; mite d'animo, alla violenza riottoso, disposto a soffrire finchè sia possibile, ma pronto a levarsi su se tutto si dolga. E per questa sua tendenza a pensare piuttosto che a fare, si spiega come il popolo toscano, non dimentico mai di quella libertà di cui furono moderatori [142] l'Alighieri, il Machiavelli, il Giannotti, e difensori il Capponi, il Ferrucci, il Buonarroti, siasi appagato del presente con le memorie del passato, abbia sopportato il giogo mediceo, soddisfatto dall'essersi saputo reggere anche da sè medesimo e di non aver accettato il duca Alessandro come padrone, ma come capo della repubblica; si spiega come andasse lieto che il Rinuccini pel trattato di Utrecht avesse dichiarato, a nome di Cosimo III che il Granduca non può disporre dello Stato, ma che spetta alla repubblica il deliberare; che Don Neri Corsini avesse ripetuto in nome del medesimo principe, al congresso di Cambray, che il Granduca non poteva permettere che si facesse offesa alla città di Firenze e al suo dominio, e infine che lo stesso Giovan Gastone avesse trovata lena abbastanza per protestare contro il trattato di Vienna del 1731, perchè ledeva i diritti dei popoli toscani e distruggeva la libertà di Firenze.

In uno Stato libero e indipendente, il popolo, comunque non libero, sente quasi di riflesso dallo Stato il sentimento dell'indipendenza e della libertà; e perciò, ancorchè il trattato del 1731 violasse davvero le ragioni del popolo, pure dichiarando la Toscana Stato sovrano, la riconosceva libera e indipendente, e il popolo se ne appagava [143] tanto più facilmente, dacchè i Lorenesi mostravano della Sovranità saper far uso larghissimo.

Leopoldo I, infatti, aveva convertito in legge i concetti dei più eminenti pensatori di quel secolo, proclamata la libertà del commercio, gettato nella legislazione il seme di quelle franchigie, che doveva poi germogliare e portare i suoi frutti. Mutarono i tempi, e forse neanche quel Granduca, che si disse filosofo, potè dal limitato principio misurare l'ampiezza, cui l'avrebbe sospinto la forza irresistibile del progresso. Ma intanto il sentimento dell'indipendenza e della libertà si era affermato nell'animo delle popolazioni toscane. Con la libertà di commercio la Toscana era entrata nel gran movimento europeo; con la libertà di commercio aveva ricevuta la solenne sanzione della libertà del lavoro, che è ricognizione di proprietà e garanzia di uguaglianza, e si trovava così preparata ad accogliere senza urti, senza terrori, senza spargimento di sangue, la fiumana di quei grandi principii che, superando con l'89 i contini di Francia, avrebbero dilagata l'Europa.

L'impero napoleonico non dette alla Toscana la libertà, ma ne spezzò i ristretti confini chiamando a Parigi in Senato il principe Tommaso Corsini, il Fossombroni, il Venturi, il Giera; nel Consiglio [144] di Stato Don Neri Corsini, il Giunti, il Serristori, il Capei, e al Corpo Legislativo i rappresentanti dei tre Dipartimenti dell'Arno, dell'Ombrone e del Mediterraneo. E comunque la Toscana non facesse parte di quelle regioni, con le quali costituiva il Regno d'Italia, pure l'idea che dall'Alighieri in poi aveva agitata la mente dei nostri pensatori, era divenuta realtà: in quel nome di Regno d'Italia era racchiusa una grande promessa, il germe dell'unità nazionale era gettato nella mente e nel cuore del popolo.

Napoleone aveva offeso, e non impunemente, il principio di nazionalità, che alla lor volta invocavano le potenze alleate per dare alle loro armi quella forza che fino allora non avevano avuta; nè temevano esse di acuirlo col concetto dell'unità, tanto avevano in animo, a tempo e luogo, di soffocarlo. Era infatti il principio dell'unità nazionale che il Nugent invocava nel proclama di Ravenna, quando sotto l'intestatura: Regno d'Italia indipendente, scriveva: «Italiani, non state più in forse; siate italiani, e le nostre forze congiunte faran sì che l'Italia divenga ciò che ella fu già nei tempi migliori.»

Era il principio dell'unità nazionale, che più tardi tornava a invocare l'arciduca Giovanni quando [145] diceva agli italiani: «Non d'altro per voi v'è bisogno che di volere: sarete novellamente italiani, e l'Italia tornando a nuova vita, tornerà ad avere il suo grado tra le nazioni.»

Dopo breve volger di tempo, le Potenze alleate, manipolando i trattati del 15, cadevano, per la ebrezza della vittoria, nel medesimo errore del loro grande avversario, sconfessando quel principio che poco prima aveano invocato. Divisa in brani l'Italia, anche la Toscana fu dichiarata proprietà di Ferdinando d'Austria.

La natura ha leggi somiglianti nel campo fisico e nel campo morale; e come il sonno dà nuova vigoria alle forze esaurite degli animali, lo stato di quiete e di raccoglimento dà alle idee, affinchè si facciano strada nella coscienza dei popoli, quella potenzialità che non hanno quando dapprima si palesano alla mente del pensatore, o si lasciano intuire dalla ispirata fantasia del poeta. E il sentimento, in cui si rispecchiavano le idee dell'indipendenza, della libertà, dell'unità nazionale, restò apparentemente sopito, e non diè per lungo tempo altro sintomo di vita che quello di qualche raro movimento politico.

Il sentimento dell'unità nazionale restava peraltro sempre vivo nella coscienza del popolo toscano, [146] e, come costantemente accade, si rivelava nella ispirazione dei suoi poeti. Il Giusti, il poeta popolare, faceva dire allo Stivale:

Fatemi con prudenza e con amore

Tutto d'un pezzo e tutto d'un colore.

E poco innanzi Giovanni Battista Niccolini, il poeta civile, aveva fatto dire al suo Procida:

Fui di Manfredi amico, e grande ed una

Far la sua patria ei volle;

come più tardi, quando nella Cappella del Pretorio fu scoperto il ritratto di Dante, lo stesso Niccolini con felice ispirazione cantava:

Voi che la tenebrosa

Coltre del tempo, che all'Italia aggrava

La sua fronte immortal, levare osate,

Or colla mano ardita

Le molteplici bende lacerate

Onde gelida a lei corre la vita,

Perchè di tanti non sia più mancipio

Ritorni alla beltà del suo principio;

Generoso disegno

Da sì lungo servaggio alzarla a regno!

Era questo popolo toscano che sentiva nel suo idioma ardere il fuoco sacro dell'unità nazionale!

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In quel periodo non breve dal 1815 al 1845, in Toscana e specie in Firenze si viveva come in una famiglia. Dell'aristocrazia feudale, spossata già dalla repubblica democratica e dalla mollezza medicea, morta e seppellita con le riforme leopoldine, non si aveva neppur l'idea. Le famiglie più illustri eran venute su dal commercio, e salite a potenza per dovizie e per fama, perchè taluno dei suoi, in casa o fuori, aveva fatto fortuna nelle arti della seta, o della lana, o del cambio, e perchè non era mancato mai chi o col consiglio, o con la dottrina, o con l'opera, ne tenesse il nome alto e venerato. E il popolo, che sapeva esser quelle famiglie uscite dal proprio seno, le amava e le rispettava, quasi ne traesse ammaestramento che il lavoro le aveva nobilitate, e che il lavoro apriva a tutti la via onde conseguire dovizie ed onori.

Il Governo lorenese, benchè assoluto, era stato quasi sempre paterno, nè quando avesse voluto infierire, avrebbe trovato in Toscana un Riccini o un Del Carretto. I Ministri del Granduca, mancati alla vita il Fossombroni e Don Neri Corsini, non avevano una gran levatura di mente, e, se ligii per paura all'Austria, eran di buona pasta e d'animo mite. L'epigramma era l'arma del popolo se offeso dalla prepotenza di qualche Commissario di [148] polizia. Le sètte in Toscana non attecchivano, se si eccettua, per le sue condizioni speciali, Livorno; i Gesuiti cacciati da Leopoldo I, non eran più riusciti a mettervi piede, e fu per il popolo toscano un vero olocausto alla libertà e all'unità conquistata, quando il nuovo regno schiuse loro i vietati confini dell'ex Granducato. Le scuole eran poche, ma buone ed intese a istruire e a educare: la gioventù era generalmente ammaestrata nelle Scuole Pie, e bisogna pur dire che quei Padri, con l'insegnamento classico in specie, si studiavano di formare il carattere dei loro alunni; e instillando ad essi nel cuore l'amor della patria, li educavano ad essere e a sentirsi italiani.

A diffondere le idee liberali non si trascurava mezzo ne occasione. E per offrire qualche esempio, il marchese Cosimo Ridolfi, anima candida, di grande ingegno e di largo sapere, lasciava il proprio palazzo in Via Maggio e andava ad abitare nella Pia Casa di Lavoro, della quale aveva assunta la direzione, per dare con l'esempio delle sue virtù, con la dolcezza della sua parola il più utile degli ammaestramenti a quei giovani là ricoverati. Il barone Bettino Ricasoli, uomo di elevati sentimenti, di saldi propositi, nei doveri verso la famiglia e verso la patria rigidissimo, si ritirava [149] nel suo Brolio per dare ai suoi numerosi coloni un catechismo di morale insieme colle pratiche dell'agricoltura. L'Accademia dei Georgofili, discutendo delle libertà economiche, teneva vivo il sentimento delle libertà civili e politiche. Il Vieusseux, col suo gabinetto, dove convenivano pensatori, letterati, studiosi da ogni parte d'Italia, e con la sua Antologia, faceva larga propaganda d'idee liberali; e cessata l'Antologia per ordine del Governo, ne tenevano il luogo le edizioni di Felice Le Monnier, alle quali le ostilità e i divieti degli altri governi italiani, davano, mercè la clandestina diffusione, una più potente efficacia.

Da tutto quanto vi ho esposto, facile è il dedurre come nessun popolo in Italia più del toscano, si trovasse all'alba del 1846 temperato agli alti ideali della libertà, dell'unità nazionale, e per essi pronto ad agitarsi, e a combattere!

Quel Renzi, che aveva così infelicemente condotta la sommossa di Rimini, era di nascosto tornato in Firenze, e saputolo monsignor Sacconi, incaricato apostolico, ne aveva chiesta l'estradizione fondandosi sopra un vecchio trattato conchiuso tra il Granduca e il Pontefice. Grandi simpatie si destarono in tutta la Toscana a favore del Renzi, e Vincenzo Salvagnoli dettò una commoventissima [150] supplica, che la stessa moglie del Renzi presentò, piangendo, al Granduca. Tutto fu inutile; nel Ministero toscano non era più chi potesse resistere a Roma: e con grande e generale rammarico, nella notte del 24 gennaio il Renzi, condotto al confine, fu consegnato ai soldati del Papa. Se poi il Renzi non si mostrò degno di tanta simpatia, ciò non tolse che il popolo giudicasse severamente e principe e governo, e che una eletta schiera di giovani, che si disse ispirata dal Montanelli, per combattere in nome della libertà, cominciasse allora e per quel fatto a valersi della stampa clandestina, arma potente ma pericolosa, e che avrebbe poi contribuito a precipitare il movimento a rovina.

Vincenzo Gioberti col suo Primato aveva apertamente posta la questione del risorgimento italiano, e comunque non si prestasse, specie in Toscana, gran fede ad una federazione di Stati sotto la presidenza del Papa, la discussione era sorta, ed era buono che i Gesuiti l'avessero inasprita, spingendo il Gioberti a modificare e temperare coi Prolegomeni il suo primo concetto. Mentre il dibattito si faceva sempre più vivo, e lo stesso guelfismo lo rendeva più acutamente avverso all'Austria, moriva senza rimpianto Gregorio XVI, ed [151] era in breve ara proclamato a suo successore Giovanni Mastai Ferretti vescovo d'Imola, uomo di molto cuore, ma non di gran mente, e che cedendo agli impulsi dell'animo buono, iniziò il suo regno con la solenne amnistia di tutti i condannati politici, dei quali rigurgitavano le galere e le carceri pontificie.

Se il principe di Metternich, profondo conoscitore degli uomini e delle cose, fu costretto a confessare che un papa liberale non se lo era immaginato mai, si capisce come quell'atto magnanimo del nuovo Pontefice rendesse stupefatta l'Italia e l'Europa. Le idee giobertiane non eran più delle vane utopie. Ai liberali italiani l'amnistia, invece che la espressione di un mero sentimento di carità cristiana, apparve come la rivelazione di un gran concetto politico; e il fatto del papa liberale, mentre afforzò il sentimento dell'indipendenza e della libertà, di tanto avvivò il concetto della federazione di quanto fece impallidire e annebbiare quello dell'unità nazionale.

Che se al Congresso degli scienziati italiani apertosi in Genova nel novembre, al quale per concessione del Papa intervennero anche i romani, si parlò di scienza, ma non meno di politica, e di confederazione tra i principi con a capo o Carlo [152] Alberto o Pio IX; se a dire del. Lambruschini quel Congresso per altezza e saviezza di sentimenti superò tutti gli altri; se nel 5 e nel 6 di dicembre si festeggiò, pure in Genova, il centenario del Balilla, e per suggerimento del Mamiani, a mostrare la conformità degli intenti, in quelle due sere si accesero grandi fuochi su tutte, fino sulle più lontane vette dell'Appennino, era sempre il principio dell'indipendenza e della libertà non dell'unità che informava e i parlari degli scienziati e le dimostrazioni del popolo.

Ma intanto lo spirito reazionario aveva levata la testa; chiamava Pio IX un intruso, un vecchio massone, un incredulo: negli Stati pontifici erano a fronte gregoriani e piani, in Toscana retrogradi e riformisti, e la scissura, entrata fra i liberali, li aveva divisi in moderati e in esaltati. Alle lettere politiche, con le quali il Balbo accusava le società segrete, rispondeva irosamente il Montanelli con un opuscolo firmato Un Romagnolo. E mentre le forze dei liberali si sciupavano così nell'attrito delle accuse, delle querimonie, delle violente difese, i partiti estremi toglievano occasione dalle sofferenze delle classi povere per la carezza dei cereali prodotta dalle scarse raccolte, onde soffiare nel fuoco e far scoppiare disordini in Modigliana, [153] in Pistoia, in Monsummano, e più gravi ancora in Livorno. Il 1847 cominciava sotto cattivi auspicii, e dava a credere che sarebbe stato torbido e burrascoso.

La restituzione del Renzi e il sospetto che la Toscana dovesse servire ai raggiri dell'Austria aveva scemato l'affetto per il Principe, e reso impopolare il Governo. Si sapeva che il Neuman, ministro austriaco presso il Granduca, gli aveva offerto il concorso delle truppe imperiali per sedare i tumulti che avvenivano ora in questa, ora in quella parte della Toscana. Erano per di più arrivati in Firenze Francesco V di Modena, che da poco aveva ereditato dal padre il regno e l'odio dei suoi sudditi, e insieme con lui l'arciduca Ferdinando d'Austria, quello stesso che l'anno innanzi comandava la Gallizia, quando l'Austria, armata la mano dei contadini, aveva coadiuvata la più orribile carneficina di migliaia di polacchi, ed era giunta perfino a impedire le collette per le vedove delle vittime e per gli orfani, dei quali per più che 200, ancora infanti, non si conosceva neppure il nome, perchè i parenti, gli amici, i domestici loro erano stati uccisi in quell'immane eccidio.

Naturalmente i fiorentini guardavano di mal'occhio i due ospiti, e nel modo medesimo, poco [154] dopo, i pisani guardavano l'arciduca Ferdinando, il quale si era recato a Pisa, dove aveva palazzi e terre ereditate dalla madre Beatrice Cibo d'Este, e di là corrispondeva col Duca Carlo Lodovico di Lucca, uomo che in vita sua ne aveva fatte di tutti i colori; libertino, protestante, cattolico, liberale e in quel momento assolutista arrabbiato. E là si trattenne l'Arciduca finchè, annoiati i pisani per la sua presenza, con una pacifica ma espressiva dimostrazione dinanzi al suo palazzo, lo costrinsero a tornarsene in Austria donde era venuto.

L'incertezza che dominava nel governo, si manifestava ogni giorno o col lasciare andare, o col prevenire soverchio, ora col subitaneo rifiutare, ora col troppo tardo concedere; e intanto l'agitazione cresceva. I così detti Bollettini della stampa clandestina fioccavano frequenti, ma non più da una sola e medesima fonte. Alla stampa dei giovani liberali, la quale se talvolta aggressiva, era ispirata pur sempre agli alti ideali della patria, si era aggiunta quella dei retrogradi e del partito d'azione; questo che voleva tutto e subito, quelli che cercavano di mandare tutto a rifascio il più presto possibile. La polizia si arrovellava invano per scoprire gli autori della così detta clandestina, e per sbizzarrirsi ficcava in prigione [155] gran numero di operai tipografi, bandiva dalla Toscana il marchese Massimo d'Azeglio, ed esigeva dallo stesso Ministro Cempini che il figlio di lui, Leopoldo, giovane d'alto ingegno, d'animo aperto, di affetti e di entusiasmi facile, liberale fervido, ai compagni agli amici carissimo, dovesse a suo malgrado fare un viaggio in Germania.

Ciò non ostante al Granduca e ai suoi Ministri non mancarono consigli valevoli a cancellare le insorte diffidenze e riportare la calma nelle popolazioni. Il marchese Cosimo Ridolfi, il quale come Aio del Principe ereditario, aveva consuetudine col Palazzo Pitti, non lasciava occasione per parlare al Granduca di ciò che il Paese desiderava, tanto che gli amici gli avevano dato il nome di Predicatore, comunque e' dicesse che predicava al deserto, e paragonasse l'animo del Principe a una lavagna, sulla quale si poteva scrivere ciò che si voleva, ma sulla quale chiunque venisse dopo, cancellava e riscriveva con la medesima facilità. Bellissima nella sostanza e nella forma è la petizione che il barone Ricasoli presentava al Cempini nel 3 marzo, esponendogli quale fosse il vero stato della Toscana, quali le necessità, quali i pericoli, e per quali mezzi fosse possibile scongiurare questi e a quelle provvedere. Saggi consigli, che il Ricasoli aveva [156] maturati col Lambruschini e col Salvagnoli, e che avrebbero infrenato il movimento col farsene il Governo stesso guida e moderatore, e ridestato verso il Sovrano i sopiti affetti del popolo!

Il Cempini lodò la petizione e promise di presentarla al Granduca; ma poi dicendo che si trattava di cose assai gravi e che occorreva tempo a ben ponderarle, pose tutto a dormire: se non che contro quel sonno cospiravano gli eventi. Pio IX in quel mentre emana un editto sulla stampa che tempera quello del 1825, e sorgono immediatamente due giornali, il Contemporaneo a Roma, il Felsineo a Bologna. E il Ricasoli, che nella sua petizione aveva esposta la necessità di render libera ogni onesta manifestazione di pensiero, torna dal Cempini, gli presenta una seconda petizione, dimostra il grave pericolo che la stampa clandestina ecciti ancora le passioni popolari, e l'urgenza che una legge sulla stampa sia emanata dal Principe con tutta l'apparenza della più assoluta spontaneità, e unisce alla petizione anche un disegno di Legge redatto dal Salvagnoli.

Per mala ventura i liberali moderati trovarono in ciò un punto di disaccordo. Tutti deploravano le intemperanze della stampa clandestina; ma, per frenarla, gli uni volevano ottener dal Governo il [157] permesso di istituire un giornale, che sostenendo i principii della libertà commerciale rassicurasse il paese dai timori di perturbazioni popolari e di attacchi alla proprietà, e dasse allo Stato la forza morale occorrente con lo spingere i cittadini a valersi delle neglette istituzioni municipali; gli altri sostenevano che prima di fondare un giornale si doveva ottenere che una legge sulla stampa fissasse nettamente i diritti e i doveri dei cittadini. Antesignano dei primi il Capponi, dei secondi il Ricasoli: la discussione si faceva sul Felsineo di Bologna, scrivendo per questi il Salvagnoli ed il Buschi, per quelli il Digny. Ragione del discutere era il dubbio se la stampa clandestina potesse combattersi, quando il mezzo legale per esprimere liberamente il proprio pensiero non si fosse prima ottenuto. Validi gli argomenti degli uni e degli altri, ma deplorevole che le forze si scindessero quando più occorreva che si spiegassero unite.

Il Governo studia a lungo, e di malavoglia il 5 di maggio emana una legge non peggiore di quella romana, ma ispirata dalla paura, dalla diffidenza, e dalla caparbietà poliziesca. Niuno se ne accontenta, e per quanto si voglia festeggiare la legge sulla stampa libera, la dimostrazione a Firenze riesce meschina, ostile a Siena, tumultuosa a Livorno.

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Si comprese, è vero, che certe restrizioni filate d'ottobre non sarebbero giunte a novembre; ed uno dei primi atti dell'ufizio di revisione in Firenze fu quello di permettere al Salvagnoli la ristampa del suo Discorso sullo stato politico della Toscana, in cui esponeva francamente ciò che principe, governo e privati avrebber dovuto fare per conseguire il bene e preparare il meglio di questo paese. Di giornali, primo sorse l'Alba diretta dal La Farina, scrittori il Vannucci, il Mayer, il Mazzoni, la quale non ostante gli entusiasmi per Pio IX, si chiarì presto avversa al poter temporale. Uscì quindi la Patria, diretta dal Salvagnoli, in cui scrivevano il Lambruschini e il Ricasoli; e questa per il suo stesso programma - alleanza tra libertà e principato - quando, invece di attutirsi, crebbero le diffidenze contro il governo toscano, si orientò verso il Piemonte. In Pisa era sorta l'Italia, la quale, diretta dal Biscardi con la collaborazione del Centofanti, del Giorgini e del Montanelli, s'ispirava al misticismo dell'idee giobertiane. Il Corriere Mercantile in Livorno si era trasformato in giornale politico.

Ma quasi che il movimento non fosse abbastanza rapido, un altro fatto venne ad imprimergli un impulso nuovo. Riccardo Cobden, il propugnatore [159] nel Parlamento inglese delle istituzioni toscane sulla libertà del commercio, era nel maggio giunto in Firenze. La pleiade dei liberali, che aveva come suo centro l'Accademia dei Georgofili, brillava di nuovo splendore. Nelle allocuzioni, nei banchetti, nei parlari amichevoli, al tema delle libertà commerciali si associava quello delle libertà civili e politiche, e il Lambruschini chiudeva i festeggiamenti inneggiando alla libertà universale, che sarebbe stata la santa alleanza dei popoli e la preparatrice dei tempi, ai quali è promesso un sol gregge e un solo pastore.

Il popolo, che dalle parole stesse del Cobden autorevolmente apprendeva come la piccola Toscana fosse stata presa ad esempio di libertà dalla potente Inghilterra, se ne sentiva altero, e la brama delle riforme liberali rinfocolatasi, gli faceva provare più odiose le incertezze e le resistenze governative; ciò che addimostrava così rumorosamente, che alla fin di maggio il Governo si trovò costretto ad annunziare essere stato dal Granduca deciso che fossero rivedute le leggi municipali, compilato il codice civile e quello penale, e a Commissioni speciali, oltre questi studi, fosse affidato anche quello sul modo di ampliare la Consulta estendendone le ingerenze consultive sui pubblici [160] affari. Grave errore il non fare e promettere, più grave ancora il promettere timido e indeterminato!

Mentre il Governo oscillava così tra il fare e il non fare, Pio IX nel luglio concede la guardia civica; di lì a poco le truppe austriache in onta ai trattati occupano la città di Ferrara; e una congiura contro la persona del Pontefice è scoperta, supposta esistere in Roma. Dai quali fatti gli animi dei toscani sono un po' naturalmente, ma più ancora ad arte talmente eccitati, che tumulti e violenze avvengono in Siena, in Arezzo, in Livorno, e sciaguratamente il conflitto avvenuto in Siena tra carabinieri e studenti, finisce colla morte dello studente Petronici, di cui l'accompagnamento funebre se poco ha di pietà, molto ha di solenne e di minacciosa protesta.

Don Neri Corsini, Governatore di Livorno, mosso da un nobile sentimento di dovere verso il paese e verso il Sovrano, prima che quei tristi fatti accadessero si era rivolto al Granduca esponendo la gravità delle cose, deplorando che le promesse del maggio antecedente non fossero in nulla adempite, e proponendo i modi per render la Consulta proficua, e al bisogno dei tempi più consentanea la legge sulla stampa. Nè il clamore dei giornali, nè le dimostrazioni popolari, nè le raccomandazioni di [161] nuovo dirette dal Corsini al Principe e al Ministero valsero a troncare gl'indugi. Anche adempite, le promesse fatte nel maggio più non sarebbero bastate; i fatti di Ferrara e di Roma un'altra istituzione reclamavano. Il popolo voleva le armi e chiedeva la guardia civica.

Era fatale che alcuni dei Ministri per servilità verso l'Austria, altri per cieca debolezza, dovessero accordarsi nel temporeggiare, finchè costretti a fare qualche cosa in fretta e furia, la facessero male. Nel 24 agosto fu emanato il Motuproprio che riformava la vecchia Consulta in modo affatto manchevole, e la componeva quasi interamente di dipendenti dalla Corte e dal Governo. L'istituzione apparve illusoria, si tacque peraltro perchè nella Legge si diceva che la Consulta, per suo primo affare, doveva riferire sulla convenienza di istituire la guardia civica. Ma quando era decorso l'agosto e la Consulta non si adunava ancora, il fermento si spinse a tale, che in Livorno in una radunata di popolo si trattava di andare in massa e armati a Firenze, ingrossando per via, e là chiedere tumultuando la immediata istituzione della guardia cittadina.

Il pericoloso disegno si sarebbe portato ad effetto se la sagacia di Don Neri Corsini non riesciva [162] a fare adottare invece l'invio di una Commissione presieduta dal Gonfaloniere; la quale immediatamente partì, portando al Cempini una lettera del Governatore. La Consulta, convocata per urgenza la mattina di poi, 4 settembre, espresse, ne a quell'ora poteva caderne dubbio, il voto favorevole, e un Motuproprio sovrano dichiarò la guardia civica istituzione dello Stato.

Gli affetti delle moltitudini son facili a fortemente manifestarsi come a passare da estremo a estremo, dalla fede alla disperazione, dall'amore all'odio, dalla pietà all'ira, dal dolore alla gioia; e appena nel pomeriggio del 4 si conobbe il voto della Consulta, la popolazione, che ieri rumoreggiava e fremeva, proruppe in giubilo: un solo e medesimo pensiero cadde come per incanto nella mente di tutti: domani, giorno di festa, dimostrazione al Granduca. L'accordo era prima fatto che proposto; e fu un subito correre di qua e di là, un affaccendarsi per improvvisare pennoni, stendardi, bandiere, avvisare gli amici, raccoglier bande musicali, dare a tutti il convegno intorno al tempio d'Arnolfo. E la mattina della domenica, un ventimila persone erano assiepate sulla Piazza del Duomo, disposte in ordine militare, divise come per compagnie e per plotoni, con un vessillo innanzi [163] a ogni gruppo. Quando la testa di quella colonna fu pronta per muoversi, una brigata di giovani contadini le si fa innanzi e un di loro dice modestamente: «Non abbiamo bandiera, lasciateci unire, slam fratelli anche noi.» Quella parola fu come una corrente elettrica che percorresse tutte le fibre di quella massa di popolo: fu un grido entusiastico di Viva i fratelli, che accolse quei giovani e che si ripetè da tutti, senza che i più ne sapessero la ragione. Traversata la città giunsero i dimostranti tra il suono delle bande e i gridi di Viva Leopoldo, Pio IX, l'Italia, e senza un grido che suonasse per nessuno odio o disprezzo, sulla Piazza dei Pitti, dove l'entusiasmo salì a tale che il vicino abbracciava e baciava il vicino con le lacrime agli occhi, e si separavano senza che l'uno sapesse dell'altro nulla di più che erano italiani ambedue. Una Commissione, di cui erano a capo Ferdinando Bartolommei e Ferdinando Zannetti, due cuori ardenti di libertà, di nobile lignaggio, di pronto ingegno, d'animo generoso, il Bartolommei, pieno di sapere e di modestia, amato dai discepoli e dal popolo il professore Zannetti, salì a ringraziare il Granduca, il quale commosso affermò la sua determinazione di compier l'opera riformatrice. Circondato a quell'ora dall'amore di una [164] intiera popolazione, era il cuore che parlava per lui, nè lo spettro dell'Austria poteva farlo scientemente mentire!

Dimostrazioni si fecero nei dì seguenti a Pisa e a Livorno. In quest'ultima città l'esaltazione salì al colmo; si arringò il popolo dalle finestre delle case, si parlò di tirannide e di tiranno. Un vero baccanale rivoluzionario definì quella dimostrazione Don Neri Corsini in una nobilissima lettera al conte Ferretti, nella quale spiegava il perchè delle sue dimissioni da Governatore di Livorno e da Ministro degli esteri.

Nel 12 settembre, nuova dimostrazione in Firenze, cui prendono parte i rappresentanti di tutti i municipi, con le rispettive bandiere nazionali gli inglesi, i francesi, i tedeschi, gli americani, i greci e gli ungheresi residenti in Toscana. Più di 50,000 persone sfilarono davanti il Palazzo Pitti, e se questa seconda dimostrazione non si elevò all'entusiasmo cui giunse la prima, fu però più grandiosa e fu la più bella espressione dell'alleanza tra popolo e principe, di fraternità tra popolo e popolo. In questa dimostrazione il concetto unitario era rappresentato da poche bandiere tricolori e il concetto federativo da molte, nelle quali al bianco, al rosso, al verde il giallo era aggiunto.

[165]

Le minaccie dell'Austria raffreddano gli animi del Granduca e de' suoi ministri. Don Neri Corsini, che aveva incitato Principe e Governo a frenare il movimento col metterglisi alla testa proclamando la costituzione, è invitato a dimettersi, ma la marea monta sempre più, e per farle argine Cosimo Ridolfi è chiamato al Ministero dell'interno. Intanto Carlo Lodovico di Lucca, smentendo le promesse che per paura aveva fatte ai Lucchesi, mercanteggia il Ducato con l'Austria, e il Governo toscano per impedirlo, cede a tutte le pretese del Ward, quell'uomo che dalla stalla era salito al grado il più eminente del Ducato ed era del suo Sovrano ben degno rappresentante. I trattati del 15 per la reversione del Ducato di Lucca al Granduca di Toscana imponevano la cessione di Fivizzano, di Pietrasanta, di Barga e di alcuni distretti lucchesi al Ducato di Modena, e Carlo Lodovico per anticipare quella reversione aveva preteso, e il Governo toscano concesso, la immediata cessione a lui del territorio e della città di Pontremoli.

L'unione del Ducato Lucchese fu generalmente accolta in Toscana con gioia, ma porse ai funesti mestatori argomento per accusare il Governo d'aver tradito i popoli di Lunigiana, e per animar questi a disperata resistenza, specie dopo che dalle [166] truppe estensi erasi proditoriamente occupato Fivizzano e non senza spargimento di sangue. Si tornò alle radunate di popolo, alle suppliche, alle minacele in favore dei fratelli lunesi. Pio IX, invocato da loro, aveva promesso spontaneamente di intercedere presso Francesco V e Carlo Lodovico; e il Governo, che non amava di meglio che serbare quei popoli alla Toscana se non glielo avessero impedito i trattati, aveva inviato il barone Ricasoli a Carlo Alberto, che non rifiutò i suoi buoni uffici, comunque dubitasse che la ressa dei Duchi fosse aizzata dall'Austria. Tutto riesci vano, e nel novembre del 1847 non si ebbe di buono che la firma dei preliminari per la lega doganale tra Piemonte, Roma e Toscana, e la promessa che Carlo Lodovico non avrebbe preso possesso di Pontremoli se non succedendo, secondo i trattati, a Maria Luisa nel Ducato di Parma; ciò che accadde ben presto. Morta la duchessa nel 17 dicembre, il duca di Modena e il nuovo duca di Parma si affrettarono nel 24 dicembre a fare un trattato di alleanza con l'Austria, la quale spinse subito le sue truppe sopra i Ducati.

Gravi eventi si potevan prevedere per l'anno che incominciava, ma quali si avverarono, a mente umana non era dato vaticinare.

[167]

L'Austria fin dai primi di gennaio si mostrò intenta a domare con la forza brutale, con ogni artifizio di mala guerra il risorgimento italiano. Infuriava con le sue soldatesche barbaramente sopra i cittadini inermi di Milano, spingeva il duca di Parma ad occupare Pontremoli, aizzava i demagoghi a vangelizzare le più strane utopie, e i retrogradi a spingere a rovina il presente inneggiando al passato: con l'aiuto dei sanfedisti e dei gesuitanti, ricercava ogni meato nell'animo debole del Mastai per arrivare a ferire la coscienza del Pontefice; e fomentava, ne questa era ardua impresa, la malafede di Ferdinando di Napoli, sul quale udiste poco fa invocare benevola l'ultima parola della storia imparziale, ma che io frattanto, ormai troppo vecchio per ascoltare quella parola che sarà tarda, proseguirò a chiamare il Re Bomba.

I sovvertitori delle moltitudini trovano, in tutta la Toscana, nella città di Livorno il terreno ai loro fini adattato; e là si spargono scritti sediziosi, si invita il popolo a chiedere le armi, si accusano i Ministri di codardia e di tradimento. I tumulti che ne susseguono costringono il Governo a reagire mandando a Livorno come commissario straordinario il Ridolfi; il quale, fatto arrestare il Guerrazzi e mandatolo all'Elba, restituisce la calma all'intera città.

[168]

Ma gli eventi precipitano. Il 12 di gennaio la città di Palermo, poichè il re Ferdinando non aveva concessa la domandata Costituzione, si mette in piena rivolta, e caccia le truppe regie. E' seguìta dalle altre città dell'isola e si proclama il distacco dal reame di Napoli della Sicilia, che si costituisce in Repubblica. Il fatto pone in fermento anche Napoli; e il Re, cui duole perdere la Sicilia, promette riforme, espelle il Del Carretto e persino il suo confessore: pochi giorni dopo, alla prima promessa aggiunge quella della Costituzione, e il 10 febbraio promulga lo Statuto fondamentale. Anche il re Carlo Alberto nel dì 8 febbraio pubblica le basi di quello Statuto, che promulgato poi nel 4 di marzo, doveva per fortuna d'Italia restare solo in vigore come l'arca santa dell'unità nazionale. Nel medesimo giorno, vo' dire nell'8 febbraio, si fanno a Roma tumultuose radunate di popolo per chiedere la costituzione e la secolarizzazione del Governo papale; domande, che spingono il partito reazionario chiesastico a iniziare una guerra sorda e feroce al risorgimento italiano. Nel 15 febbraio lo Statuto è pubblicato anche in Toscana, e se ne fanno grandi festeggiamenti, e se ne rendono pubbliche grazie a Dio e al Sovrano.

[169]

Signore e Signori,

Sul quadro di cui andrò ora delineandovi appena i contorni, e al quale la vostra immaginazione darà quel colorito che io non saprò dare, due belle figure campeggiano: quella di Cosimo Ridolfi e quella di Bettino Ricasoli. Questi, costretto dall'amico, piuttosto che chiamato dal Ministro ad assumere l'ufficio di Gonfaloniere di Firenze, con grande riluttanza, più che accettarlo, lo subisce; ma subitolo, lo adempie con tale e tanto senno, con tale elevatezza d'animo e di consiglio che Firenze, comunque gli agitatori del popolo con ogni lena si adoperassero, resiste ai loro malevoli eccitamenti finchè rimane sotto il governo e la guida di lui. L'altro, il Ridolfi, da prima Ministro dell'interno poi Presidente dei ministri in luogo del Cempini, che fatto ormai vecchio si ritira, riesce a inspirare nell'animo del Principe e in quello de' suoi colleghi gli ideali della patria libera e indipendente, e con le sue concioni al popolo, con i manifesti, con i proclami del Granduca ai suoi toscani, torna a stringere affettuosi legami tra popolo e principato; e se la sua sagace iniziativa per concludere una [170] lega italiana tra i quattro Stati costituzionali non fosse stata avversata dal Borbone e dal Vaticano, e non compresa o temuta dal Governo Sabaudo, le sorti d'Italia non sarebbero andate in rovina.

Abbenchè non comparsa ancora sull'orizzonte, forse rendeva vani i saggi consigli di lui, quella stella d'Italia che doveva guidarci all'unità nazionale!

Riprendendo il filo della narrazione sui moti toscani, non può omettersi che il Serristori, Ministro della guerra, preveduto saggiamente il futuro, aveva proposto che si portasse la leva a 4000 uomini, ma negandoglielo la Consulta si era dimesso e gli era succeduto Don Neri Corsini, il quale riesci ad ottenere che si facesse una leva di 2000 uomini almeno.

E qui comincia la serie delle grandi sorprese. Sul cadere di febbraio la rivoluzione di Parigi, la caduta della Dinastia Orleanese, la proclamazione della repubblica in Francia, fanno passare quasi inosservata la costituzione concessa dal Papa, e danno modo al Mazzini di fondare in Parigi l'Associazione nazionale italiana, che in quel momento non poteva non esser che di danno all'Italia. Alludere col manifesto firmato dal Mazzini, dal Giannone e dal Canuti alle forme di reggimento repubblicano, [171] e proclamare il principio dell'unità quando con le forze dei quattro principati si doveva conquistare l'indipendenza, condizione essenziale dell'unità, era errore e più che errore era colpa.

Alla rivoluzione di Parigi succede di lì a poco quella di Vienna. Il terribile nemico delle nazionalità, l'autore di tante stragi, di tanti martirii, di tanti esigli, il principe di Metternich si salva a mala pena, fuggendo, dall'ira popolare, e il giorno di poi l'Imperatore concede la Costituzione ai sudditi austriaci.

I Lombardi e i Veneti, che da tanto tempo mal soffrono il freno delle forze imperiali, pubblicano una forte e nobile protesta ai fratelli d'Italia e d'Europa, e pochi giorni dopo, nel 18 marzo, senza accordi ma per impulso d'animi ugualmente esacerbati, insorgono Milano e Venezia. Dopo una lotta eroica di cinque giorni, Radetzky è costretto a ritirarsi da Milano, e dopo un contrasto meno fiero che quel di Milano, il generale Zichy capitola e abbandona Venezia. I Modenesi si sollevano e il Duca fugge difilato a Mantova; Massa e Carrara insorgono, i popoli di Lunigiana si rivoltano e Carlo Lodovico fugge prudentemente da Parma. Il 24 di marzo il re Carlo Alberto passa il Ticino, e il giorno di poi 6000 piemontesi, freneticamente [172] plaudente l'intiera popolazione, entrano in Milano. In 14 giorni si eran compiti eventi, che appena un secolo avrebbe potuto maturare e produrre!

Il 19 di marzo giungono in Toscana le notizie di Vienna, il 21 quelle di Milano e di Venezia, e sorge un grido generale di guerra e la domanda di armi per correre sui campi lombardi. La Toscana era sprovvista di milizia e di ogni arredamento militare: i pochi soldati servivano per le parate di gala, e il popolo, scherzando, era solito dire che per truppa era trippa e per trippa era troppa. I nuovi chiamati eran da poco sotto le armi, il governo aveva chiesto al re Carlo Alberto ufficiali capaci di ordinare il piccolo esercito, e il Re aveva mandato allora il Beraudi, il Caminati, il Campia. Ma nonostante che in fatto di armamenti tutto fosse da fare, il governo aveva avviato alla frontiera le truppe regolari di cui poteva disporre.

Alle notizie di Lombardia lo spirito patriottico si era levato sublime, ma lo spirito settario si agitava più vivamente di prima per le notizie di Francia. Bande di fuorusciti entrano dalla Francia in Savoia per abbattere il governo regio, ma ne son cacciati dai savoiardi. A Firenze si tenta sollevare la diffidenza contro il Ridolfi, e si eccita la [173] plebe a strappare l'arme austriaca dal Palazzo dell'Ambasciata e a bruciarla sulla Piazza del Granduca; e si minacciava per di più di assaltare la stessa Ambasciata, se il ministro Corsini non fosse riuscito a persuadere la eccitata popolazione che non vi erano armi proditoriamente nascoste.

In ogni parte d'Italia echeggia il grido di guerra. Ferdinando di Napoli spedisce in Lombardia un corpo di truppe sotto il comando di Guglielmo Pepe. Pio IX benedice i soldati e i volontari che partono da Roma guidati dal generale Durando. Il Granduca passa in rivista i volontari, li saluta con un discorso caldo di amor di patria, e l'Arcivescovo ne benedice la bandiera tricolore, che era dichiarata bandiera dello Stato. Anche il Battaglione della Guardia Universitaria parte acclamato da Pisa.

Il 5 di aprile il Durando coi Romani è giunto in riva al Po, e dopo aver ordinato con un caloroso proclama, ai suoi militi di fregiarsi il petto della croce, e di muovere al grido «Iddio lo vuole,» entra sul territorio della Venezia.

Prima di andare oltre, giova tener nota di due fatti importanti. Il primo, che dodici giorni dopo questo proclama, il principe Aldobrandini, Ministro della guerra, con un suo dispaccio al Durando ne [174] approva in nome del Papa la condotta e lo autorizza a trattare un imprestito col Governo veneto; il secondo, che, nonostante lo stato di guerra, gli Ambasciatori d'Austria rimangono tuttora a Roma e a Vienna.

La rettorica, che è stata sempre una malattia per noi italiani, ci aveva portata sul labbro la frase «Fuori i barbari,» e l'Austria ne aveva saputo fare suo pro per eccitare contro l'Italia lo spirito nazionale tedesco. La Repubblica francese con la minaccia d'invadere la Savoia sotto il pretesto delle inquietudini sorte in Europa per gli avvenimenti d'Italia; le proposte dell'Inghilterra di separare la causa della Venezia da quella della Lombardia, generosamente respinte dal Re: la Sicilia e la Venezia con l'essersi costituite a repubblica; il Mazzini col suo manifesto; i cardinali, i gregoriani, il ministro d'Austria col dare a credere al Papa, che, movendo guerra ai popoli cattolici, si sarebbe dato argomento a un nuovo e più terribile scisma, tutto congiurava contro le sorti d'Italia.

Il Re di Napoli manda contro la Sicilia ribellata le milizie già pronte a partire per la Lombardia; Pio IX con l'Allocuzione concistoriale del 19 di aprile, dichiara di aver voluto inviare le [175] truppe al confine per difendere l'integrità dello Stato, ma non volere, egli ministro di pace, far guerra all'Austria.

Aveva un bello scrivere il Ridolfi lettere di fuoco al Bargagli, ministro toscano a Roma, e questi aveva un bel ripetere al Papa che se egli stesso non avesse predicata la Lega italiana, e non si fosse posto tra la Croce e la Spada e dettata legge a tutti, non solo sarebbe perduta l'Italia, ma perduto anche il Papato e il potere temporale. Il vaticinio del Ridolfi, comunque giusto e vero, non fu ascoltato, e il Papa non ad altro si indusse che a fare, il 3 maggio, una esortazione a Carlo Alberto di posare le armi, e all'Imperator d'Austria di rinunziare alla dominazione italiana.

In questo mentre i Toscani scendevano sui piani lombardi. Brandite le armi, i giovani universitari eran partiti da Pisa e da Siena pieni di un santo entusiasmo, che si era cercato di smorzare trattenendoli a lungo per la via; ma che era cresciuto perchè lo aveva acuito l'impazienza del trovarsi di fronte al nemico. In una bella mattina d'aprile, valicando quei giovani, al canto d'inni patriottici, l'ultimo giogo dell'Appennino, si schiude innanzi al loro sguardo l'immensa pianura lombarda, coronata dai pallidi contorni delle vette alpine. Coperta [176] da una nebbia leggiera e trasparente pei raggi del sole sorto allora sull'orizzonte, aveva l'apparenza di un mare quieto e tranquillo, e l'idea dell'infinito cresceva la magnificenza del grandioso spettacolo. Un grido solo di Viva l'Italia eruppe da quei giovani petti. Era Italia quella immensa pianura, ed era calcata dallo straniero! In quel grido l'ideale della patria, l'aspirazione di tanti secoli che ora si compiva, la fede nell'avvenire, la certezza della vittoria, tutto si rivelava in un sublime tumulto di affetti!

Il 3 maggio i Toscani, che per ordine di Re Carlo Alberto dovevan prendere la destra dell'esercito piemontese, sostengono con buon successo sotto Mantova una prima avvisaglia a San Silvestro: nel successivo dì 13, buon nerbo di austriaci attacca tutta la linea da Curtatone a Montanara ed è vittoriosamente respinto sotto gli occhi del ministro Corsini, che stette impavido in mezzo al fuoco, mentre il generale Ferrari se ne stava tranquillo e sicuro alle Grazie. Le truppe regie avevan combattuto eroicamente a Pastrengo, a Crocebianca, a Santa Lucia ed ora assediavano strettamente Peschiera, mentre il generale Nugent scendeva con grandi sforzi nel Veneto e costringeva il generale Durando a ripiegare su Vicenza.

[177]

Il generale Ferrari era stato richiamato in Toscana, e da due giorni lo aveva sostituito il De Laugier, quando il generale Bava, sotto gli ordini del quale era il corpo dei Toscani, con ripetuti dispacci lo avvisa che forti distaccamenti di austriaci sono entrati in Mantova e si preparano ad attaccare all'indomani le posizioni occupate dai nostri; che occorrendo ripieghi su Goito, dove l'aiuto suo non gli sarebbe mancato.

La linea guardata dai Toscani si stendeva undici chilometri da Goito per Sacca e Rivalta fino a Montanara; aveva una fronte rivolta a Mantova di oltre 3 chilometri di lunghezza, con la sinistra a Curtatone appoggiata al lago formato dal Mincio, e la destra a Montanara. La posizione era debole t mal difesa, A Curtatone, invece di coprirci con l'Osone, canale non guadabile, e con i suoi argini, si eran formate le nostre trincee al di là del canale e del solo ponte, che sulla via maestra lo traversava, più alto del piano di campagna, non coperto ne difeso. Montanara aveva la destra affatto scoperta e poteva facilmente essere attaccata e girata di fianco. Sulla linea di battaglia tra Curtatone e Montanara, il generale De Laugier non aveva che sei cannoni e 4600 combattenti, mentre Radetzky era uscito da Mantova con 40,000 uomini e 60 pezzi d'artiglieria.

[178]

Alle 9 e mezzo della mattina comincia a tonare il cannone nemico, e in breve il fuoco dei fucili si fa su tutta la linea vivissimo. Il generale De Laugier per invitare, come egli disse, i suoi giovani soldati a sprezzare il pericolo, esce con i suoi aiutanti al di fuori delle trincee e percorre a cavallo, sotto il fuoco nemico, la parte della linea che dalla strada va a sinistra fino al lago, e al suo passaggio i soldati e i volontari, alzando i fucili, lo salutano col grido di Viva l'Italia. Di là il Generale corre a Montanara, tutti animando colla speranza della vittoria.

Anche il Battaglione Universitario, che era accampato alle Grazie, e che il Generale aveva ordine di tenere in riserva, è portato sulla strada di Mantova per attendere in colonna serrata l'ordine di avanzare. Una densa nube di fumo si alza al di là del ponte e si ode un terribile rombo; era un cassone di munizioni, che i fuochi dell'artiglieria nemica ci aveano incendiato. Passano sulla strada i feriti in gran numero; fra questi il tenente colonnello Chigi e il tenente Niccolini, che si erano eroicamente battuti. «Viva l'Italia! Vendicateci!» grida, passando, il Niccolini ai giovani universitari, dei quali, a quel grido, non è più possibile contenere l'ardore. Il Battaglione, [179] formato com'era in colonna serrata, si muove senza che nessuno glielo abbia comandato, e fu fortuna che nel breve tratto da percorrere prima di salire il ponte, lo incontrassero l'aiutante maggiore Milani e il capitano Caminati e lo facessero sfilare per due e passare alla corsa sul ponte, dove fulminavano i fuochi incrociati dell'artiglieria nemica, che ad alcuni di quei giovani furono pur nonostante fatali. Il fuoco dei nostri fucili durò a lungo e sempre vivace, mentre un solo cannone poteva di tanto in tanto, per mancanza d'artiglieri e di munizioni, far sentire i suoi colpi.

Alle 4 pomeridiane, dopo sei ore e mezzo di combattimento, gli austriaci in forti masse si avanzano sulla strada dalla parte del lago, e il De Laugier assicuratosi della impossibilità di resistere ancora, ordina la ritirata e la fa batter più volte, perchè molti parevan decisi a morire sulle trincee piuttosto che voltar le spalle al nemico. Gli austriaci, convinti di avere avuto a fronte un grosso corpo di esercito, che avesse ripresa posizione alle Grazie, avanzano cautamente, e intanto i nostri, discretamente ordinati, si ritirano per Rivalta e Goito.

Nè con minor valore si eran battuti i Toscani comandati dal colonnello Giovannetti a Montanara. [180] Attaccati sul fianco destro da grandi forze nemiche, più volte si erano slanciati al di là delle trincee, ed eran riusciti a respingerle: l'artiglieria aveva fatto prodigii con i tiri bene aggiustati dei suoi due cannoni, ma artiglieri e ufficiali erano morti feriti sui loro pezzi. Nuove schiere nemiche ripetevano i loro attacchi, e quando sul tardi il Giovannetti, cui non era pervenuto l'ordine di ritirarsi inviatogli dal De Laugier, si accorse di avere a fronte un esercito poderoso e ordinò la ritirata, il generale Lichtenstein lo aveva girato di fianco e, sbarrandogli la via, lo attaccava alle spalle. Molti di quei valorosi perirono, molti non pratici del terreno furon circondati e rimasero prigioni.

Dal maresciallo Radetzky, nella sua relazione sulla campagna del 1848, quella battaglia è chiamata memorabile e quella giornata gloriosa per l'esercito austriaco. E noi possiamo dire sulla indiscutibile autorità di lui, che dieci volte più memorabile fu quella battaglia e dieci volte più gloriosa fu quella giornata per i toscani, che dell'esercito austriaco non eran che la decima parte.

L'eroica resistenza dei nostri aveva dato tempo alle truppe regie di raccogliersi a Goito, dove giunto Radetzky la mattina di poi e data battaglia, fu [181] vinto e costretto a tornare indietro e chiudersi in Mantova. In quel medesimo giorno capitolava Peschiera. Ma fin d'allora il valore dell'esercito, l'eroismo del re Carlo Alberto e dei Principi suoi figli, non bastarono a rialzare le sorti delle armi italiane. L'esercito piemontese, non ostante che prodigii di valore avesse compiuti, pure due mesi dopo dovea fatalmente ripassare il Ticino.

Nel 26 di giugno si era adunato per la prima volta il Parlamento toscano, che al discorso del trono, caldo di sentimenti patriottici e avvivato dalla fede nell'avvenire d'Italia, rispose con fragorosi, unanimi applausi. Ma nel mese successivo, quando la fortuna aveva voltato le spalle alle armi italiane, il governo, colpito dalla grave sciagura, era ricaduto nelle solite lentezze e incertezze. Si attendeva la presentazione di una legge sui volontari, perchè il timore degli austriaci vittoriosi faceva sentire il bisogno d'uomini e subito; ma il 30 luglio un movimento repubblicano, presa a pretesto la necessità di difendere il paese, messe tutta Firenze sottosopra, la Guardia civica non rispose all'appello, e la truppa piegò di fronte al popolo che invase l'aula dei Deputati. Niuna deliberazione fu presa dall'Assemblea sopraffatta, e ne seguì la dimissione del ministero Ridolfi. Gli succede un [182] ministero Capponi, che ebbe una vita agitata di soli settanta giorni; durante i quali Livorno, conturbata dai sobillamenti del Guerrazzi e irritata per la espulsione del padre Gavazzi, si levò a tumulto, e rotto il telegrafo e arrestato il Governatore, pretendeva dettare la legge. Inviato dal Governo a sedare quei tumulti Leonetto Cipriani, ne avvenne fra il popolo e la truppa una lotta sanguinosa. Per il che dipartitosi il Cipriani da Livorno, a calmare gli animi esacerbati vi fu dal Governo inviato il professor Montanelli, e questi blandendo il popolo per farsene strumento a salire, gli promise la istituzione di una Costituente italiana, la quale avrebbe dovuto deliberare sopra la forma del reggimento politico e anche sulla conservazione della dinastia di Lorena.

Intanto i partiti estremi rossi e neri, d'accordo sempre nel distruggere, avevano messo sottosopra anche Roma; e ucciso il Rossi, e minacciato il Vaticano, avean costretto il Papa a fuggire. Caduto in Toscana anche il ministero Capponi, il Montanelli e il Guerrazzi eran riusciti ad afferrare il potere. Le due Costituenti, la Costituente federativa dei trattati, piemontese, toscano e romano, che doveva risedere in Roma ed esser la personificazione vivente dell'Italia, e la Costituente legislativa sopra [183] l'ordinamento interno di ciascuno Stato, costituivano il programma del nuovo Ministero democratico: concetto questo, cui prima aderì, poi respinse il Gioberti, allora presidente del Ministero Piemontese; concetto che più tardi doveva sollevare gli scrupoli di Leopoldo e indurlo ad abbandonare la Toscana. Sciolta la Camera dei Deputati, o Consiglio Generale, come allora chiamavasi, e riconvocati i Collegi elettorali, il Governo democratico nel dubbio di non aver favorevole il giudizio popolare, avea lasciato che in Firenze, in Pisa e in altre parti del Granducato il giorno delle elezioni si tumultuasse, si spezzassero le urne e fossero messi in fuga gli elettori dalla plebaglia eccitata. In sì triste modo si chiudeva il 1848, quell'anno di tante speranze, di tante prove, di tante sciagure.

Il risorgimento italiano, cui l'elezione di Giovanni Mastai a Pontefice aveva dato come il suggello della giustizia divina, si era arrestato, ma non per sempre. Se al principio del 1848 era esso una fede nella coscienza del popolo, al cader di quell'anno fortunoso non era per altro che un debole ricordo di un sogno svanito. La speranza, non che spenta, era resa anzi più viva per l'ammaestramento che ci veniva dagli errori commessi.

[184]

Se il 1848 aveva strappato dalle nostre mani inesperte le sorti della patria, le vegliava un destino benevolo. Gli errori del popolo le avevano compromesse, gli errori del principato dovevano prepararne la grande riscossa. Se Pio IX, se Leopoldo di Lorena si involavano, e con ragione, alla tirannia della piazza, era il fato benevolo dell'Italia, che doveva spingerli a rifugiarsi presso il Borbone sotto le ali tristamente tutelari dell'Aquila austriaca. Era il fato benevolo dell'Italia, che doveva nella tenebrosa fucina di Gaeta far preparare la violazione dei patti giurati, e la chiamata delle armi straniere sopra i popoli ancor fedeli della Toscana. Era il fato benevolo dell'Italia, che doveva offrire a noi medesimi, che avevamo errato, l'occasione della riscossa. Era il fato benevolo dell'Italia, che invece di un Papa, liberale senza saperlo, doveva darci in Vittorio Emanuele un Re Galantuomo, e far dello Statuto Sabaudo il gran faro cui potessero rivolgersi tutti i cuori e tutte le menti degli italiani. Era il fato benevolo dell'Italia, che doveva con gli errori del Granduca ravvivare il sentimento dell'unità nazionale, sopito ma non spento, nel popolo toscano, e dare a questo la fermezza di volontà e la temperanza di modi, che più tardi lo avrebbe fatto appellare un popolo di diplomatici, [185] che sotto la guida salda e robusta del Ricasoli, avrebbe potuto render vani i patti di Villafranca, i suggerimenti amichevoli, gli autorevoli consigli delle potenze straniere, e, spezzando la propria corona, dare il primo e il più forte cemento all'unità della patria!

Il vaticinio del poeta toscano si avverò: furono lacerate all'Italia

Le molteplici bende

Onde gelida a lei correa la vita.

Il generoso disegno fu opera grande e fortunatamente compiuta.

Dopo lungo servaggio alzata a regno

l'Italia fu libera, fu indipendente, fu una. Possa la mente del popolo non ricadere sotto il fàscino di coloro, i quali, negando persino il sublime affetto di patria, non aborrono dal gridar viva ai nemici di lei, di coloro che saranno sempre, come nel 1848, causa non dubbia di grandi sciagure; possano gli errori d'allora essere a tutti di un ammaestramento costante; e l'Italia, ricostituita in nazione, per virtù di Re e di Popolo, possa per virtù di Popolo e di Re serbarsi grande e potente!

[187]

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