LA SICILIA E LA RIVOLUZIONE

CONFERENZA

DI

FRANCESCO CRISPI.

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Spezzata, per un moto violento della natura, dal continente europeo - a pochi passi dall'Africa - siede, cinta dalle acque, la Sicilia nostra. La sua singolare struttura, i suoi confini eterni, la sua storia ne formano un corpo superbamente autonomo; ed essa avrebbe avuto gli elementi per reggersi indipendente e sicura, se la sua feracità e la sua bellezza non avessero risvegliato gli appetiti dello straniero. Da ciò la credenza popolare che là l'orbe abbia principio e fine, sicchè il poeta cantò:

.......... sia baluardo suo

Il mar che ne circonda......

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La Sicilia fu orgogliosa della sua autonomia, e la mantenne coi suoi Parlamenti anche quando costretta [116] ad obbedire ai re lontani. Bisogna, però, ricordare che, nei momenti più faticosi della vita italiana, l'isola coraggiosa vi partecipò con le opere sue, e, nel periodo della nostra epopea nazionale, fu il punto di partenza dell'azione popolare.

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Il mondo greco nell'isola fu splendore di civiltà. Con Siracusa ed Agrigento, la Sicilia nelle arti belle e nelle indagini severe della filosofia, nei fulgori dell'eloquenza e nell'impeto fascinante della poesia, vinse Atene e Roma. Ai Cartaginesi, come pena della sconfitta subìta in Imera, fu inibito di sacrificare agli dèi vittime umane. Gelone, non per sè, nè per la patria sua, ma per l'umanità pattuì il premio della vittoria.

Il mondo romano ci soggiogò, e per la vita incerta fu spezzata l'opera del progresso. Con Cesare avemmo il diritto italico, con Antonio la cittadinanza romana, ma i due beneficii furono tosto annientati, e fummo annessi alle provincie abbandonate agli arbitrii del Senato. Seguirono i furti, le dilapidazioni dei pretori, le spoliazioni delle città e delle campagne; tanto che, a riparare i danni, [117] Ottaviano Augusto dovette mandare coloni nei luoghi resi deserti dal mal governo.

Più tardi, a compiere la cruenta èra dei martirii, quando, per le ingrandite conquiste l'impero fu bipartito, la Sicilia appartenne a Bisanzio, che non seppe governarla nè difenderla - e però l'isola cadde in preda dei Saraceni.

Ma dall'epoca del dominio normanno, e, più propriamente, dal regno di Ruggiero, trae origine la moderna vita politica siciliana, la quale forma un ciclo di otto secoli, che si chiuse con la dittatura di Garibaldi.

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La monarchia normanna precedette tutte quelle che più tardi si fondarono sul continente italiano. Essa estendeva il suo impero nella penisola - e mirava più lungi; tanto vero, che Ruggiero, in parecchi diplomi suoi, s'intitolava re d'Italia.

Il nuovo principato fu costituito in tutta la pienezza della sua autorità. Il re, capo dello Stato, nessuno emulo suo, principe nazionale o straniero che fosse.

O di mala voglia, siccome talora parve indicare [118] la curia vaticana, o, com'è più logico, a premio della vittoria sul patriarcato bizantino, Urbano secondo cedette a Ruggiero, per sè ed i suoi successori in perpetuo, la legazione apostolica. Quindi il re istituiva diocesi, nominava vescovi ed abati, esercitava con sovrana potestà giurisdizione e polizia nella chiesa.

Questa unità nel potere, questa armonia nell'esercizio delle funzioni regie, corroborarono la forza del principato. Sino ai giorni nostri il clero nell'isola fu regio e non papalino. Nelle cospirazioni, e sulle barricate, al 1848 ed al 1860, avemmo compagni preti e frati. Il clero papalino cominciò a fiorire dopo la legge del 13 maggio 1871. Questi ricordi possono essere un ammonimento ai moderni uomini di Stato.

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La Santa Sede non concedette mai riposo ai re di Sicilia. Dai primi dubbii sulla interpretazione della bolla di Urbano, che condussero al trattato di Benevento del 1156, alle inimicizie palesi sotto Federigo lo Svevo, alle iniquità di Innocenzo III, è tutta una odissea più che secolare di triboli e di persecuzioni.

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Per colmo di misura, salirono l'un dopo l'altro, sul trono di Pietro, pontefici francesi nei quali le ambizioni e le insidiose abitudini della Curia non erano temperate da sentimento di patria. Avevano le teorie di Ildebrando senza la grandezza del principe.

Dovrò io ricordare che Urbano IV esibì il regno di Sicilia al migliore offerente? Che lo concedette in feudo a Carlo d'Angiò? Dovrò ricordare la pietosa fine di Manfredi innanzi Benevento? E quella, dopo Tagliacozzo, di Corradino? E i sedici anni di infame, invereconda tirannide che ne seguirono? E l'epica, la fulminea ribellione del Vespro? O non è forse la guerra dei trent'anni sufficiente documento della fibra leonina del popolo siciliano, abbeverata nel proprio sangue, temprata ne' proprii dolori, inaccessibile a seduzioni, a corruzioni, a lusinghe?

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Singolare a notarsi: dal 1078 al 1860 in Sicilia ebbero vita nove dinastie; molte di esse furono detestate, nessuna riuscì a metter salda radice nell'isola.... eppure il popolo fu mai sempre monarchico. [120] Delle rare proclamazioni repubblicane fu causa l'assenza temporanea del principe: ma il governo del demo disparve, per mancanza di seguaci serii e convinti, senza rammarico - e mancò sempre forza e coesione di partigiani per restaurarlo, in più che quaranta rivoluzioni!

Esempio insuperato di virtù - se virtù è la pazienza dei popoli - i Siciliani insorsero spesso contro gli uomini, non mai contro il regime. Così, indignati per la sfacciata corruzione dei pubblici funzionarii, feriti dalle nuove imposte cinicamente meditate dal Parlamento, ansiosi di un più mite governo - i palermitani insorgevano. E davano inizio alla sommossa, portando in trionfo il ritratto del re.

Al 1547 il plebeo Alesi, superbo delle sue vittorie sui nobili e sui funzionarii dello Stato, respingeva i consigli di democrazia e voleva monarchicamente governare; ed il notaio Vairo, che, nel movimento dell'anno stesso non potè far valere le sue idee di repubblica, fu insieme ai suoi compagni, strozzato dal boia.

La stessa sorte toccò ad Ignazio Volturo nel 1704, e nel 1795 a Francesco Paolo de Blasi e ad altri suoi compagni.

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La monarchia siciliana surse con forme parlamentari. La sua costituzione risentì dei tempi e degli uomini che la formarono.

Nei primordii, il Parlamento si riuniva in unica assemblea, nella quale intervenivano i prelati, i baroni ed i sindaci delle città libere. Sotto gli Spagnuoli l'assemblea fu ripartita in tre: il braccio militare, l'ecclesiastico ed il demaniale.

E fu male, imperocchè bastava che i due bracci aristocratici si accordassero contro la parte popolare, per imporre la legge.

L'autorità del Parlamento diminuì sempre sotto il dominio straniero. Si convocava soltanto quando il re avea bisogno di sussidii, e la rappresentanza nazionale si limitava a reclamare dal principe i provvedimenti pei pubblici servizii sotto l'umiliante titolo di grazie.

Scoppiata la grande rivoluzione francese, i Borboni furono espulsi da Napoli e trovarono asilo in Sicilia, sotto la tutela dell'armata britannica. La sventura non fu loro di lezione; anzi, abusando della loro autorità, relegarono in un'isola parecchi Pari del [122] Regno, i quali avevano protestato contro il re violatore della costituzione.

La Corte, minacciata dal ministero inglese che voleva la pace nell'isola, venne a migliori consigli. Il re nominò a suo vicario il principe reale e si ritirò in campagna, e la regina, che era considerata provocatrice precipua delle violenze, partì per Vienna.

Con questi mutamenti parve rasserenarsi l'aere politico. Le Camere, riunitesi, modificarono lo Statuto del regno, restituendo in vigore alcune delle antiche disposizioni che erano state revocate dall'arbitrio regio.

Il buon regime fu di breve durata. Ferdinando, per le migliorate condizioni dell'Europa in suo vantaggio, riassunse il potere e sciolse la Camera. Quindi convocò i comizii e manipolò una rappresentanza di impiegati e demagoghi, a renderla spregevole. Finalmente il 14 maggio 1815, dopo il trattato di Vienna, chiuse il Parlamento per non più riaprirlo.

A trovar complici nel popolo tentò con emissarii suoi di promuovere petizioni e spingere i consigli municipali a chiedere l'abolizione della costituzione. Ma conseguì un effetto contrario, perocchè l'azione perversa dei nemici del paese provocò una agitazione universale per la convocazione del Parlamento.

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Ne seguirono arbitrii e violenze, tra cui la chiusura delle stamperie e l'arresto dei tipografi per impedire la pubblicazione dei giornali.

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La vita di un popolo è la sintesi della sua storia. Esso non perisce, ma si perpetua, e però gli eventi che nel corso dei secoli si svolgono in lui e per lui, ne costituiscono la forza intellettiva, la quale lo spinge per determinati scopi all'azione.

Il colpo violento recato alle istituzioni politiche del regno ferì gravemente il cuore dei Siciliani. L'isola non aveva che tradizioni di libertà, ed i Borboni furono i primi fondatori del principato assoluto. Si comprende che le violenze del despotismo doveano figliare cospirazioni e rivolte.

Davano singolarità al carattere dei miei conterranei: la monarchia tradizionale, il tradizionale Parlamento. E non si smentirono. Quando al 1820 furono spinti dalla carboneria a fondersi in quella menzogna geografica del regno delle Due Sicilie, risposero gridando per le strade: Indipendenza o morte.

Si ricorda un fatto speciale di quei giorni che [124] definisce la personalità dei nostri uomini politici. Il 18 luglio 1820, il popolo si volge al principe di Castelnuovo perchè voglia capitanarlo; il vecchio patrizio, al vedere il tricolore sul petto dei cittadini, grida:

- Quella non è la coccarda siciliana. -

E volge loro le spalle.

Ebbene, Carlo Cottone, principe di Castelnuovo, pari del regno di Sicilia, fu uno dei più ardenti promotori delle riforme politiche al 1812. Fu tra i baroni che al 1811 avevano protestato contro Ferdinando III, per aver questi decretato l'imposta sulla rendita senza l'autorità del Parlamento. Ministro delle finanze nei giorni classici della monarchia costituzionale, provocò la legge per l'abolizione della feudalità e del fidecommesso. Fu sobrio, rigido, uomo di Stato all'inglese. Venuti i tempi tristi della servitù, rifiutò il pagamento delle imposte, perchè non votate dalle Camere, e fu miracolo di cittadino sotto una tirannide che nulla perdonava. Morendo, ricco signore, distribuì la sua cospicua fortuna ad opere di beneficenza e di educazione popolare.

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Fedele alle sue tradizioni, il popolo siciliano si teneva nel campo chiuso della sua politica locale.

La Giovine Italia non ebbe fortuna nell'isola nostra. Mazzini ebbe amici, non seguaci. I suoi scritti, il suo giornale L'Apostolato si leggevano con ardore, come tutte le stampe proibite, ma non facevano proseliti.

Al 1837, quando queste cose seguivano, nella insurrezione di Catania e Siracusa, nei proclami popolari, si rivendicava la costituzione del 1812!

Per dare unità di scopo ai movimenti futuri, al 1844 fu costituito in Napoli un Comitato. Lo componevano cittadini napoletani e siciliani. Non si pensò affatto alla repubblica. L'ideale dei cospiratori era l'istituzione di un re con due Parlamenti, sull'esempio della Svezia e della Norvegia.

Mentre l'azione segreta dei liberali si estendeva nel mezzogiorno della penisola, occorse un caso singolare a scuotere le nostre popolazioni: l'assunzione di papa Mastai. Pio IX si presentò alle accese fantasie del popolo italiano in veste di liberale riformatore. Ricordate gli entusiasmi, le frenesie! Ricordate gli entusiasmi, le frenesie! [126] E l'apostrofe del poeta che al nuovo pontefice gridava: - Nessun fu così vicino a Dio, siccome tu in quel giorno! E, come vinti da un santo contagio, gli altri principi ne seguirono l'esempio - tutti, eccettuato il Borbone.

La Sicilia, non pertanto, continuò la sua via, e non mutò il suo disegno, cioè il ritorno alla costituzione del 1812. Esempio nuovo nella storia, sui principii di gennaio 1848 apparve un proclama in Palermo dichiarante che se il giorno 12 di quel mese il re non avesse soddisfatto le giuste istanze del popolo, questo sarebbe insorto. Ed insorse; combattè ventiquattro giorni e vinse.

Il moto palermitano fu impulso alle maggiori città d'Europa. Parve iniziativa alla rivoluzione universale. In Italia fu il segno d'una crociata contro lo straniero.

I principi, non escluso il Borbone, a calmare i popoli, diedero le costituzioni. La Sicilia ferma nei suoi propositi, non s'illuse, e convocò il suo Parlamento.

Uno dei primi decreti del potere legislativo fu la proclamazione della decadenza dei Borboni. L'isola fu quindi dotata di un nuovo Statuto, nel quale si sanciva la sua indipendenza e si proibiva al re di avere il dominio di altri Stati.

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Se il contegno politico dei siciliani dimostrava la loro costanza, non può dirsi che l'azione dei medesimi pregiudicasse il successo della causa nazionale. Allora la guerra contro l'Austria era un sentimento universale, ma in pochi era la visione della grande patria italiana. Giova ricordare che al 1849 in Roma fu proclamata la repubblica romana e non la repubblica italiana. E quando Mazzini, triumviro, mandò suo legato a Firenze il dottor Pietro Maestri, Guerrazzi respinse le proposte di unione, invano offertegli dall'amico nostro.

La lunga storia del 1848 e del 1849 è nella mente di tutti.

Le insurrezioni furono fortunate, e lasciarono memorie gloriose degli eroismi popolari. Le guerre furono infelici; pei tradimenti dei principi, per malaugurate discordie, siamo stati sconfitti laddove credevamo sicura la vittoria.

Carlo Alberto fu due volte vinto, e tutto parve perduto. Ma non mancò agli sperati trionfi la volontà, ed il coraggio della Sicilia. Essa ritornò sotto la tirannide dopo le arsioni di Messina e di Catania. [128] Della romana repubblica ho l'angoscia di ricordare che fu soffocata dalla repubblica francese sua sorella; di Venezia, che fu vinta dalle bombe e dal colèra, dopo aver dato prova di un eroismo temprato nell'adamante delle sue fulgide memorie antiche.

Qui comincia l'esodo dei migliori cittadini; ma le sventure furono scuola di abnegazione e di costanza nei sacrifizii. Gli esuli, quando suonò l'ora dei combattimenti, furono mente e braccio nell'azione suprema.

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Ed or si apre un mondo nuovo innanzi a noi: la Sicilia italiana.

La Sicilia, superba della propria autonomia, che avrebbe dato la vita per la propria indipendenza, cospira contro le sue tradizioni, rinunzia al suo re, al suo Parlamento, alla sua legislazione, per fondersi nella grande nazione, che si estende dal mare africano alle Alpi estreme.

Il 30 dicembre 1849 il direttore generale della polizia, nella relazione sullo spirito pubblico, scriveva al suo ministro in Napoli, meravigliato ed [129] indignato ad un tempo per quello che era avvenuto nell'isola. È incredibile, egli osservava, qual mutamento si è determinato nella opinione del paese. Questo popolo, fiero della sua autonomia, che si oppose con furore alla sua fusione con Napoli dopo il 1815, oggi parla di vita italiana.

Sono popolari i nomi di Garibaldi e di Mazzini, e si lusingano le plebi che costoro verranno alla testa di un corpo di emigrati.

Così fu - ed il nuovo ideale ebbe anch'esso i suoi martiri. Ma le fucilazioni e gli arresti arbitrari, le sevizie e le torture non spegnevano, anzi - come sempre accade - alimentavano l'apostolato.

Il 27 gennaio 1850 il feroce Maniscalco, dando carattere ed importanza d'insurrezione ad una semplice dimostrazione popolare, fece fucilare il giovane avv. Garzilli con altri cinque compagni, i quali poscia, istruito il processo dalla ordinaria autorità giudiziaria, furono riconosciuti innocenti.

Il 16 marzo 1857 toccò la stessa sorte a Giuseppe Bentivegna ed a Salvatore Spinuzza, imputati soltanto di cospirazione.

La restaurazione fu dissennata quanto crudele.

Il re nulla fece per affezionarsi le città, per amicarsi le campagne; tutto, invece, perchè gli odii [130] rinascessero ed inacerbissero. Non eravamo un popolo da governare, ma schiavi da tenere in servitù. Il paese era un campo trincerato, nel quale stavan di fronte esercito e cittadini, pronti a rompere ed a lacerarsi tra loro. Il governo, temendo sempre un ritorno delle giornate del 1848, considerava ribelle e puniva di morte il detentore di un'arme, arrestava e torturava chiunque ricevesse la lettera di un esule che osasse scrivere di politica.

E doveva avvenire quello che avvenne: lo scoppio irresistibile dell'ira popolare.

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La insurrezione più volte tentata e più volte differita, ruppe il 4 aprile 1860 al convento della Gancia di Palermo.

Alle prime notizie, Garibaldi, sciogliendo la fatta promessa, s'imbarcò coi Mille a Quarto e scese a Marsala. Pel duce fu una serie di vittorie, a Calatafimi, a Palermo, a Milazzo.

Nell'epistolario di Massimo D'Azeglio è una lettera ad un amico, nella quale si meraviglia dei trionfi di Garibaldi. Egli non sa comprendere come il gran capitano abbia potuto vincere con mille [131] uomini un re, difeso da valido esercito e che aveva una flotta potente a guardia del suo territorio.

La spiegazione è facile: il Borbone aveva tutto il popolo contro di sè; e gli era ostile l'opinione d'Europa.

* * *

La Sicilia, interessata alla redenzione di tutta la penisola, non fu ingrata, nè imprevidente.

Quando nel luglio 1860 le città dell'isola erano quasi tutte affrancate, il Borbone, scoraggiato dalle sconfitte, e volendo salvare una parte del regno, ebbe il pensiero di rinunziare alla Sicilia, consentendo che quel popolo decidesse a suo grado delle proprie sorti. Rifiutammo il dono insidioso.

La Sicilia non poteva ripetere l'errore del 1848. La sua libertà non si sarebbe assicurata, finchè la dinastia non fosse stata cacciata da Napoli. E poi ci saremmo allontanati dallo scopo dell'unità nazionale e saremmo stati ingrati con gli esuli delle provincie meridionali del continente che erano venuti con noi a battersi nell'isola.

Favoriva quel progetto Napoleone III, il quale si oppose al passaggio dello stretto, e vi sarebbe [132] riuscito se l'Inghilterra non avesse fatto prevalere il principio del non intervento.

Fu rapida la corsa di Garibaldi da Reggio a Napoli. In pochi giorni le schiere nemiche furono sbandate; e il 21 ottobre fu votato il plebiscito in tutte le provincie meridionali, plebiscito che proclamava l'unità della patria italiana.

* * *

Ma l'opera nostra non poteva arrestarsi qui: a maggiori altezze essa intendeva.

Certamente, coll'affrancazione delle provincie meridionali della penisola noi avevamo elevato la parte maggiore del grande edifizio. Un anno innanzi ci era stato dato l'esempio dalla Toscana, prima a rinunziare alla sua antica autonomia; quindi l'Emilia, che dal 1820 in poi aveva tentato più volte di far sventolare nelle ubertose sue pianure la bandiera dell'unità nazionale.

Dopo ciò il dominio dell'Austria non era più duraturo; e cadde anch'esso per necessità di tempi. Lo seguì nel precipizio il potere temporale dei papi, il quale, non più reggendosi per forza propria, seguì la sorte del suo protettore.

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Così fu sciolto il gran problema; ma non dobbiamo arrestarci nella missione che l'Italia ha assunto, elevando il suo trono in Campidoglio.

L'unità, per l'Italia, è garanzia d'indipendenza di fronte allo straniero. E perchè essa sia, bisogna che tutto il territorio nazionale sia emancipato dallo straniero. È debole la nazione cui manca il possesso delle frontiere segnate dalla natura; è debole la nazione, lungo le coste della quale si àncorano flotte straniere, continua minaccia alla volontà nazionale.

Ma l'unità non è tutto, e perchè l'indipendenza sia vera e sostanziale, è necessaria la libertà.

Un principe che non ha per sè tutte le forze d'un paese, è forte a metà. Uno Stato il cui popolo non sente la dignità dei proprii diritti, è debole ed esposto alle invasioni di chiunque voglia dominarlo.

Ai bizantini non mancavano le frontiere, bensì la fede che scaturisce, come limpido zampillo, dalla libertà. I francesi nel 1815 avevano al Reno i confini che oggi loro mancano, e furono vinti a Waterloo per sola stanchezza di schiavitù.

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L'unità sarebbe inutile, se non dovesse portarci forza e grandezza.

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Malauguratamente, l'unità della patria è insidiata, così dai micromani che vogliono rinchiudere l'Italia nel suo guscio, appartandola dalle grandi Nazioni, inibendole tutte quelle iniziative operose, dal cui sviluppo dipenderà un giorno il conseguimento dei destini suoi gloriosi, come dagli anarchici e dai clericali, sovversivi entrambi, entrambi negatori della patria.

Io mi domando, non senza un brivido di sconforto, se valeva la pena che di sette Stati ne avessimo fatto uno, per poi discutere se questo Stato così laboriosamente formato, debba o non debba occupare il posto che moralmente e materialmente gli spetta!

I miei avversarî - una ben nudrita coorte, in verità! - mi chiamano megalomane; e l'ingiuria mi giunge al cuore dolce come una lode.

Sol chi nulla fece per la patria negli ultimi sessant'anni del movimento nazionale, chi nulla mai per essa sofferse, chi nulla le sacrificò, può far getto [135] di nobili e sante ambizioni, che dovrebbero essere patrimonio comune ad ogni cuore italiano.

Vigiliamo, dunque: gli uomini di buona volontà, i patrioti sinceri si uniscano e concordi attendano a prevenire i pericoli che minacciano l'unità della patria, mettendo in guardia le plebi contro le vane lusinghe e le grossolane seduzioni, ed avviando l'Italia nostra a quella grandezza senza la quale essa non ha ragione di essere, anzi non può essere.

E noi vogliamo che l'Italia sia!

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