IL TEATRO UNA MUSA SCOMPARSA

CONFERENZA

DI

VINCENZO MORELLO.

[131]

Signore e Signori.

Le conferenze di quest'anno abbracciano, voi sapete, il periodo storico che va dal 1846 al 49: breve periodo, che nella sua temperatura tropicale fa sbocciare insieme tutti i germi sparsi nella storia dell'idea nazionale. - Ma il mio tema m'impone di rifarmi un po' indietro nel tempo, e, poichè del teatro non si è parlato e non sarebbe stato possibile parlare nelle conferenze dell'altr'anno, di studiare tutta la produzione dalla prima metà del secolo.

Non breve cammino - come vedete - e forse non lieto. Non lieto. La comedia, in questi cinquant'anni, non ha freschezza e non ha eleganza, e il dramma ha forse troppe violenze e troppi furori. Non fiorisce la gioia nella società italiana, e non s'accende l'amore sulla scena. Manca la donna. [132] cioè il sorriso, la grazia, la bellezza, l'errore, il peccato; e manca la libertà, cioè la forza d'impulsione e d'espansione di tutti i pensieri e di tutti gli affetti umani. Se non vi è sole nell'aria, passano inavvertite le figure umane sulla lastra fotografica; e se non vi è amore e libertà nella vita sociale passano inavvertite le figure umane sulla scena. - Il dramma, almeno, si rifugiò nella storia, e col calore del sentimento patriottico diede alla morta gente ancora un palpito di vita, un gesto di gloria. Ma la comedia tentò invano di spingere il suo carro nelle vie e nelle piazze, e di agitare la sua maschera nelle fiere e nelle case. Le vie e le piazze erano deserte: le fiere e le case erano mute. Le feste dionisiache erano da un pezzo finite nelle terre d'Italia!

La comedia è un'espressione di vita; e dove questa manca, manca anche quella. Paragonate, di fronte alla miseria nostra, la ricchezza della Francia, nello stesso tempo, nella stessa forma d'arte.

Nessun paese credo possa vantare una più varia e abbondante produzione teatrale, che la Francia nella prima metà del secolo: comedia di carattere comedia di costume; dramma storico o dramma sentimentale. Una nuova società ivi sorgeva, e, sorgendo, amava, lottava, combatteva, gesticolava: un [133] vero semenzaio d'anime, un vero nido di spiriti nuovi che provano il canto e le penne nella primavera del secolo: un vero brulichìo di sostanze embrionali che si sforzavano di fissarsi e determinarsi in un nuovo ordine e in una nuova forma. L'antica società francese era spezzata, se non vinta; la tradizione ricominciava dall'89, se non dal 93: il plebeo, diventato generale sotto Napoleone, costretto a ridiventare rivoluzionario sotto i Borboni, per conquistare sotto Luigi Filippo il potere prima e la ricchezza dopo, e col potere e la ricchezza una fisionomia propria e un proprio atteggiamento, era un tipo maturo per il teatro. E voi vedete, o Signori, attraverso la formazione di questo tipo quanta vis comica e drammatica, e quanta materia d'osservazione e di discussione nella relativa formazione del costume e del gusto. - Ma in Italia! Mai società fu più stremata, mai vita fu più triste, più sconsolata, più tribolata. Dopo il periodo napoleonico, che, malgrado le leve forzate e le spoliazioni, aveva almeno influito, come disse il Foscolo, a ridestare un po' gl'ingegni, ed agguerrir le forze fisiche nella disciplina e nello studio; dopo quel periodo, dunque, la vita italiana fu a un tratto soppressa, per decreto internazionale - del quale fu affidata all'Austria [134] l'esecuzione. Chi pagò le spese della catastrofe napoleonica, in fondo, fu l'Italia. Il movimento di reazione del '15, che con troppa argutezza diplomatica fu detto di restaurazione, non ebbe altro campo di espansione che l'Italia. Da Odoacre in poi, non s'era vista nel nostro paese una più ardita invasione barbarica, di quella che mosse moralmente dal Congresso di Vienna. Tutto il popolo condannato quasi a domicilio coatto, messo sotto sorveglianza, spiato, punzecchiato, insidiato, oppresso. Che fare? Come i cristiani per sfuggire alle persecuzioni imperiali si chiusero nelle catacombe, gli italiani si chiusero nelle sètte. Ora voi sapete, Signori: la comedia ha bisogno, per esplicarsi, di lingua sciolta, di spiriti agili, di costumi aperti, di abitudini amabili; ha bisogno, per muoversi, di quella media temperatura cerebrale e sociale nella quale possa agevolmente fiorire la grazia, il sorriso, l'arguzia, la malizia, la critica: proprio gli elementi e la temperatura assolutamente contrari a quelli in cui si raccoglie e si concentra la vita delle sètte. Ora dite voi se in un paese, in cui i cittadini son costretti di adottare come mezzo di propaganda la cospirazione, in un paese in cui il silenzio è una legge e la reticenza una difesa, in cui lo spionaggio toglie la [135] libertà dei movimenti intellettuali, in un paese in cui la polizia dà l'orario della giornata e le formule del cerimoniale, e il prete la guida delle amicizie, il consiglio delle letture, e perfino il regolamento dei giuochi e delle feste, dite voi se sia possibile che la comedia si levi a guardare, in alto ed in basso, nel cuore o nel costume, nei vizi o nelle leggi, dei privati o del governo. In tali condizioni, la povera Talia non può, al più, che proteggere mestamente le innocue abilità dei tre Ludro, le vuote preziosità della Fiera, le modeste ingenuità dell'Ajo nell'imbarazzo. Non osservazione, non sentimento, non caratteri, non abilità tecnica, e neppure lingua italiana, in simili produzioni. Le idee dei personaggi non vanno al di là del palcoscenico; gli stessi personaggi, parassiti, cavalier serventi, mogli leggere, mariti compiacenti, non derivano nemmeno dall'esperienza dei loro autori, e si muovono in un mondo che nel 1830 non esiste più. E se gli autori, Alberto Nota, il conte Giraud, Augusto Bon, sono a loro volta ricordati, è solo con un intento negativo: per dimostrare, cioè, che Goldoni non ebbe figliuoli nè eredi nella storia dell'arte italiana.

Possiamo dunque passare senza fermarci accanto ai silenzi di questo chiuso mondo della comedia; - e [136] volgerci, invece, a interrogare i grandi fantasmi del teatro eroico, che i nostri poeti civili han richiamato dalle lontananze della storia, consiglieri e aiutatori nella riconquista del paradiso perduto di nostra gente: la coscienza nazionale.

* * *

Primo di questi fantasmi, sulla soglia del secol novo: Cajo Gracco.

Proprio sulla soglia del secolo, nel 1801, Cajo Gracco leva la sua voce possente di tribuno, e chiama quasi a plebiscito il popolo italiano, dalla scena:

Io per supremo

Degli dèi beneficio, in grembo nato

Di questa bella Italia, Italia tutta

Partecipe chiamai della romana

Cittadinanza, e di serva la feci

Libera e prima nazïon del mondo.

Voi, romani, voi sommi incliti figli

Di questa madre, nomerete or voi

L'italïana libertà delitto?

No - rispondono i cittadini.

No: itali siam tutti, un popol solo,

[137]

Una sola famiglia....

.... Italiani

Tutti, o fratelli.

Con questa affermazione, con questa votazione plebiscitaria, la poesia saluta la patria al principio del secolo.

Che cosa è dunque questo Cajo Gracco?

Il Monti aveva già dato al teatro Aristodemo e Galeotto Manfredi - due tragedie di mediocre invenzione e di mediocre struttura, senza caratteri, senza movimento, senza passione, malgrado la prima fosse sonante di liriche declamazioni, rimaste modelli del genere. Col Cajo Gracco egli diede alfine un'opera d'arte organica e forte, animandola di tutto il contenuto politico e morale ch'era più proprio ai suoi sentimenti, e, vorrei dire, più continuo e resistente nella troppo rapida varietà e variabilità dei suoi principî e delle sue opere.

Il Monti era un uomo debole. A ben considerarlo, par che non stia in piedi, che non abbia spina dorsale, e senta sempre bisogno di appoggiarsi a qualche cosa o a qualcuno; specie, se la cosa sia il governo e la persona un potente. Ma, a un tratto, per una strana esaltazione di tutte le sue facoltà morali, per un impetuoso risorgimento di tutte le sue forze poetiche, come se una divina primavera [138] fosse passata sulle cime della sua fantasia e della sua coscienza, egli riescì, a un dato momento della sua vita, a dare unità artistica agli elementi più puri e più belli che aveva sparso nelle varie sue opere, che per una ragione o per l'altra aveva dovuto rinnegare, o scusarne le origini e i motivi. E creò il Cajo Gracco. Il quale, secondo me, rappresenta una grande e solenne protesta: la più grande e solenne protesta che la letteratura del tempo abbia osato contro il giacobinismo, i cui fatti erano scritti a sangue non ancora disseccato nelle vie e nella storia di Francia; e insieme la più solenne e completa visione dell'eroe e dell'uomo politico dell'avvenire, che dovrà governare con la legge e per la legge, coi buoni e non coi tristi, in gloria dei più alti ideali e non delle più basse passioni dell'umanità. - Cajo Gracco era esule. Torna e Roma, quando, console Opimio, il Senato onnipossente opprimendo la libertà romana, crede sia suonata l'ora di risollevare il popolo e il diritto del popolo. - Con quali mezzi? - Fulvio, suo partigiano, consiglia: Con tutti. Ma egli risponde: Con uno solo: con la giustizia e con l'amore. - Fulvio non intende, e fa la sua via; e raccogliendo in una stessa azione i suoi sentimenti, l'odio e l'amore, dà il segno della sommossa, uccidendo [139] Emiliano, marito della sorella di Cajo, della quale è l'amante. Da questo delitto precipita la fortuna di Cajo e della casa dei Gracchi. - Il cattivo genio della tragedia è, come vedete, Fulvio: il giacobino. Nel primo atto, Cornelia lo investe e lo descrive: -

Di libertade

Che parli tu! e con chi? Non hai pudore,

Non hai virtude, e libero ti chiami?

Zelo di libertà, pretesto eterno

D'ogni delitto! Frangere le leggi

Impunemente, seminar per tutto

Il furor delle parti e con atroci

Mille calunnie tormentar qualunque

Non vi somigli....

Ecco l'egregia, la sublime e santa

Libertà dei tuoi pari, e non dei Gracchi.

Libertà di ladroni e d'assassini.

E ch'io non m'inganni nell'interpretazione di questo dramma, me lo dicono le altre opere del Monti. Confrontate, infatti, con quelli che ho citati, i versi seguenti del canto II della Mascheroniana, sui giacobini:

Dal calzato allo scalzo, le fortune

Migrar fûr viste, e libertà divenne

Merce di ladri e furia di tribune.

[140]

E questi altri del canto III:

Tutta allor mareggiò di cittadino

Sangue la Gallia: ed in quel sangue il dito

Tinse il ladro, il pezzente e l'assassino.

E questi altri del canto II della Bassvilliana:

E di sue libertà spietato e baldo

Tuffò le stolte insegne e le man ladre

Nel sangue del suo re fumante e caldo.

La stessa nota, con le stesse parole, quasi direi con lo stesso accento musicale. Quando rimproverato del delitto, Fulvio risponde a Cajo Gracco ch'egli non aveva fatto che eseguire il pensiero di lui, uniformandosi ai suoi precetti, tradurre in atto le sue parole, Cajo risponde indignato:

Fulmine colga,

Sperda quei tristi che per via di sangue

Recando libertà, recan catene.

Ed infame e crudel più che il servaggio

Fan la medesma libertà. Non dire

Empio, non dir che la sentenza è mia!...

Infatti, quella era la sentenza degli Hébert, dei Pétion, degli Isnard, dei deputati della Legislativa e della Convenzione, che dichiaravano utili e necessari i massacri del settembre, legittimi e [141] doverosi gli assassinî quando l'autorità delle leggi può sembrare al popolo qualche volta troppo lenta per garantirne la sicurezza, e legali e naturali le condanne senza prove, perchè basta il sospetto per la distruzione dei cospiratori. - Contro tali sentenze, contro tutta la dottrina contenuta in tali sentenze, il Monti oppone dottrina più nobile e più civile:

E che dunque? Altra non havvi

Via di certa salute e di vendetta

Che la via dei misfatti? Ah! per gli Dei,

Ad Opimio lasciate ed al Senato

Il mestier dei carnefici. Romani,

Leggi e non sangue!

Leggi - e non sangue: ecco la nuova formula e il nuovo comando politico. E contro il sangue, e l'opera già consumata o da consumare, si leva fieramente, protestando; e la protesta affida a un nome che è diventato titolo nobiliare di democrazia; e per quella protesta e quel nome disegna una figura ideale, le cui linee e i contorni e i caratteri il mondo vedrà riprodotti, quarant'anni dopo, in una figura reale, una figura tutta nostra, tutta italiana, nei cui occhi azzurri par che si rifletta la soavità di Gesù e nel cuore eroico palpiti il sentimento di Roma antica. Quando Cajo Gracco ode [142] la voce di un popolano, che, durante la sua arringa, minaccia: Morte ai patrizi - risponde subito: Morte a nessuno! - E così rispose Giuseppe Garibaldi dal balcone della Prefettura al popolo di Napoli che gridava furibondo morte a tanta gente! - Morte a nessuno! - Era, dal Cajo Gracco del poeta, al Garibaldi della storia, la vibrazione della pura coscienza italiana, nata nel diritto, aspirante alla pace e alla libertà, per la via della concordia e della giustizia!

* * *

Se Cajo Gracco è il primo personaggio del nuovo teatro; Ugo Foscolo è la prima persona, l'uomo nuovo della nuova vita italiana del secolo. Monti era ancora il letterato delle Corti: l'ultimo e il più straziato prodotto del mecenatismo di governo. Il mecenatismo aveva spostata la sua base: dal palazzo nella piazza, ed era diventata opinione pubblica, più meno ristretta e più o meno illuminata, ma arbitra ormai del destino degli uomini e della letteratura. Ugo Foscolo fu il primo uomo della pubblica opinione, che, volta a volta, cercò, secondo che i tempi richiedevano e il suo spirito [143] urgeva, di distruggere e di creare, di trasformare o soggiogare. In Monti il letterato scusava l'uomo. In Foscolo, l'uomo dominava il letterato. Strana e complessa natura insieme di uomo e di letterato! Egli par nato dalla violenta fantasia di Byron e dal ribelle sentimento di Alfieri: ha di Byron le tristezze improvvise e le improvvise esaltazioni, l'orgoglio indomabile e il disprezzo invincibile del prossimo; ha di Alfieri gli sdegni e la collera, gli ardori e la fierezza, e soprattutto l'intransigenza assoluta di contro agli stranieri di fuori e di dentro, in fatto di programma nazionale. Figlio di un secolo, che portava in sè tanti germi di malattie sentimentali e di idealità politiche, egli ebbe al più alto grado la febbre di quelle malattie, il furore di quelle idealità. Temperamento profondamente romantico, in una forma di elezione e di eredità classica, egli riprodusse in sè tutti i contrasti, tutte le contraddizioni dell'epoca in cui visse, e della quale fu il rappresentante più angosciato e la vittima più turbolenta. Mai si può dire di un letterato, con maggior verità che di lui: «che fu un milite.» Foscolo fu un milite, nel vero ed alto senso della parola. Dopo la vendita di Venezia all'Austria, odiò Napoleone, malgrado il suo sentimento e il concetto greco della gloria e dell'eroismo [144] lo spingessero ad amarlo. - Il sacrificio dalla patria è compiuto - così comincia la prima lettera di Jacopo Ortis. I miei concittadini son vili - così finisce una delle sue ultime lettere dall'Inghilterra. Aveva sperato in Napoleone; e questi vendeva la sua patria. Aveva sperato nei suoi concittadini, e questi si mostrarono ossequenti al dominatore. Che fare? «Io mi vergogno - scrive in quella stessa lettera - di accrescere ormai il numero degli italiani che da Dante in qua non han saputo altro fare che gridare, gridare!» E negli ultimi tempi di sua vita finì col chiamarsi «l'amico e il discepolo di Don Chisciotte.» Era il fallimento! Egli l'aveva presa sul serio, la vita, proprio come una milizia, ed alfine si vedeva costretto a spezzare le armi stesse che gli erano fornite nel combattimento. Qual forma di attività non aveva tentato? Nell'esercito, nella scuola, nel teatro, nella politica; multiagitante e multisonante come dice Omero del mar della sua patria di origine. Quando a quando, come il soldato che fermandosi a mezza via scuote col calcio del fucile un cespuglio e un volo d'augelli sale cantando nell'aria, nei momenti di riposo egli scuoteva il suo cuore e venivan fuori l'Ode all'amica risanata e i Frammenti delle Grazie. Ma subito dopo ripigliava la via, rientrava nella [145] lotta, più accanito e più disperato di prima. - Da una tale situazione di spirito, da una situazione così tragica, così personalmente tragica, poteva uscire la lirica, non la tragedia propriamente detta. La tragedia era troppo connaturata nell'artista stesso, perchè potesse essere ricercata e ricreata al di fuori. La tragedia poteva servire, come la lirica, ad esprimere lo stato d'animo dell'artista, non mai dei personaggi che questi immaginava per la scena. Il teatro d'Alfieri non crea che un solo personaggio: Alfieri. Voi potete sopprimere o mutare il nome dell'autore di Amleto o di Otello, potete chiamarlo Shakespeare o Bacone: poco importa: Amleto e Otello resteranno sempre le grandi tragedie del pensiero e del sentimento umano: vivranno sempre di vita propria, come dopo la creazione vive il mondo negli spazi. Ma se voi togliete il nome dell'autore, le tragedie d'Alfieri non esistono più: perchè esse sono la parola, la coscienza, la voce, il gesto di un uomo che tenta di influire su altri uomini, non di un artista che tenti di creare fantasmi poetici. E così è delle tragedie di Foscolo, il discepolo di Alfieri. Esse non sono tragedie, ma atteggiamenti tragici; non sono esplicazioni di lotta e di contrasti umani, ma accenni e indicazioni di sentimenti politici. Ajace è tutto [146] chiuso nel suo disdegno. Guelfo della Ricciarda è tutto chiuso nel suo disprezzo. Vi era Moreau in Ajace e Napoleone in Agamennone? Ricerca secondaria. Vi era certo il sentimento italiano umiliato di servire:

A che la gloria delle mie ferite

S'io, la mia patria e i miei guerrier, quand'arsa

Troja pur sia, servirem tutti a un solo? –

dice Ajace. E più, innanzi:

. . . . Agide e i suoi

Abbian tal prova omai che, se ognun trema,

In me la patria e la sua forza vive.

Finchè morendo, rivela tutto l'animo dell'autore espresso nelle lettere che ho sopra citato:

. . . . Ajace, fuggi

Ora più non vedrai nè traditori,

tiranni, nè vili.

L'Ajace è del 1812. La Ricciarda del 1813. Furono tutte e due proibite dal governo imperiale. Qual è il motivo della Ricciarda? Lo stesso dell'Ajace: il disprezzo contro i vili; l'inutilità della lotta, a favore degli estranei. Amor d'Italia? - esclama Guelfo -

[147]

Amor d'Italia? A basso intento è velo

Spesso: e tale oggimai s'è fatta Italia....

.... Ch'io sdegnerei di dominarla, ov'anche

Sterminar potess'io tutti i suoi mille

Vili signori e la più vil sua plebe!

Ugo non carezzava nè i signori, nè la plebe: e ne era rimeritato! Scriveva al Cicognani: «Io avevo poco da lodarmi del governo napoleonico, e il governo assai poco a lodarsi di me - e in ciò le parti erano pari - perchè io nè volli nella Ricciarda partirmi dai miei sensi troppo italiani ed alteramente politici, nè chi governava lasciò che essa si rappresentasse se non mutilata.» - Ciò che, del resto, egli non permise. A Guelfo, che mostrava tanto disprezzo per l'Italia, Averardo risponde, scongiurandolo ad aver fede nel popolo, ad amarlo per la causa santa, a dare spade cittadine alle cittadine mani, e far gl'italiani

Non masnadieri, o partigiani, o sgherri,

Ma guerrieri d'Italia!

Era l'appello alle armi. Come nelle sue lezioni di eloquenza richiama il popolo alle istorie, all'unità di lingua e di costume; così lo chiama nella tragedia alla nazionalizzazione delle armi. Tragedie - ripeto - dell'anima del poeta, non dei suoi personaggi. [148] Ma che importa? In esse vi era semenza d'anima italiana. E quella semenza ha col tempo fruttificato!

* * *

E qui, o Signori, permettetemi una osservazione di ordine generale.

Lungo questa mia conferenza voi mi vedrete intento a ricercare il pensiero animatore di questa o quella tragedia, il sentimento ispiratore di questo o quell'autore; ma difficilmente mi sorprenderete a discutere il carattere poetico di un personaggio, e più difficilmente a descrivervene le bellezze d'arte. Non è mia colpa. La nostra letteratura drammatica è, in questo tempo, un mezzo e non un fine: è un indice dello stato d'animo dei nostri scrittori; non è la figurazione e la rappresentazione di uno stato d'animo dell'umanità. Non solo: ma, come vi dissi innanzi, che la povertà della vita sociale rendeva impossibile la comedia; aggiungo ora che i caratteri speciali del nostro spirito e della nostra fantasia hanno reso sempre difficile nella nostra letteratura la produzione del dramma, di qualsiasi genere. In fondo, o Signori, [149] la nostra letteratura è, essenzialmente, letteratura di riflessione. Noi eravamo un popolo vecchio, quando gli altri cominciavano ad aprirsi una via nella storia. «A noi quindi - dice benissimo il compianto Adolfo Bartoli - quell'infanzia d'intelletto e di cuore che presso le altre genti germaniche e latine fu così larga sorgente di ispirazioni poetiche, in grandissima parte mancò: noi fummo sempre molto congiunti con la storia, e poco con la natura. Per conseguenza lasciammo che leggende, canti epici, satire, fantasie di ogni genere sorgessero e pullulassero dovunque, o restando noi quasi affatto estranei a quel grande movimento, o prendendovi una parte che designa all'evidenza il nostro carattere.» E quale fu questa parte? Fu immensa, e quale soltanto noi potevamo compiere con la nostra matura intelligenza e la nostra superiore esperienza d'arte e di filosofia, di fronte agli altri popoli: ripensare, cioè, ricreare, rifare, in un più ampio contenuto ideale e in una più armonica costruzione formale tutti gli elementi, tutto il materiale che ci veniva pòrto dal lavoro fantastico e sentimentale degli altri popoli. Così dal caos delle visioni traemmo con Dante il poema sacro; dai fabliaux traemmo con Boccaccio la novella d'amore; e dalle canzoni di gesta e dai romanzi d'avventure [150] traemmo più tardi col Bojardo e con l'Ariosto il poema cavalleresco. Solo noi potevamo dare a tutti gli sparsi ed erranti elementi d'arte degli altri popoli d'Europa un organismo, una fusione, una forma definitiva, come solo noi potevamo dare, con la Summa di San Tommaso d'Aquino un organismo, una fusione, una forma quasi direi, ai vari elementi della scolastica. Noi fummo per molto tempo i sovrani dell'intelligenza, e gli altri popoli pareva che vivessero sol per farci l'omaggio e darci il tributo delle loro esperienze sentimentali e dei loro ardimenti fantastici. Ma appunto queste qualità che resero possibile la fioritura del poema sacro, della novella e del poema cavalleresco, dovevano anche rendere impossibile la creazione del teatro. Finchè si trattò di ripensare, di rifare, di riorganizzare, nel campo della tradizione, della storia, della filosofia, nel campo astratto, cioè, noi fummo signori. Ma quando si trattò di osservare, di intendere e comprendere direttamente la natura e la vita, quando si trattò di interrogare, di scrutare, di rivelare i secreti del cuore e della mente dell'uomo, allora più fresche fantasie, più limpidi occhi, più giovani spiriti, più libere coscienze dovevano avere ed ebbero il dominio nell'arte e nella poesia. Io non ho il compito di parlarvi delle origini [151] del dramma. Ma voi sapete, o Signori, che il dramma moderno nacque nella gran combustione della Rinascenza inglese, in quel formidabile periodo in cui esplosero quasi tutte insieme le forze del popolo più ricco e meglio dotato della storia moderna, e quaranta autori drammatici, fra cui Peel, Johnson, Marlow e l'infinito Shakespeare bastarono appena a ritrarre gli odii, gli amori, le follie, tutte le violenti passioni del senso e dell'intelligenza, tutti i sogni onnipossenti della gloria e del potere. - Noi che potevamo fare? Noi non avevamo che miserie da guardare, ricordi da custodire, e qualche speranza da infiorare.... Ma torniamo al dramma storico.

* * *

L'epoca napoleonica si chiude quasi con la Ricciarda. L'epoca nuova si apre con l'Adelchi. Foscolo rappresentava lo squilibrio delle violenze passionali, l'impeto delle ribellioni patriottiche, la tristezza delle illusioni perdute, degli ideali caduti, Manzoni rappresenta la rassegnazione,

Chiniam la fronte al massimo

Fattor....

La Reazione leva intanto il braccio minaccioso!

[152]

* * *

Durante gli ultimi anni della gloria napoleonica un grande e nuovo movimento letterario si era cominciato a disegnare in Europa: un movimento che non solo intendeva a rinnovare il contenuto poetico ed arricchire il materiale artistico, ma anche e soprattutto a rinnovare il contenuto morale. Il Romanticismo ebbe poco da combattere per piantare le sue bandiere cattoliche nella Repubblica delle lettere. Le Lezioni di letteratura drammatica di Augusto Guglielmo Schlegel, e le Lezioni di storia della letteratura moderna del fratello Federigo, nelle quali - specialmente nelle prime - sono dettate le nuove leggi letterarie, portano la data del 1818. Il libro di M.me de Staël sulla Germania, in cui quelle lezioni sono glorificate, porta la data del 1810. La Lettera semiseria di Grisostomo, cioè di Giovanni Berchet, è del 1816. Vi era stato, è vero, Klopstock prima di Schlegel, e Rousseau prima di M.me de Staël; ma il precetto, la regola, il ragionamento critico che serve di fondamento alla scuola, data da quegli anni e da quei libri. Il Cristianesimo si ripigliava alfine la sua rivincita [153] sul Rinascimento. Quel che il Rinasciniento aveva detto del Medio Evo, ora il Romanticismo dice del mondo pagano. Così, l'un dopo l'altro proclamano: Augusto Schlegel, che il «Cristianesimo avendo dato un nuovo indirizzo alla civiltà, è naturale che diventi base d'una nuova letteratura»; e M.me de Staël, «che la religione e la storia nazionale hanno diritto di informare e perfezionare la letteratura nazionale»; e Châteaubriand, memore della proposizione contraria di Boileau, «che convenga provare il Cristianesimo non essere un sistema, barbaro, la religione cristiana essere invece la religione più poetica, più umana, più favorevole alla libertà e alle arti»; e Victor Hugo: «Il Cristianesimo conduce alla verità»: e Manzoni, infine, a dichiarare che, nella «morale cristiana, essendo tutta la verità, egli nutriva sentimenti molto più irriverenti degli altri romantici verso i classici, perchè la parte morale dei classici e essenzialmente falsa, mancando nei loro scritti quella prima ed ultima ragione, ch'è stata una grande sciagura non aver riconosciuta.» - Con queste salmodie fu portata al sepolcro, per la seconda volta, l'eterna giovinezza dell'anima argiva: e, come disse Arrigo Heine, dal sangue di Cristo nacque il nuovo fior di passione del Romanticismo. Permettetemi [154] che aggiunga: anche dalla linfa di Rousseau.

Naturalmente, io non posso del Romanticismo descrivervi tutte le ramificazioni, le manifestazioni e le trasformazioni; ma devo dirvi solo quel tanto che mi è necessario per poter comprendere e spiegare la tragedia che n'è l'espressione più completa e più concreta: l'Adelchi. Il Romanticismo si propose, come accennai, due scopi: arricchire, in genere il contenuto poetico di tutto il materiale che la storia e la mitologia cristiana potevano offrire; e, cosmopolizzare, contemporaneamente, col libero scambio delle traduzioni e dei soggetti, la produzione dei varî paesi; e rifare, quindi, nel nome della religione, la coscienza degli uomini, deviata dal Rinascimento e corrotta dal Volterrianismo. - In questo senso, il solo vero, grande, convinto romantico, per forza di sentimento e di ragione, è Alessandro Manzoni: il cristiano più puro e sereno, l'artista più sincero e più casto, l'uomo più semplice e pio che la letteratura moderna possa vantare. Vi era, invero, nella sua fantasia e nella sua coscienza qualcosa dell'azzurro dei miti cieli di Galilea. Ripensata da lui, la vita umana quasi si purificava. Passando per il suo spirito, la religione diventava poesia. Ricercata dal suo sguardo, [155] pareva che la stessa storia si vergognasse delle sue colpe, e l'anima umana delle sue passioni. «In ogni argomento scoprire ed esprimere il vero storico e il vero morale, ecco quel che bisogna proporsi» egli scriveva. «E questo sistema, non solo in alcune parti, ma nel suo complesso, mi sembra avere una tendenza religiosa.» - La tendenza religiosa nel sistema, nel metodo, è ben tutto quello che può dare un'anima di religioso e di poeta!

Io non vi parlerò delle trasformazioni formali che il Manzoni portò nella tragedia. Se è vero che prima ancora della Prefazione del Cromwell egli bandì la guerra alle due unità, ed è suo merito, come dice il Carducci, di averne esposte le ragioni nella celebre lettera al signor Chauvet, mirabile di ragionamento e di stile critico; è anche vero che prima di lui, con l'esempio e col ragionamento, Volfango Goethe, un classico, aveva dato a quelle due unità il colpo fatale, col pugno di ferro del suo Goetz di Berlichingen, cinquant'anni prima! Chi ricorda il discorso ditirambico che il giovine Goethe pronunziò in gloria di Shakespeare, a Francoforte, nelle feste da lui organizzate, al ritorno di Leipzig, in onore del grande inglese? In quel discorso sono le seguenti parole, che troppo spesso sono dimenticate: «Letto Shakespeare, io [156] ebbi come il colpo di grazia, e rinunziai alla tragedia regolare. L'unità di luogo, mi sembrò triste come una prigione; le unità d'azione e di tempo, mi apparvero come pesanti catene alla nostra immaginazione. Io saltai allora nello spazio libero, e solo allora sentii che avevo mani e piedi. E ora ch'io vedo quanto male hanno fatto le regole dei maestri, e quante anime libere sono ancora curve sotto il loro giogo, il mio cuore scoppierebbe s'io non dichiarassi loro la guerra e non cercassi ogni giorno il modo di distruggerle. » - La guerra, dunque, alle regole venne indetta da un classico. Ed è bene constatarlo. Come è bene constatare che tre altri italiani erano insorti prima: il Metastasio nella dedicatoria alle sue prime poesie, fra le quali era il primo suo dramma Giustino, contro l'unità di luogo; il Goldoni, nella dedicatoria ai Malcontenti, contro l'unità di luogo e di tempo: e il Baretti nella polemica col Voltaire, contro tutte e tre le unità insieme: di tempo, di luogo e di spazio.

Ma torniamo all'Adelchi.

[157]

* * *

Adelchi è nel mondo degli eroi, quel che è il Manzoni nel mondo dei letterati; ed è nel campo dell'arte, quel ch'è il Manzoni nel campo della vita. Meglio: sono tutti e due la stessa persona. Mai, credo, un autore ha dato ad un personaggio della sua fantasia un'impronta così profonda, così precisa, come di se stesso l'ha data il Manzoni nell'Adelchi. Il discorso sulla storia della gente longobardica in Italia è forse una scusa per allontanare il pensiero del lettore - o del pubblico - dal vero personaggio della tragedia e per impedire di constatarne l'identità; perchè mai personaggio fu meno storico dell'Adelchi del Manzoni, mai fantasma d'arte fu meno rispondente allo spirito, al costume, alle abitudini del tempo donde ha origine, quanto questo che il Manzoni ha scelto per rivelarci la filosofia del suo pensiero, la morale della sua filosofia.

Voi ricordate il fondo del dramma: la lotta fra Carlo re dei Franchi, chiamato in sua difesa da papa Adriano, contro Desiderio re dei Longobardi, il quale [158] non voleva cedere al papa le terre della Chiesa. Adelchi, figlio di Desiderio, non vorrebbe la guerra, e vi si sottomette solo per obbedienza al padre; ma vorrebbe invece che il padre restituisse alla Chiesa le terre e facesse la pace col pontefice. Ma Desiderio insiste, e, sorpreso alle spalle, è sconfitto - mentre la figlia Ermengarda, moglie ripudiata di Carlo, muore nel monastero di San Salvatore in Brescia. - Il Manzoni ha voluto fare tragedia storica nel più stretto senso della parola. Ma egli stesso si affretta ad avvertire: «Il carattere di un personaggio, qual è presentato in questa tragedia, manca affatto di fondamenti storici: i disegni d'Adelchi, i suoi giudizi sugli avvenimenti, le sue inclinazioni, tutto il carattere insomma è inventato di pianta.» - Inventato, o meglio ritratto da un originale moderno. Partito così alla ricerca della realtà storica nel dramma, egli è tornato con una realtà psicologica: quella sua, di autore, non quella del personaggio. È vero, sì, che nella Prefazione del Carmagnola, parlando dell'ufficio dei cori, egli dice che, «rendendoli indipendenti dall'azione e non applicati ai personaggi,» ma facendoli quali organi del sentimento del poeta, si ottiene il vantaggio «di diminuire al poeta la tentazione d'introdurli nell'azione e di prestare ai [159] personaggi i suoi propri sentimenti» - ma è anche vero che la Prefazione del Carmagnola (1816-20) è anteriore all'Adelchi (1820-22). -

Questo Adelchi, dunque, è la tragedia della rassegnazione: la tragedia dell'inerzia: una contraddizione nei termini, come vedete. Non vi è, in essa, lotta di nessun genere; e non vi è affermazione di nessuna forza. Il teatro di Corneille è la glorificazione della volontà. Il Cid, dopo di avere vendicato il suo onore e suo padre, dice: Se dovessi, tornerei ancora a farlo. È il trionfo della volontà umana, che si fa la vita e le leggi della vita; così come la tragedia antica era il trionfo di una volontà superiore, contro la volontà umana, che vi si opponeva o tentava di opporvisi. - In Adelchi è soppressa la lotta, è soppressa la volontà, è soppresso ogni elemento di forza e di contrasto. Chiniam la fronte al massimo - Fattor - ecco la morale del personaggio e la morale della tragedia. Adelchi è il tipo dell'obbedienza passiva, in tutte le forme; e anche del pessimismo cristiano. Il papa vuol le terre? Perchè non dargliele? - I Franchi scendono in aiuto del papa? Perchè combatterli? - Egli consiglierebbe di lasciarli passare. Ma, poichè il padre impone il contrario, si sottomette al padre:

[160]

.... E tu mi chiedi

Ciò ch'io farò? Più non son io che un brando

Nella tua mano. Ecco il legato: il mio

Dover sia scritto nella tua risposta.

I Franchi vincono: la gloria dei Longobardi rovina: il padre perde il regno, ch'è pure il suo. Che importa? O, che farci? - Bisogna rassegnarsi:

.... Ti fu tolto un regno.

Deh, nol pianger, mel credi!

A che piangere del resto? Tutto passa a questo mondo. Anche il vincitore passerà. Quegli è un uom che morrà! - Impotente verso gli altri, impotente verso se stesso. Dopo la disfatta, mentre tutti i suoi vassalli lo tradiscono, e le città cadono una a una nelle mani del nemico, egli, angosciato, scoraggiato, disfatto, pensa di uccidersi. Ma da buon cristiano, corregge subito il suo pensiero. La religione impedisce il suicidio. La Chiesa non concede tomba al suicida. L'uomo non è padrone della vita che Dio gli ha data. - La tragedia classica aveva il suicidio in onore. Quando non poteva più nulla contro gli altri, il personaggio della tragedia classica diventava eroe contro se stesso. La sua vita gli apparteneva e ne disponeva. Le tragedie di Alfieri sono piene di suicidî. Carlo, [161] Isabella, Emone, Saul, Agide, Agesistrato, Mirra, sono suicidî. Nella stessa situazione di Adelchi, Antonio, rivolto ad Augusto, minaccia:

Qual sia l'eroe di noi, morte tel dica!

Adelchi, invece, inorridisce al solo pensiero:

E affrontar Dio potresti, e dirgli: io vengo

Senza aspettar che tu mi chiami?

Perchè, poi, diventar ribelle al voler di Dio? Per un affetto terreno? Ma la vita, la vita vera, è quella di là: Gesù disse: Il mio regno non è di questo mondo. Questo mondo non è che uno esperimento - questa vita non è che un sentiero di passaggio. E gli antichi cristiani chiamarono appunto dies natalis il giorno della morte! -

Io non nego valore e bellezza a tale dottrina, e alla coscienza di Adelchi che vi si uniforma. Il disprezzo delle cose terrene; la convinzione che il mondo non meriti la pena di esser tenuto in conto: il rifugio dello spirito in una speranza ideale: il disdegno trascendentale per tutte le vanità: la dottrina insomma della liberazione dell'anima nella fede, è una dottrina senza dubbio venerabile. Ma nego che possa diventare sostrato, elemento, fondamento di tragedia; se per tragedia si debba intendere [162] ancora lotta di forze e di passioni. E nego anche possa diventare soltanto elemento e fondamento di educazione civile. - «Il Cristianesimo - dice il Renan nella Vita di Gesù - ha molto contribuito in questo senso a indebolire il sentimento dei doveri del cittadino, e a dare il mondo in balìa dei fatti compiuti.»

L'Adelchi porta la data di tristi anni: 1820-22; la data, cioè, della più feroce reazione che sia mai imperversata sull'Italia.

Mentre il Manzoni componeva questa tragedia e studiava le sorti del regno dei Longobardi e narrava i tristi casi di Desiderio e di Adelchi, Ferdinando I e il principe ereditario, suo figlio, componevano e rappresentavano, a spese del popolo napoletano, una lor triste comedia. Invitato a Lubiana dopo i moti del 21, Ferdinando I lasciò al figlio la Reggenza, con una lettera piena di nobili sensi e di severi propositi, nella quale, dopo di aver dichiarato che andava a difendere, secondo richiedeva la coscienza e l'onore, i fatti del passato luglio, lo esortava ad agire, nella sua assenza, secondo appunto i dettami di quella coscienza e di quell'onore imponevano. Voi sapete il resto: il tradimento di Lubiana: l'esercito napoletano disperso distrutto: il Parlamento e la Costituzione [163] sospesi: i patrioti sbaragliati: il re, tenuto alla reggia sotto la scorta dell'esercito austriaco. Complice il Reggente: colui, cioè, che dal padre aveva avuto il sacro deposito della fede giurata, dei patti accettati! - Ah, Signori, se Adelchi avesse avuto meno rassegnazione! Se Francesco di Borbone fosse stato meno obbediente al padre - al traditore di Lubiana! - Io non posso pensare a queste due cose, senza sentir freddo al cervello!

* * *

La reazione del 21 spazzò il focolare domestico del patriottismo italiano, di tutti i poeti, gli scrittori, gli artisti, i pensatori, i cospiratori, che la polizia aveva in sospetto; e si accanì specialmente contro i liberali romantici, che, associandosi alla plebe, due imperatori e il re di Prussia non si vergognarono di infamare, con un manifesto che li qualificava «malfattori e violatori di ogni legge divina ed umana,» Salvo il Manzoni, tutti i romantici furono protagonisti: Il Cenacolo del Conciliatore fu sbandato: l'Arconati, il Bossi, il Pecchio, il Pisani, il Vismara, il Mantovani, il De Meester, salvatisi in tempo, condannati in contumacia [164] alla forca; Gonfalonieri, Andryane, condannati a vita; Maroncelli a 20 anni; Pellico a 15. E non parlo degli impiccati in effigie! Le vie e le campagne - come narra un contemporaneo - piene di fuggiaschi, le galere e gli ergastoli pieni di uomini illustri per natali e per ingegno, mescolati coi ladri e gli assassini. Santo Stefano, Pantelleria, Finestrelle, Rubiera, i Piombi, lo Spielberg, pieni tutti della giovinezza e dell'anima del popolo italiano. Nello Spielberg, accanto al Maroncelli, Silvio Pellico - socraticamente sereno fra i dolori e i tormenti, di contro ai giudici ingiusti e agli aggressori crudeli!

Silvio Pellico scontava nello Spielberg il gran delitto commesso da Paolo nella Francesca da Rimini, di promettere all'Italia il suo braccio nel momento del pericolo:

Per te, per te, che cittadini hai prodi,

Italia mia, combatterò se oltraggio

Ti moverà l'invidia....

Quanti fremiti suscitarono questi versi! quanti cuori incitarono, quanta fantasia incoraggiarono all'azione! Per questi versi, più che per altro, la Francesca divenne la tragedia popolare per eccellenza. Come tragedia, è mediocre; e non a torto il [165] Foscolo consigliò amicamente al Pellico, quando gliela mandò a leggere, di lanciare all'inferno i personaggi di Dante. Ma vi era qualche cosa, tuttavia, in quella tragedia, che la faceva cara al pubblico: un senso di tristezza e di malinconia, che rispondeva simpaticamente allo stato di quegli animi contristati nella disperazione: una irresistibile tentazione di pianto che scendeva fino al profondo di quei cuori affaticati, e quasi dava un sollievo commovendoli. E poi, vi era l'invocazione all'Italia, che gli attori recitavano con fierezza di cittadini, con impeto di eroi! - Noi non dobbiamo dimenticare gli attori, in questo periodo di tempo. Essi furono più che i cooperatori, i motori delle opere stesse degli autori - che molte volte nascevano morte - e che essi vivificavano. Diceva l'Alfieri: «Non vi saranno attori in Italia, finchè non vi sarà pubblico atto a formarli.» Ma bisogna render giustizia agli attori, e, contro l'opinione del grande Astigiano, convenire che sono essi, invece, che hanno contribuito, se non pure a formare il pubblico, almeno a svegliare e tener desta nel pubblico la fiamma dell'entusiasmo, a dare il tono, l'accento, la linea, il colore dell'espressione alla passione patriottica. La forza dell'attore si consuma, pur troppo, nella stessa azione. La voce che [166] nella Francesca salutava il sole d'Italia e agitava la polve degli eroi; il gesto che nel Procida sollevava ad altezze epiche il verso contro il Franco invasore: Ripassi l'alpe e tornerà fratello - non rimangono suggellati in nessun libro, ne scolpiti in nessun marmo. Ma rimanevano bensì nel cuore e nella fantasia dei contemporanei, guida, ricordo, ammonimento, consiglio: suggestione d'idee e di sentimenti invincibile! Come tante altre cose ormai, noi chiamiamo retorica rappresentativa quella dei Modena, dei Salvini, della Ristori; e forse non ci rendiamo abbastanza conto dell'efficacia di certe intonazioni vocali che pareva venissero dalle profonde lontananze della storia; forse non ci rendiamo più conto dell'efficacia di certi gesti, che nella loro ampiezza eroica e sacerdotale pareva che raccogliessero tanto movimento di passione e di vita, per il passato e per l'avvenire. Certo, quegli attori, grandi e piccoli, comunicavano, davano al loro pubblico la formula ritmica, se così posso esprimermi, del pensiero patriottico; e quando, la piena degli affetti vincendoli, e l'impulso dell'anima trascinandoli, dimenticavano o fingevano d'ignorare il comando della polizia e della censura, e recitavano nella lezione originale il verso proibito, e rimettevano a posto la parola cancellata, e quando questo [167] non bastava, agitavano un nastro, un fiore, un fazzoletto dai colori nazionali; in grazia loro, il popolo eccitato si levava, con grida di gioia, in dimostrazioni di entusiasmo. Molti di quelli attori passavano la notte, dal palcoscenico sul tavolaccio della polizia; molti finivano con arruolarsi volontari, scendevano in piazza con gli altri cittadini nel momento del pericolo. Perchè dimenticarli? L'arte drammatica fu in quei tempi il bel gesto del patriottismo italiano. Salutatela anche voi, passando, o Signori, con un bel gesto di riconoscenza!

* * *

Nella furia della repressione o della soppressione, come andarono a Milano distrutti gli ultimi residui della libertà dei cittadini, andarono anche distrutti molti manoscritti degli scrittori.

E così fu perduta anche una tragedia di Giovanni Berchet, la Rosmunda, che, nella fretta, per paura di una imminente persecuzione, la famiglia diede alle fiamme, assieme con le carte e la corrispondenza privata, che poteva compromettere gli amici. Ma nè supplizi, nè torture, nè soppressione [168] di poeti e di poesie, arrestano il cammino dell'idea, spengono la fiamma del sentimento nazionale. Alere flammam - era il motto dell'emblema scelto dal Berchet, per significare la costanza della propaganda patriottica. L'emblema consisteva in un'antica lucerna accesa, in cui una mano misteriosa versa l'alimento:

O man che scrisse Arnaldo

O petto di virtude albergo saldo,

Chi a' miei baci vi porge? -

chiedeva al vecchio il nuovo poeta di nostra gente.

Quella che nel periodo più scuro della reazione, nel periodo più duro del dolore, dal 28 al 48, versò tanto alimento alla fiamma del sentimento nazionale, fu la mano di Giambattista Niccolini.

* * *

Il teatro di Giambattista Niccolini non è ormai che una memoria letteraria; ma come tutte le memorie, esso racchiude la parte più viva delle nostre speranze, la parte più bella ed ardente delle nostre illusioni. Egli è il più grande fra gli scrittori di drammi storici che son fioriti nel suo tempo. Ogni [169] letterato italiano cercava allora un nome alla storia, un'occasione a quel nome per mettersi in comunicazione col pubblico e fare sventolare sulla punta dell'endecasillabo la bandiera tricolore. Chi ricorda oggi più tutti i Manfredi, i Masaniello, i Fornaretti, i Farinata, i Lorenzino, i Sampiero di Bottelica, i Vitige, le Leghe Lombarde che hanno occupato il nostro palcoscenico? Chi ricorda i nomi dei loro autori: i Corelli, i Sabbatini, i Turotti, i Giotti? Il nome di Carlo Marenco sopravvive in grazia delle lagrime che la Marchionni seppe strappare ai nostri padri nella Pia de' Tolomei; e il Revere e il Brofferio e il Dall'Ongaro rimangono nella nostra memoria, per altre cose che non per i loro drammi storici. - L'unico che sopravviva della scuola e della schiera è Giambattista Niccolini. Certo, nessuna delle sue tragedie ha l'ambizione di creare un nuovo cielo di fantasmi poetici: ma tutte hanno la gloria di aver contribuito a creare un cielo ben più nobile e più sacro: quello della coscienza nazionale. - Dell'Arnaldo il poeta stesso scriveva: Se non ho scritto una buona tragedia, credo di aver fatto almeno un'opera coraggiosa. E di questo l'Italia allora aveva bisogno. Così il Guerrazzi scriveva di aver voluto combattere una battaglia, più che scrivere un [170] libro, con l'Assedio di Firenze. Così il Berchet scriveva «di aver fatto sacrifizio della pura intenzione estetica ad un'altra intenzione: di aver fatto sacrifizio dei doveri di poeta ai doveri di cittadino.» - E non è il più lieve sacrificio, che, dopo la pace e la libertà perduta, questi fieri italiani abbiano fatto alla patria, e di cui dovremmo almeno avere la creanza di mostrarci loro grati! - So bene anch'io: il Niccolini, nei suoi personaggi, non disegna una fisionomia, ma abbozza appena dei contorni umani; non costruisce caratteri, ma sviluppa soltanto idee astratte, non crea anime, ma fa lezioni di storia. Che importa? - «Io vi esorto alle istorie - aveva detto agli italiani Ugo Foscolo - perchè niun popolo più di voi può mostrare nè più calamità da compiangere, ne più errori da evitare, ne più virtù che vi facciano rispettare, ne più grandi anime degne di essere liberate dall'oblivione.» - E il Niccolini si assunse proprio questa missione: di mostrar gli errori, di far rispettare le virtù, di liberar dall'oblivione le grandi anime della storia italiana. A teatro, egli conveniva il popolo, quasi a comizio. Così, il Foscarini. nel quale erano denunziate le iniquità dell'inquisizione di Stato, fu ripetuto, dal febbraio 1827 in poi, non meno di 200 volte. Il Giovanni da Procida, [171] rappresentato nel 1830, suscitò tali e tanti entusiasmi, da impensierir gli ambasciatori d'Austria e di Francia, e costringerli a chiedere al governo di impedirne le recite: ciò che naturalmente non stentarono molto a ottenere. Il Ludovico Sforza, scritto nel 34 e proibito nel teatro e nella stampa, fu ripreso col Procida nel 47, dando luogo, ogni sera, a tali dimostrazioni, che ogni recita fu chiamata una festa civile. E intanto l'Arnaldo, sfuggendo a tutte le vigilanze della polizia e della censura, correva le terre d'Italia: correva di nascosto, travestito, sotto una copertina che portava un altro titolo, battendo alle porte delle case e al cuore dei cittadini, ricordando, ammonendo, istigando, incoraggiando. Che cosa era Arnaldo? Era il libero pensiero che mostrava all'Italia la via del Campidoglio; era la libera protesta contro lo straniero invadente e il Papato opprimente: era la sintesi, rappresentata in un sol uomo, o sia pure in un sol nome, di una lotta che aveva affaticato per secoli l'Italia, e finalmente chiedeva con la palma del martirio, la corona del trionfo. Tutti gli elementi della gran lotta sono in movimento in questo dramma polemico, che contiene in se, scena per scena, la tesi e l'antitesi, l'esposizione e la confutazione, l'accusa [172] e la condanna: di fronte al sacerdote, il vangelo; di fronte al clero, il popolo; di fronte al vescovo, Iddio; di fronte al Papa britanno e all'Imperatore tedesco, l'infinita tristezza della campagna romana, dove un idealista lacero e scalzo, aspettando la morte, gitta fra le crete malefiche parole divine! - Il Niccolini raccolse nell'Arnaldo tutta la tradizione della coscienza civile italiana, tutta l'essenza dell'idea classica che animò la mente e mosse l'arte di Dante, di Machiavelli, d'Alfieri; e, passando sopra al romanticismo di Manzoni, e al neocattolicismo di Gioberti e di Rosmini, senza chiedere, come questi, accomodamenti, senza tentare, come questi, compromessi tra principi e papi, proclamò invincibile il dissidio, inevitabile la lotta, irreconciliabili i termini del problema e gli interessi delle parti combattenti. Parve, un momento, che i fatti gli dovessero dar torto, quando, tre anni dopo la protesta d'Arnaldo, un nuovo papa, più incauto forse che abile, distese, fra la commozione generale, sul tempestoso orizzonte d'Italia l'arcobaleno d'un saluto d'amore, di una promessa di pace. Ma la benedizione dei croati, subito dopo, e la fuga e il proclama di Gaeta e il ritorno a Roma su tutte le baionette straniere, e le paure e la reazione susseguenti, non tardarono [173] a dimostrare sempre opportuna l'indignazione del poeta ghibellino, sempre valida l'intimazione fatta da Arnaldo ad Adriano, nell'atto III, in Vaticano:

Sei pontefice, o re? L'ultimo nome

Mai non si udiva in Roma; e se di Cristo

Il vicario tu sei, saper dovresti

Che sol di spine fu la sua corona.

Con l'Arnaldo si chiude il ciclo della tragedia classica. E si chiude, per l'opera e per l'autore, degnamente; ond'è che a ragione l'Italia onorò il Niccolini come i Greci onorarono i suoi poeti nazionali: e dal Foscolo che, giovane, lo chiamò giovane di santi costumi, al Carducci che, vecchio, lo chiamò sacro veglio, tutti s'inchinarono a lui, come nella comedia di Aristofane si inchina il coro al passaggio di Eschilo che dai regni di Plutone la patria richiama tra i vivi in un momento di pubblico pericolo.

Alzate or tutti voi

Le sacre faci ardenti.

Lo scortate, onorandolo co' suoi

Carmi, coi suoi concenti. –

[174]

* * *

E qui mi fermo.

L'arte, o Signori, fece il suo dovere verso la patria. Nei momenti tristi, la confortò coi ricordi; nei momenti di abbandono, la incitò coi rimproveri; nei momenti di lotta, la servì con le opere. L'Italia politica fu una creazione letteraria. Non siamo dunque tanto difficili a giudicare l'arte della prima metà del secolo! Di altro che di belle imagini e puri profili e armoniose strofe; di altro, di altro ell'era occupata, che di se stessa! La fantasia batteva dolorosamente le ali tra i ruderi della storia e i ferri delle prigioni; la parola aveva singulti, esclamazioni, vibrazioni d'anima in pena. Il teatro aveva l'aspetto di un Foro; e sui rostri del palcoscenico, ogni autore era un oratore in difesa della causa nazionale. Dietro le scene, intanto, si preparava qualcosa di più che la catastrofe di un gruppo di personaggi ideali: si preparava, e si sforzava a precipitare, la catastrofe del gran dramma secolare del popolo italiano! Che importa la forma? In certi tempi, la letteratura è azione. La miglior opera d'arte è nella [175] creazione di un fatto; e il massimo successo dell'artista è nel trionfo di quel fatto ch'egli è concorso a creare od a render possibile.

Quali sono i titoli dei drammi nella prima metà del secolo? Potete pure dimenticarli, o Signori, senza per questo recare offesa agli autori alla letteratura. La gran produzione del nostro teatro nazionale è una, e si chiama il Quarantotto: - protagonista, l'Italia, che dopo tanti errori e tante cadute, riconquista l'unità del suo spirito, e afferma contro tutti i suoi oppressori, contemporaneamente, la sua volontà e la sua personalità. - L'arte donde quella produzione è derivata, oggi non esiste più: si è consumata nel fuoco stesso che l'ha prodotta. Ma le ceneri restano sacre. Esse conservano ancora, e conserveranno a lungo' nell'avvenire, il calore del cuore e della mente della grande generazione che ridiede all'Italia una vita, agli Italiani una patria!

[177]

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