LE BELLE ARTI DALL'HAYEZ AI FRATELLI INDUNO

CONFERENZA

DI

UGO OJETTI.

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Signore e signori,

Nella critica dell'arte odierna è di moda il pessimismo, anche perchè è facile fare a meno di conoscere quel che si disprezza. Non è più una quistione di temperamento, d'umor nero ed arcigno o d'indole entusiastica e presto fanatica; è addirittura una quistione di metodo logico. Oggi le lodi dei critici non sono che rari segni bianchi sopra una tavola nera. Io penso invece che sia più sincero e, al pubblico, più utile, delinear le proprie opinioni in nero sopra una pagina bianca. Anche nelle arti belle e anche in Italia la seconda metà del secolo che ora si chiude è gloriosa, quanto nei fatti della politica. Forse da quattrocento anni di qua dalle Alpi l'inno all'uomo - nella realtà e nel sogno, nel presente e nella speranza - non era stato innalzato con così franco volo, non aveva fatto [180] fremere i cieli con sì ampie penne, quanto ora. Forse da quattrocento anni l'uomo non ha amato la vita, la sana nobile laboriosa vita della perfettibilità, quanto ora. Forse da quattrocento anni l'arte non è stata così sincera, l'anima così presso alla superficie su dal profondo vorticoso mare delle apparenze.

Certo, se mai nella storia dell'arte nostra e più largamente dell'estetica nostra è stato tempo in cui ogni arte convenzionale e gelidamente formale, ogni arte, secondo il valor volgare della parola, retorica sia stata ripugnante al gusto diffuso, è questo in cui noi abbiamo la ventura di vivere. Ho detto ripugnante ma non incomprensibile. Quasi cinquant'anni di positivismo e di illuminato determinismo dànno ormai alle menti moderne la snellezza della versatilità, l'oggettività d'esame necessaria a veder con curioso e sereno studio i gesti e le parole di coscienze estetiche per fortuna dissimili dalle nostre, a comprenderle, a giudicarle, direi quasi a gustarle senza fastidio, specialmente quando nel confronto noi possiamo dedurre a nostro vantaggio un progresso solare, e possiamo concedere al nostro orgoglio e al nostro presente ottimismo una qualche soddisfazione.

Corrado Ricci che due anni fa con la sua agile [181] cultura e col suo affascinante garbo di dicitore vi intrattenne su le arti belle nei primi venticinque anni del secolo, vi condusse fino agli inizii di quella pittura che per il suo procedere parallelo alle letteratura fu detta romantica.

Quale era il gusto del pubblico verso il 1825? Quell'epoca, direbbe oggi Gabriele Tarde, era artisticamente un'epoca non di creazione ma di moda. Fede ed amore in altro che non fosse la materia e la material forma dell'opera erano cosa vana. L'immaginazione bastava a dare il tema, anche una semplice immaginazione illustrativa, suddita umile della letteratura - fosse questa letteratura storia o poesia. L'estetica winckelmaniana e le enfasi su l'Apollo soddisfacevano ancora le anime, e le maiuscole platoniche degli aggettivi Bello e Buono parevano un mirabile ornamento ad ogni orazione accademica. «I lavori più nobili di coloro che operarono in questa classica terra,» per dirla con lo stile d'allora, derivano ancora nel fatto dal David, nella teoria dal Lessing e ancora si credeva con lo Schlegel che la tragedia antica non fosse stata che della scultura. La Teoria del Bello di Francesco Ficker tradotta in italiano può esser considerata come il riassunto di quello che predicavano pittori e scultori e architetti i quali, al cospetto [182] di Dio e dei sovrani e dei colleghi, erano fecondi più che facondi oratori. «Il bello, in arte, è la rappresentazione di un'idea sotto forma sensibile conveniente, per via della quale si risvegli l'armonico esercizio delle facoltà dell'anima»: questa è la definizione precisa dove quel conveniente e quell'armonico annebbiano e gelano ogni speranza d'una sincerità anche prudente. Non il vero e non l'emozione per simpatia gli artisti si propongono, ma il nuvoloso metafisico prototipo od archetipo il quale era, proprio secondo le parole del Ficker, «un oggetto di somma perfezione pensato per mezzo delle idee e concreato o reso percettibile ai sensi con la fantasia.» Parole che oggi in cui la nozione della relatività e della mutabilità del bello è penetrata anche nella mente della folla, sembrano e sono incomprensibili, se non ingenue. Victor Cousin poneva a base d'un suo discorso sul bello le frasi di Diotima a Socrate nel Convito: «Bellezza eterna non generata e non caduca, scevra d'aumento e di diminuzione, che non è bella in una parte e brutta in un'altra, bella solo in un tempo, in un luogo, in un rapporto, bella per gli uni, brutta per gli altri, bellezza disciolta da ogni forma sensibile, da mani, da viso, da corpo, che non è nemmeno il tal pensiero o la tale scienza particolare, [183] che non risiede in alcun essere diverso da sè stessa, come in un animale, nella terra, nel cielo in altra cosa, che è assolutamente identica e invariabile per sè medesima, di cui tutte le altre bellezze partecipano, in maniera però che il loro apparire e disparire non recano a lei nè diminuzione nè accrescimento nè il più leggero mutamento.»

Nè questa che noi cultori dell'estetica psicologica potremmo chiamare teologia del bello, accennava a svanire verso le nuvole donde era scesa. Era tenace come una religione ed assiepata da intrichi di pregiudizî. Questo cosiddetto processo ideale che valeva mutilazione nella vita, falsità nella produzione, aveva i suoi fanatici e i suoi pontefici e, nelle Accademie, le sue basiliche. Nel 1834 ancora il professor Tommaso Minardi, cavaliere di più ordini, presidente e cattedratico di pittura nell'insigne e pontificia Accademia romana di San Luca, rappresentante onoratissimo del più puro purismo e del più pietoso pietismo overbeckiano, ripeteva in un solenne discorso quella esatta definizione del bello ideale con tanta fede, che in una copia che io posseggo, ritrovo di suo pugno questa solenne dedica a un amico: «Tu che comprendi la ragion delle cose, leggi e di' a me, Tommaso Minardi, se [184] imbroccai il Vero.» E il vero naturalmente ha il V maiuscolo. Ancora, nel 1842 Alessandro Paravia, professore di eloquenza alla regia Università di Torino, lodava gli artisti «i quali altro non fanno che riprodurre quanto di più vago e magnifico a lor si mostra.... Se ben, a che dico io, il riproducono? Meglio era dire il migliorano.» Ancora, nel 1857 Niccolò Tommasèo stampando qui a Firenze l'opuscoletto su la Bellezza e civiltà o delle arti del bello sensibile diceva che «il bello è ordine, è Dio, e l'ideale non è accozzo di belle forme in una, come si narra abbia fatto Zeusi nel suo famoso quadro; l'ideale è un'idea colta attraverso le cose.» E nello stesso anno Pietro Selvatico credeva necessario lungamente dissertare su la Opportunità di trattare in pittura anche soggetti tolti dalla vita contemporanea; sebbene il Tommasèo e il Selvatico ormai chiedessero al loro Bello Ideale la potenza di commuovere, riducendo così finalmente a teoria quella nostra pittura romantica che già declinava, anzi già - come vedremo - era vinta.

Gli scrittori d'estetica, lo so, arrivano sempre in ritardo paragonati agli artisti creatori, e non fanno che dedurre dalle premesse che questi hanno già poste con le opere. Anche Ruskin è venuto dopo Turner. Figuriamoci se il Tommasèo non doveva [185] arrivare almeno quindici anni dopo il Bacio dell'Hayez!

Ma il ritardo più doloroso è quello dei pittori italiani paragonati ai pittori di Francia. Tra il venti e il trenta mentre in Italia è ancor vivo e glorioso, - massimo tra i classicheggianti davidiani teatrali e lividi copiatori di statue, il Camuccini che ha dipinto la Moglie di Cesare e dipinge ancora per Bergamo la Giuditta che ringrazia Iddio dopo aver ucciso Oloferne, per Praga la Discesa di Gesù al Limbo, pei Torlonia l'Ingresso di Francesco Sforza in Milano, e soltanto l'Agricola e il Landi a Roma, Pietro Benvenuti e Luigi Sabatelli a Firenze tentano togliergli, imitandolo, la fastosa egemonia paragonabile a quella del Thorwaldsen in scultura, - in Francia il Géricault, il Delacroix avevano redento per varii modi l'arte dalla stupida cieca tirannia del cosiddetto stile e Corot era già stato in Italia e aveva dipinto il Ponte di Narni, il Colosseo e l'isola di San Bartolommeo.

Se una lotta visibile era in Italia, e sopratutto a Roma, era tra quei neoclassici davideggianti alla Camuccini e i puristi tedescheggianti alla Minardi. Overbeck, Cornelius, Veit, Schnorr avevano già dipinto a Via Sistina nella casa degli Zuccari per commissione del cavalier Bartholdy console di Prussia, [186] e nella Villa Massimo al Laterano avevano su per tutte le pareti con pallidi ma chiari colori illustrato con composta placidità Dante, il Tasso e l'Ariosto. Anzi in quegli anni il «nazareno» Overbeck, detto allora l'Angelico del secolo decimonono, ponendo in atto un antico piissimo voto, dipingeva estatico la fronte della Porziuncola francescana ad Assisi, in Santa Maria degli Angeli, sotto la cupola del Vignola.

Ora noi, dopo cinquant'anni, riuniamo sotto una stessa accusa gli avversarî, e a leggere l'opuscolo del Bianchini sul Purismo nelle arti o quello del Selvatico sul Purismo nella pittura e a guardar a Roma o a Perugia, dove egli fu per parecchi anni direttore dell'Accademia, i disegni anche più dei pochi squallidi dipinti del Minardi, non possiamo comprendere perchè le due scuole così timide di contro al vero non si riconoscessero sorelle in un comune peccato originale: quello di imitare una imitazione. A noi sembra che tanto valesse condurre in pellegrinaggio gli studiosi e gli stranieri qui a Firenze ad ammirare in casa Mozzi Il giuramento de' Sassoni a Napoleone dopo la battaglia di Jena dipinto dal Benvenuti o al palazzo della Gherardesca a godere il suo Conte Ugolino nella torre di Pisa, quanto su su per la scalinata [187] di Piazza di Spagna farli a Roma salire a venerare gli affreschi dell'Overbeck e dello Schadow a casa del Bartholdy.

Quando l'Hayez pensionato veneziano s'era, anni prima, presentato a Roma al Canova con le commendatizie del Cicognara, questi gli aveva parlato così: «Conosco lo scopo della sua venuta ma non il programma dei suoi studî: ritengo che l'intenzione sarà di studiare Raffaello e l'antica scultura greca per formarsi un'idea del bello che certamente quei sommi maestri hanno saputo scegliere dal vero.» E nei consigli del grande di Possagno i due indirizzi già si raccoglievano in un elogio che oggi da chiunque sarebbe mutato facilmente in un biasimo. Se da un lato le sculture classiche erano l'ideale che nei loro quadri camucciniani mettevano in moto come altrettanti manichini creati diciassette diciotto secoli prima a Roma o ad Atene o ad Alessandria pel loro comodo e pel loro piacere, dall'altro i nazareni tedeschi dalla lunga chioma e i loro seguaci italiani con minor rispetto aggiustavano madonne, santi ed angeli del Ghirlandajo o del Perugino col nobile scopo di riempire le tele che loro erano state allogate da qualche nobile, da qualche cardinale o da qualche confraternita. Col vero si aveva il minor rapporto possibile, [188] perchè il pericolo della volgarità era pericolo di insuccesso e di scomunica. Se il vero ideale per molto tempo era stato Talma l'attore eroico e magniloquente, ora anche questo simulacro è sdegnato dai puristi che si inginocchiano prima di dipingere, o meglio prima di copiare. In un elogio del Minardi scritto nel '21 quando dalla direzione dell'Accademia perugina cui l'aveva raccomandato quattro anni prima lo stesso Canova egli passò a Roma ad insegnare disegno figurativo in San Luca, si dice che per lui rivisse l'antico spirito perugino; e doveva dirsi che da lui si erano lucidate le antiche forme peruginesche. Se non fosse il colorito incenerato e la leziosa sdolcinatura dei tipi e dei gesti, se non si sentisse a ogni segno e ad ogni pennellata la stereotipata abilità di composizione e di ricomposizione sostituita alla franca geniale spontaneità dell'invenzione come la luna invece del sole, tutta l'opera del Minardi potrebbe nel metodo paragonarsi a quelli affreschi e a quei quadri che i più tardivi e i più torpidi discepoli di Pietro Perugino componevano adoperando a pezzo a pezzo i cartoni del maestro e voltandoli da un fianco o dall'altro e magari a una tunica d'apostolo infilando le braccia, i piedi e la faccia della Santa che loro era stata per pochi scudi e per [189] mezzo sacco di grano allogata. Ma le più stentate pitture di Tiberio d'Assisi e le più tardive opere di Giannicola Manni hanno ancora e sempre l'afflato divino e la sincerità e la sicurezza che a questi importanti monotoni sillabatori di poemi eterni mancano, e giustamente.

Intanto ad uso di questi miticissimi castissimi soavissimi pittori dal color di manteca e dal disegno esemplarmente calligrafico si venivano scrivendo vite e panegirici di Raffaello e di Perugino, dello Spagna e del Francia, del Ghirlandajo e magari del buon frate Lippi come se fossero stati altrettanti santi passati in terra belli e compunti, a miracol mostrare. E il Rio con l'Art chrétien raccogliendo dieci anni dopo tutte queste agiografie sarà considerato l'ideale storico dell'arte, e il padre Marchese nel 1846 fisserà in un breve enfatico scritto i suoi entusiasmi su quei puristi, che alla sua nobile anima parvero rinnovatori fecondi laddove non erano che plagiarî sterili gelidi e timidi.

Forse la parola plagio è troppo cruda per quegli onesti, perchè il loro plagio fu incosciente ed essi credettero fare opera di purezza commettendolo, e anche perchè ne furono puniti dall'immediato oblío tanto che i più di loro morti anche venti o dieci anni fa, oggi son rinnegati financo dai discepoli, e [190] dal pubblico abbandonati nelle ultime sale delle accademie e delle pinacoteche.

Non a loro torna l'omaggio che ogni giorno in Francia ravviva la memoria di ogni più oscuro pittore della libera scuola del Trenta; e in Germania stessa a Düsseldorf o a Monaco la pittura nazarena prima di Kaulbach o di Piloty è, più che biasimata, dimenticata. Per molto tempo essa gelida e diligente ha vissuto perchè nessuno vi trovava qualcosa da biasimare. «Queste grandi tele non insegnano nulla di nuovo e non lasciano alcun ricordo; sono corrette, decenti e fredde» diceva nel 1828 lo Stendhal uscendo dallo studio del Camuccini e avrebbe potuto dire lo stesso delle poche tele del Minardi.

Un vanto però va dato ai puristi intorno al Minardi, che in realtà fu solo un maestro e specialmente al senese e gentile Luigi Mussini fraterno amico dell'Ingres onorato così in Francia come in Italia, pittore e scrittore. Ed è un vanto di tecnica. Qui più cospicuamente si vede la rispondenza fra i puristi in pittura e i puristi in letteratura; qui più chiaramente Tommaso Minardi ci appare come il Basilio Puoti del pennello, e il suo Discorso su le qualità essenziali della pittura italiana scritto nel '34 continua venticinque anni dopo la Dissertazione [191] su lo stato presente della lingua italiana presentata dal Cesari all'Accademia milanese.

Essi abbandonarono quelle larghe masse di chiaro e d'ombra con che il Benvenuti e il Camuccini e tanti altri minori preparavano nei dipinti le parti luminose ed oscure, senza curarsi di tòrre questi effetti dal vero, ma disponendoli con una luce teatrale, della cui falsità (come narra nelle sue Memorie l'Hayez, che andando a Roma venne a riverire Pietro Benvenuti qui a Firenze nel suo studio e lo vide dipingere la Morte di Priamo), si gloriavano apertamente. Così i loro colori furono chiari se non ricchi, e con le velature ritornarono a dare lucidità e trasparenza alle cose dipinte, e su le mura riaddussero in onore l'encausto e ritrovarono i buoni metodi del fresco. Nella prospettiva, poi, ricominciarono a conformare la grandezza degli oggetti ritratti alle dimensioni della immagine prospettica, quale è descritta nel taglio del cono visuale, al punto in cui l'artista si pone così da non dover spostare, come avveniva spesso nei macchinosi quadri davidiani e come purtroppo riavverrà in molti frettolosi romantici, il punto della veduta due volte almeno per una stessa pittura.

Il Benvenuti muore nel '44, il Camuccini e il Sabatelli nel '50, il Biscarra che dal '21 era stato [192] da Carlo Felice chiamato a dirigere l'Accademia a Torino, muore nel '51. Il Biscarra che aveva studiato a Roma e aveva plagiato nel Caino il Delitto perseguitato di Prudhon, ebbe nella sua Accademia a direttore della scuola di disegno ornamentale quel Pelagio Palagi, bolognese, che nel '34 aveva osato nel reale palazzo di Torino e nelle ville di Pollenzo e di Racconigi distruggere tutte le delicatezze delle ornamentazioni Louis XV per sostituirvi le sue vuote classicherie lineari. Ma tutti costoro poterono prima di morire veder che nulla rimaneva loro fuor che gli onori. L'Hayez ormai trionfava, e il loro Olimpo color di mattone e sapor di niente era svanito. L'Hayez trionfava, e più che l'Hayez il popolo e la violenza del popolo trionfavano.

Ma perchè, per tanti anni la falsità e la imitazione e il gelo, contro ogni moda straniera, poterono seder sul trono e schiacciare ogni spontaneità di gusto? Non spetta a me in questa serie di letture definire le condizioni sociali, l'ambiente morale e politico dove l'arte ebbe a svolgersi, o meglio, dove l'arte ufficiale potè restare immobile.

Per quanto nel 1849 il Giusti rida amaramente della poca plebe sbrigliata in piazza, nel periodo che va dal '21 al '48, da quando a Modena Carlo [193] Felice smentisce con celere prudenza la rivoluzione piemontese fino alle riforme del '47 e alle costituzioni del '48, l'aristocrazia e l'alta borghesia d'Italia non dettero che esempii di timorati desiderii platonici. Composte nel gesto e nelle parole, ammonite dalla brutta fine de' moti del '31 e del '33 esse si rammentano dell'unità e dell'indipendenza della patria quando sognano non quando agiscono. Il 1848 è stato voluto e ottenuto dal popolo: è bene rammentarlo. Uscito di prigione Silvio Pellico che, come il Tommasèo e il Cantù, s'era dato alla educazione, nei Doveri dell'uomo ha questo passo caratteristico: «Il progresso sociale verrà con le virtù domestiche e con la carità civile, o non verrà in alcun tempo. Lasciamo dunque stare le illusioni della politica, facciamo cristianamente quel bene che possiamo, ciascuno nel nostro circolo: preghiamo Dio per tutti e serbiamo il cuore sereno indulgente e forte.» Ci voleva altro, signori miei, e, in realtà, altro ci volle che la serenità e la indulgenza e la carità predicata dall'autore della Francesca da Rimini! Ai più franchi, come Massimo d'Azeglio, la tirannide interna premeva poco; l'importante era fare l'Italia con la libertà se era possibile, e, se no, anche col dispotismo, anche con l'aiuto dei principi, con la conciliazione di tutti gli elementi. Ma [194] egli potè vedere che se gli individui non sono liberi, è inutile che sia libera la patria.

La scuola liberale lombardo-piemontese cui Pellico e d'Azeglio e Manzoni appartennero, e di cui - come disse il De Sanctis - Balbo fu il dottrinario, Gioberti l'oratore, Rosmini il pensatore, mettendo da parte la libertà come fine, volendo lasciare la società alle sue forze naturali perchè riescisse al progresso, respingendo ogni idea di violenza, sia che la violenza scendesse dall'alto, sia che salisse dal basso, non agitava che idee generali e larghe astrazioni e, soprattutto, era composta e misurata. Misurate e composte furono le classi dominanti finchè essa le dominò, cioè fino al 1848, cioè fino all'avvento della scuola democratica mazziniana.

Il neo classicismo che fu detto un involucro retorico mitologico, cioè una mitologia senza mito e una rettorica senza eloquenza - Camuccini, Landi, Benvenuti, Thorwaldsen, per non parlar che di quelli che verso il '30 sopravvivevano, - come poi il purismo minardiano, così placidi e frigidi, così lontani dalla realtà, così assestati, così teatralmente panneggiati o così misticamente diafani, poterono contentare formalmente quelle classi che uniche davano pane e lodi agli artisti. E specialmente lo poterono a Roma, dove fino a Pio IX non vi fu vita [195] se non di antiquarî e di dotti pietisti, e specialmente a Firenze, che un grande critico disse essere a quelli anni soltanto «un passato illustre immobilizzato e regolato.» L'Arnaldo da Brescia, come tutti sanno, è del 1844.

Ho detto che il classicismo e il purismo poterono contentare formalmente le classi dominanti, perchè occorse la pittura romantica per appagarle anche con la sostanza.

La scuola liberale, considerando e studiando la società come una cosa reale e spontaneamente e indefinitamente progrediente, dovette interrogare, per giustificare la sua calma e benevola aspettativa, la logica della storia, cioè divenire una scuola storica. E la storia fu a base anche dei lavori di immaginazione e si videro pullulare i romanzi storici, le tragedie storiche, e le pitture storiche.

Certo, anche la pittura che si è convenuto di chiamare romantica, ebbe su lo scoppio della rivoluzione italiana un'azione molto indiretta: ma di ciò diremo quando avremo veduto che cosa essa sia, quali ne sieno stati i capi, e quali i gregarî. Paragonata alla letteratura romantica, ad essa manca il suo Manzoni. Francesco Hayez non ne fu che il Tommaso Grossi.

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* * *

Alla fama se non alla gloria dell'Hayez giovò il momento storico che certo egli non creò, ma dal quale con versatile docilità si lasciò nella lunga onoratissima vita plasmare. La lettura delle sue Memorie purtroppo incompiute, sebbene esse non abbiano ne la vivacità fresca e inesausta dei Ricordi di Massimo d'Azeglio, nè la semplicità affettuosa di quelli di Giovanni Duprè, mostra limpidamente che egli è un pittore di transizione, non un rivoluzionario fanatico e fisso in ciò che egli creda essere la ideale verità infallibile. Troppi esempî di virile costanza e in letteratura e in politica e anche nelle belle arti - come vedremo parlando della scultura - in quei tempi avventurosi gli sorgono attorno, luminosi poli fissi a segnare la sua abile mobilità.

Egli che nel 1812, guidato dal marchese Canova, mandava al concorso dell'Accademia di Milano il Laocoonte famoso, tipo nel tema e nella tecnica di classicissima pittura, e nel '20 pure a Brera esponeva fra gli applausi il Carmagnola, e nel '30 i Profughi di Parga, eco degli entusiasmi filellenici, [197] e nel 1848 firmava un autoritratto Francesco Hayez italiano di Venezia, e nel '67 mandava a Parigi la Battaglia di Magenta: è il vero riflesso pittorico delle vicende politiche intellettuali e sentimentali le quali mossero e commossero l'Italia nel periodo che oggi riassumiamo. È il vero filo direttivo nel labirinto delle opposte tendenze dei sogni che balzano d'un tratto in piena realtà, dei fatti che lampeggiano invano per un attimo e si spengono sotto la nebbia dell'utopia.

Dal classicismo lo svegliò il cannone degli Alleati, e l'impero napoleonico cadde mentre egli dipingeva sopra un'ampia tela Ulisse nella reggia di Alcinoo re dei Feaci, e riparò a Venezia dove stette tre anni a decorar sale di palazzi con lo stesso gusto tanto che nello studiolo del conte Zanetto Papadopoli dipinse Diotima che insegna a Socrate l'arte monocromata e Alcibiade nel gineceo quando è rimproverato da Socrate, dentro un fregio di amorini dove l'Amor feroce è simboleggiato dalla tigre, l'Amor leggero dalla farfalla, l'Amor forte dal leone, e così via!

Se egli non fosse stato quel pronto spirito che dicevo poco fa, voi vedete in quale palude si sarebbe annegato. Ma ode da Milano i richiami del vecchio suo amico Pelagio Palagi, e vi accorre [198] ed espone il Carmagnola ed è salvo. Messosi così nella corrente, egli per sua ventura, non ne escirà più. L'ambiente è ben caldo; gli applausi, checchè egli poi ne scriva, lo confortano; l'amicizia con Tommaso Grossi lo esorta a perseverare.

Equilibrato compositore, direi quasi, con tutto il rispetto, coreografo sagacissimo, coloritore non oso dir veneziano, ma certo ammiratore dei Veneziani, disegnatore freddo ma onesto, poichè a Roma gli aveano ai primi anni diretto la mano gli inflessibili e impassibili neoclassici, ormai egli può abbandonarsi alla sua foga feconda, in gara coi letterati che han trovato il perfetto illustratore e lo chiaman fratello. Consigliere dell'Accademia di Brera, per qualche anno sostituto del Sabatelli cui poi nel 1850 succedette per trent'anni, ritrattista aulico di tutti i sovrani convenuti nel 1822 al congresso di Verona, protetto dall'arciduca Ranieri e dal Metternich da cui si vanta di essere stato a Vienna preso amichevolmente a braccetto, pittore nel soffitto della sala delle Cariatidi al palazzo reale di Milano quando si attendeva l'imperatore austriaco perchè cingesse la corona di ferro, se non fosse stato un pittore, sarei curioso di sapere come l'avrebbe giudicato il Guerrazzi. Ma in politica, anche nel 1899, ai pittori e agli scultori è permesso più di quel che sia permesso [199] ai poeti, e io devo parlarvi solo della sua versatilità artistica. Certo è che quando nel 1872 Francesco Dall'Ongaro lo proclama giustamente il veterano della pittura italiana, a me par di vedere in quella parola veterano scritta dal glorioso reduce di Venezia una punta di benigna ironia.

Il Bacio è forse il quadro più noto dell'Hayez, e meritatamente. Il sentimento, anzi, l'impeto amoroso, non è stato segnato con altrettanta intensità in altri quadri di quell'epoca. Giulietta nella veste di un bel limpido azzurro è così abbandonata su le spalle e contro le labbra dell'amante, con gli occhi chiusi per la dolorosa delizia di quell'addio, e Romeo col mantelletto marrone con la maglia di color bucchero è così saldo a sorreggerla e leggiadramente virile, che anche oggi, a prima vista, nonostante il disgusto delle oleografie untuose che primamente ce lo hanno rivelato e la noia di tutte le romanticherie cantate per anni sotto la luna, ci commove, sebbene, per fortuna, non ci piaccia più.

E la commozione patetica fu appunto lo scopo di tutta quell'arte romantica. Il bello morale, come essi dicevano, è il loro Dio, e ogni scolaretto ripete dal Forcellini l'etimologia del bello, bellus, da bonellus cioè dal buono. La forma che nei classici era stata il fine, nei romantici diviene il mezzo [200] per eccitare affetti. Tommaso Grossi appare allora superiore al Manzoni perchè egli fa piangere, Manzoni no. La così detta donna romantica è la sua fissazione; e la Fuggitiva, Lida, Ildegonda, Bice, Giselda sono il tema favorito dei pittori lacrimosi che, quando non furono l'Hayez, riuscirono spesso ad essere lacrimevoli.

Enumerare questi quadri dell'Hayez è impossibile e anche inutile. Di Imelda de' Lambertazzi, di Maria Stuarda, di Giulietta e Romeo, di Clorinda e Tancredi, della Congiura dei Fieschi, di scene delle Crociate da Pietro l'Eremita, alla Sete dei Crociati, egli fece tre, quattro, cinque variazioni in quadri grandi e in quadri a figure terzine, in bozzetti e in disegni. Così per i soggetti veneti, dal Carmagnola a Marin Faliero, da Vittor Pisani a Valenza Gradenigo, da Caterina Cornaro ai Due Foscari che voi avete qui alla vostra Accademia, egli fu di una attività da Briareo e di una varietà di combinazioni melodrammatiche degna di Felice Romani. E dall'estero le ordinazioni piovevano come le lagrime delle spettatrici. Nè perciò egli dimenticò i soggetti sacri, e anche, per tornare agli antichissimi, i soggetti mitologici. Ma per alcuno dei ritratti, massime per il suo agli Uffizi, essendo costretto a rendere il vero senza veli [201] rettorici e patetici, egli merita di essere ricordato anche oggi. Quelli del marchese Lorenzo Litta, del conte Giovanni Morosini e di Antonio Rosmini, quando qualche volonteroso che forse non è lontano, farà la storia del ritratto nella pittura italiana, dovranno avere nel periodo che va dal '30 al '50 un posto d'onore. Così a Roma il Consoni, il Capalti, il Cochetti suoi contemporanei, non meritano una menzione per altro.

E passiamo ai minori.

Intendo i minori per fama, perchè alcuni - e non vi dirò d'altri - spesso gli furono eguali per valore. In tutti i varii indirizzi a volta a volta riappaiono, secondo i bisogni della moda, del committente e del tema, e quello che nell'Hayez fu graduale evoluzione sincera, in loro o è incertezza di convinzione o destrezza di opportunismo eclettico.

Qui in Toscana è tempo che nomini Francesco e Giuseppe Sabatelli figli di quel Luigi Sabatelli che già vi segnalai come emulo del Camuccini e cui nella direzione dell'Accademia milanese succedette l'Hayez. Il padre li vide morir tutti e due. Francesco, maggiore di dieci anni, mandato giovanissimo da Leopoldo II a studiare in Roma, dopo soli diciotto mesi di permanenza e di amoroso lavoro, tornò a Firenze a finire la sala dell'Iliade [202] cominciata dal padre a Palazzo Pitti, quando quella d'Ulisse era stata dipinta da Gaspero Martellini e quella di Prometeo da Giuseppe Colignon e mentre Pietro Benvenuti dipingeva tutta la cupola della Cappella dei Principi in Piazza Madonna. Da questi sincronismi è facile supporre quale sia stato il carattere della sua arte. Migliore, cioè altrettanto ariosa nella composizione ma più franca nel colore è, nella minuscola cappella a sinistra del coro in Santa Croce, la figurazione di Ezelino da Romano ai piedi di Sant'Antonio. Del fratello Giuseppe, anche chi non ha cercato a San Firenze la misera cupoletta ormai cadente della Cappella della Madonna, o all'Accademia la Battaglia del Serchio con Farinata e Buondelmonti, rammenta le affettuose parole del Duprè nel cui studio ogni mattina egli si riposava andando al lavoro: «Era magro e pallido, e i mustacchi neri facevano ancora apparire più pallido quel viso mansueto e serio; dal suo labbro non uscivano che poche e benigne parole; la sua compagnia era mite e soave; e la memoria di lui mi ritorna mestamente serena come il ricordo di un bene smarrito ma non perduto.»

E altri due fratelli, non fiorentini questi, ma sanesi, Luigi e Cesare Mussini. Luigi che come ho detto, cominciò con l'essere un purista minardiano, [203] si inromantichì presto nel suo Decamerone sanese, e più nell'Eudoro e Cimodocea di questa Accademia, un quadro derivato da Chateaubriand, color di rosa e color di cenere, levigato e mantecato e illuminato non si seppe mai da che parte. Cesare fu un coreografo anche più complicato in quella Congiura dei Pazzi che verso il '45 era stimato uno dei massimi quadri moderni di Toscana e che poco dopo fu giustamente definita la «sintesi dell'impossibile.»

Per restar sempre tra i più noti, rammenterò il freddo e compassato Pollastrini che dopo aver fatto accademicamente melodrammaticamente morire Ferruccio a Gavinana, uccise anche Lorenzino de' Medici con altrettanta sapienza scenica e l'un dopo l'altro cacciò in nome del vittorioso Cosimo primo i sanesi da Siena. Ho detto un dopo l'altro: come nei Mussini così in tutti questi altri romantici le figure sono viste a una a una, e il chiaro e lo scuro è reso, non nell'insieme, ma su ciascuna di esse singolarmente e speciosamente.

Il Bezzuoli, che era di quarant'anni più vecchio di lui, verso il quaranta, dipinse un'Eva che aveva qualche floridezza e qualche freschezza di carni, ma subito ricadde nella coreografia trionfale con la gran tela figurante l'ingresso di Carlo ottavo in Firenze, [204] che ebbe l'onore di essere incisa dal Morghen. Andatela un giorno a vedere, all'Accademia, e mi perdonerete se sessant'anni dopo io ometta anche di criticarla.

Tra l'Emilia e la Romagna due nomi compendiano questo periodo: il Malatesta e il Guardassoni. Del Guardassoni non è di voi chi non conosca almeno un'oleografia dell'Innominato da lui più volte ripetuto, perchè le migliori opere di questo periodo sono state dalla Provvidenza destinate ad essere appunto riprodotte nel modo a loro meglio convenevole, cioè con l'oleografia. Certo per l'avveduta onestà della pennellata, per una certa vivezza di colore, per la disinvoltura del disegno, il quadro appare superiore a molti dell'Hayez, ma, ahimè, mostra anche tutto il gelo del Delaroche; e ciò basta a giustificare l'oblio. A Bologna cento chiese - San Giuseppe ed Ignazio, la Trinità, San Giuliano, Santa Caterina, San Bartolomeo, Santa Maria Maddalena, Santa Dorotea, Santa Maria Maggiore, San Gregorio, San Giorgio, SS. Filippo e Giacomo, San Salvatore, Sant'Isaia, Santa Caterina di Saragozza, la Madonna dei Poveri, San Giuseppe - hanno pitture sue eseguite prima e dopo il '50, con una mano sempre più facile e anche sempre più trascurata, celeremente, per poco danaro, alla brava.

[205]

Il Malatesta, modenese, nato nel 1818 morì nove anni fa. Dipinse con grande chiarezza molti ritratti, con minore arte quadri sacri e quadri storici, fra i quali il più noto è quello in cui i soldati della lega guelfa fanno prigioniero Ezzelino terzo alla battaglia di Cassano d'Adda. Un titolo, come udite, un po' lungo, e veramente io penso a trovarne di altri anche più esplicativi e più lunghi, che cosa dovessero valere quei quadri per chi non sapesse leggere o almeno non sapesse di storia.

Se nel Veneto più dello Schiavoni, del Lipparini, del De Min, del Gregoletti, del Gazzotto che illustrò Dante a penna, sono oggi memorabili solo i nomi del Molmenti e dello Zona, ben altro avviene in Piemonte. Nel 1842 in un salone del palazzo d'Oria di Cirié in via Lagrange si apriva la prima esposizione della Promotrice, con centocinquanta opere di autori viventi e quello fu il terzo grande avvenimento artistico del regno di Carlo Alberto, dopo l'apertura della Pinacoteca e la restaurazione dell'Accademia Albertina. Giuseppe Camino, i due Morgari padre e figlio, Francesco Gonin, Francesco Gamba erano tra gli espositori. Ma non è questo il momento di definir l'opera di tali valorosi, cui pochi anni dopo si deve la riscossa, - e non solo in arte. Ora rammento solo artisti più [206] vecchi: Ferdinando Cavalieri, amico dell'Hayez, che nel '45 era venuto a Roma a dirigere la scuola dei pensionati del re di Sardegna, e nel 1846 mandava di là per la sala dei paggi nel Reale Palazzo un quadro rappresentante Il conte Amedeo III che giura la sacra lega in Susa; il Biscarra che scendeva dall'Olimpo davidiano dei suoi Achilli, dei suoi Alessandri e dei suoi Mosè per romanticheggiare con una veramente misera Morte del conte Ugolino; Pietro Ayres che avrebbe dovuto limitare la sua attività ai ritratti; Amedeo Augero, l'autore del Voto e più l'autore di molti ritratti privi di luce ma di nitidissimo segno; e infine l'Arienti, che sebbene fosse nato presso Milano, pure è da iscriversi tra i piemontesi per essere stato dal '43 al '60 professore di pittura all'Accademia di Torino. Un'altra Congiura dei Pazzi, il Federigo Barbarossa cacciato da Alessandria che è in quel Palazzo Reale, e l'incomprensibile episodio della Lega Lombarda, che è nell'ultima sala della Pinacoteca bolognese, sono opere che raccolgono bellamente tutti i difetti suoi e dei tempi, ma hanno un certo fare largo ed energico, che l'Arienti deve a Luigi Sabatelli maestro suo.

A Roma vanno rammentati il Podesti e il Gagliardi. Che memoria resta di loro? Io che son [207] cresciuto fra gli artisti, e fin da bimbo ho udito pronunciare questi due nomi con venerazione, quando un giorno mi son determinato entrando nelle stanze di Raffaello in Vaticano a fermarmi nella prima stanza detta della Concezione e tutta affrescata dal Podesti con una squallida intonazione tra color di rosa e color di legno, con una compassata scolastica composizione che non si può più nemmeno dire teatrale; quando nella minuscola pinacoteca di Ancona sua patria invece di correre ad adorare la piccola madonna del Crivelli ho voluto guardare con qualche attenzione i cartoni, i quadri e i quadretti del tanto lodato «decano dell'arte romana», ho provato una delusione tale, che oggi non oso con esatte parole ripeterla. Il pittore de Sanctis che di lui morto parlò nell'Accademia di San Luca, affermò che tra il '50 e il '60 «il nome del Podesti risuonava alto nella pittura come quello di Verdi nella musica», un paragone che a noi di un'altra generazione oggi sembra irriverente addirittura. Pure la sua fama fu immensa; e da quando nel 1830 espose in Campidoglio nella prima Esposizione degli amatori e cultori di belle arti il Martirio di Santa Dorotea fino a che per commissione di Carlo Alberto eseguì il Giudizio di Salomone; da quando per don Alessandro Torlonia nella villa [208] fuori Porta Pia dipinse a fresco le imprese di Bacco e nel Palazzo di piazza Venezia il mito di Diana fino a che per Pio nono eseguì la stanza della Concezione; dal quadro dell'Assedio di Ancona che nelle esposizioni mondiali di Parigi e di Londra ebbe due medaglie d'oro e oggi sarebbe rifiutato in una promotrice provinciale fino a tutti gli innumerevoli soggettini romantici a figure terzine, egli fu venerato a Roma anche più di quel che l'Hayez fosse stimato a Milano o il Bezzuoli a Firenze. E come l'Hayez, morì novantenne.

Il Gagliardi è negli affreschi della chiesa di San Rocco a Roma più virile e ha un colore più franco, ma anche egli non sente la luce e tanto meno il chiaroscuro, e così non riesce al rilievo; le quali due accuse sono, in realtà, le massime contro tutta la pittura d'allora. Tanto che tutte quelle figure teatrali e i soliti guerrieri coi cimieri azzurri e i pennacchi rossi e le corazze turchinette e giallette, che modellan muscolo a muscolo la carne e i soliti toni di cobalto e di roseo alla Sassoferrato, fanno della Crocifissione cui allora stupefatta accorse tutta Roma, un quadro meschino presso le ampie figure zuccaresche dell'abside, ornamentali e baroccamente violente.

In Lombardia, oltre il Bertini, il d'Azeglio. Giuseppe [209] Bertini che nato nel '25 è morto quest'anno conservatore della Pinacoteca di Brera, sebbene sia più noto come primo maestro di qualche grande, pure meritò per la mobilità del suo stile dal Selvatico questa lode «or sa farsi Ghirlandajo, ora Tiepolo» dove il contrasto è così palese che la lode sembra un biasimo. L'arte di Massimo d'Azeglio invece fu protesa verso l'avvenire che egli bene intravvide, ma nel quale, come pittore, non riescì ad entrare. Più che la Sfida di Barletta o il Brindisi di Ferruccio o la Battaglia di Gavinana o lo Sforza che gitta l'accetta su l'albero o tutti i quadri di origine ariostesca, oggi ci importano i suoi paesaggi che egli studiava e, come diceva lui, finiva sul vero. Dei quadri supposti storici, dei quali ora più ci occupiamo, egli si gloria che avessero il gran merito - o piuttosto la condizione sine qua non di tutto quanto aveva fatto d'un po' significante - di servire cioè al pensiero italiano.

Ora questo per lui si può dir che sia quasi sempre vero: ma per gli altri lo fu? E se lo fu, questa pittura romantica raggiunse lo scopo, cioè affrettò la rivoluzione verso la unità e per la libertà individuale e nazionale? Lo stesso d'Azeglio che da giovane aveva veduto domare la rivoluzione francese e l'aristocrazia e il re tornare a Torino e i [210] cardinali e Pio VII tornare a Roma, parlando dell'Alfieri e delle sue tragedie in odio ai tiranni, osserva con ironia: «Quale appare secondo esse la via più breve onde condurre un popolo alla perfetta felicità, libertà, prosperità ecc. ecc.? Nascondersi dietro un uscio e far la posta al tiranno; quando passa, tonfete!, una buona botta sul capo, e tutto si trova fatto, compito e terminato; tutti sono contenti, tutti sono indipendenti, tutti sono liberi, felici, virtuosi, eguali, fratelli amorosi, insomma un popolo si trova diventato d'un colpo il paese della cuccagna! E il mondo va egli così? E tutto questo è egli vero, e mette forse in capo idee vere?»

E, aggiungo io, non si potrebbe dir lo stesso della pittura romantica e di tutte le Leghe Lombarde e di tutte le Congiure dei Pazzi e di tutte le Disfide di Barletta che furono dipinte allora? Invece di dire al vicino «La tua casa brucia» quei bravi artisti gli dicevano, ad esempio: «Brucia la Biblioteca d'Alessandria, o il Tempio di Diana in Efeso.» E ciò, come si capisce facilmente, poteva essere rettorico e, verso la polizia, comodo, ma poteva anche essere inutile. Eran ricordi di scuola, finzioni di mondi passati, spesso mai esistiti, favole non umane, irrealità e atteggiamenti e affettazioni, forme che non sprizzavano direttamente dal pensiero [211] e dalla passione vivi ma li viziavano e li impacciavano come paludamenti. La pittura fu, come disse il de Sanctis di quella letteratura, «un'Arcadia con licenza dei superiori,» Permettete a chi forse ammira troppo il tempo in cui vive di constatare che anche in franchezza, per fortuna, noi abbiamo progredito.

* * *

Prima di accennarvi come i fatti brutali e magnifici spinsero tutti gli animi a questa franchezza e lacerarono le maschere prudenti, e i pittori di Federigo Barbarossa e d'Ettore Fieramosca divennero o meglio dovettero divenire i pittori di Carlo Alberto, di Vittorio Emanuele e di Garibaldi, vi dirò qualche parola su la scultura e gli scultori. E più che poche parole vorrei dirvene, poichè ho la ventura di parlare nella patria di Lorenzo Bartolini.

E tu giunto a compièta,

Lorenzo, come mai

Infondi nella creta

La vita che non hai?

Prima di lui la scultura classica del Canova, o [212] più propriamente inclinata alle semplicità del purismo nel Thorwaldsen e nel suo nobile allievo il nostro Tenerani, era in ogni modo stata regina in Europa. Per un momento tutta la nostra gloria artistica parve affidata a lei. Nè Dannecker nè Rauch in Germania, ne François Rude o David d'Angers Aimé Millet in Francia raggiunsero lo splendore d'onori, la fecondità pure diligente, la fattura squisita dei nostri. Per confrontare Thorwaldsen al conte Tenerani basta a Roma in San Pietro andare dal monumento di Pio settimo Chiaramonti a quello di Pio ottavo Albani; ma la castigatezza e il fermo modellare sì del maestro che del discepolo sono schiacciati dalle dorate vòlte pompose e ventose così, che al confronto il Gregorovius potè dire che le due tombe sembrano fra tanta sontuosità di cattolicismo due monumenti protestanti. È stato detto che il Minardi fu il Tenerani della scultura. Sì, ma il Minardi non seppe nè dipingere nè coi disegni commuovere; il Tenerani seppe e scolpire e commuovere. Dalla Psiche abbandonata che piacque tanto al Giordani fino all'altra Psiche svenuta che egli dovè ripetere quindici volte, dal rilievo della Deposizione dalla Croce che è tra gli ori candido vanto della Cappella Torlonia in Laterano fino al colossale San Giovanni Evangelista pel San Francesco [213] di Paola a Napoli, dal troppo classico Monumento pel conte Orloff al Monumento per Bolivar o alla statua di Pellegrino Rossi, egli ha mostrato veramente un'anima geniale e una scienza tecnica di polita gentilezza e un'abilità di panneggiare insuperata dallo stesso Thorwaldsen. E basta leggere una pagina della sua biografia scritta dal Raggi, per sentire quanto il mondo fosse allora pieno della sua fama.

Intanto il Marocchetti di Biella empiva l'Europa di cavalli e di cavalieri purtroppo ancora visibili, nessuno dei quali per fortuna nostra vale l'Emanuele Filiberto di piazza San Carlo a Torino. Però nessuno, e tanto meno lui, ebbe il virile animo e la tenacia diritta e la forza combattiva del vostro Bartolini.

Lo stesso Giusti, che per lui scriveva i versi detti poco fa, sembra che anche per lui abbia cantato:

In corpo e in anima

Servi il reale,

E non ti perdere

Nell'ideale,

parole chiare che diverranno una divisa di coraggio.

Francesco Hayez è vissuto tra il 1791 e il 1882, Lorenzo Bartolini tra il 1777 e il 1850. Confrontateli: [214] versatile, opportunista, già dimenticato il primo; rigido, intollerante, austero, ogni giorno più vivo e più degno di vivere il secondo. Figlio d'un magnano, fattorino di bottega, commesso d'un sarto, garzone d'un vetraio e d'un marmista, suonatore di violino nelle più buie orchestre di Firenze o di Parigi, il Delaborde in un articolo che la Revue des Deux mondes pubblicava quarantaquattr'anni fa, narra come il David stesso anche prima che il Bartolini scolpisse il bassorilievo della battaglia d'Austerlitz per la colonna Vendôme restasse stupito e soggiogato dal sentimento semplice, dall'ingenua larghezza, dalla sincerità mai volgare di quella giovenile arte di lui, che la natura voleva interpretare direttamente senza infrapposizioni di morte bellezze officiali.

Pochi giorni fa in un giornale d'arte romano di verso il '40 leggevo una sua caratteristica polemica, quando dette per tema agli scolari il bassorilievo d'Esopo, egli che, morto Stefano Ricci, autore del monumento a Dante, già insegnava scultura all'Accademia fiorentina, aveva scritto: «Diverse figure adattate per esercizio del nudo, servono a dimostrare che tutta la natura è bella, quando però è relativa al soggetto, e che colui il quale saprà meglio imitarla potrà quindi eseguire qualunque tema [215] gli venga proposto.» Un anonimo nel Diario di Roma, un tale Zanelli nell'Album, combatterono questa affermazione rivoluzionaria, questa ostentazione di massime antiaccademiche, questa franca glorificazione di tutta la vita. Dicevan gli avversarî che nei fiori, negli alberi, nel paesaggio la natura può prendersi qual'è, ma non nel corpo umano perchè esso ha peccato. E gli citavan Platone e il prototipo generato e Raffaello e Guido Reni e naturalmente anche Winckelmann; infine, a difesa del bello ideale, gli proponevano: «dipingete o scolpite cento vecchie e cento giovani con egual maestria, tutti guarderanno le giovani.» Il Bartolini sul Commercio rispondeva: «Come saranno brutte quelle giovani se l'avrete inventate voi!»

La sua ammirazione per Napoleone con quella sua misteriosa corsa all'isola d'Elba in pieno 1814 quando caduto l'imperatore la folla gli penetrò nello studio e gli infranse gessi e marmi furiosa, è un indice del suo cuore. La sua amicizia per Ingres con cui aveva studiato e vissuto a Parigi e che lo ritrattò, e per Byron e per M.me de Staël i cui busti egli scolpì, è un indice della sua mente.

Delle sue opere - poichè, se ne togli il gran Napoleone che è a Bastia vòlto al mare d'Italia [216] e la genuflessa Fiducia in Dio che è a Milano nel palazzo Poldi-Pezzoli e l'Astianatte impetuoso che pure a Milano è su la terrazza di palazzo Trivulzio sono tutte a Firenze - è inutile parlare. Chi di voi non conosce nella sala dell'Iliade a Palazzo Pitti, la Carità educatrice, in piazza Demidoff, il Monumento a Nicola Demidoff, o in Santa Croce la statua giacente della vecchia contessa Zamoyska che veramente sembra addormentata in un marmoreo sonno di morte? Chi non ha visto nel refettorio del convento di San Salvi i gessi dei ritratti in busto plasmati da lui, massimo quello dell'attore Vestri il cui marmo è alla Certosa di Bologna? Non dobbiamo dimenticare che egli nascendo all'arte trovò il mondo della scultura popolato di dèi e di semidei e di omerici eroi tutti belli. E quand'egli morì, l'Italia aveva il Vela e il Duprè, e si potè in Santa Croce sotto il suo monumento scrivere la insegna della sua vita Natura lumen artium.

Senza il Bartolini, nè Vincenzo Vela, nè Giovanni Duprè sarebbero stati. Come lui essi sorsero dal popolo, energici e fiduciosi; più bellicoso e saldo e taciturno il primo, più timido e gentile il secondo. Ma, se l'Abele del Duprè è del 1842, la Pietà è del 1862 e lo Spartaco del Vela appare [217] nel 1879. Così che l'esame dell'opera di questi due grandi, spetta a chi un altr'anno vi descriverà l'arte italiana dopo il '48.

* * *

Il quarantotto - lo ripeto - è una pietra miliare donde non solo una nuova politica si parte ma anche una nuova arte, più libera e franca sotto il sole.

Lentamente, da quel momento, l'arte e la vita tendono a riunirsi e nel 1843 Vincenzo Gioberti pubblica il Primato, nel 1844 Cesare Balbo le Speranze d'Italia, e d'Azeglio, il romanziere e il pittore di Ettore e di Ginevra, l'opuscolo Dei casi di Romagna subito dopo i moti di Rimini e di Bagnacavallo, il quale opuscolo, è ancora mite e quasi dottrinario rispetto al famoso libro su I lutti di Lombardia. Egli è ferito a Vicenza. Le cinque giornate di Milano, la difesa di Venezia, la difesa di Roma. Guerrazzi e Montanelli vogliono stabilire la repubblica a Firenze; Mazzini a Roma. Dopo Novara, il d'Azeglio accetta di essere ministro per la pace, e da quel giorno è ecclissato da Cavour. Il Conte di Cimié emissario d'Austria quindici anni [218] prima, tentando di spingere Carlo Alberto alla reazione con l'incitargli contro i tumulti della piazza più impetuosi, aveva detto: - Bisogna fargli assaggiar del sangue, altrimenti egli ci sfugge! - E il sangue, il sangue è apparso e non più quello dipinto con pallidi vermigli nei più tragici quadri romantici sul petto di uomini mascherati alla medievale, ma il rosso caldo sangue dei figli, dei fratelli, il sangue stesso di quelli artisti cui dai franchi occhi cadde il velo della rettorica e folgorò tra i lampi dell'armi la visione della patria quale doveva essere, - visione precisa, limpida, come un segnale dall'alto.

La scuola mazziniana democratica opposta alla liberale lombardo-piemontese - Campanella a Genova, Farini in Romagna, La Farina in Sicilia, Guerrazzi in Toscana, Carlo Poerio a Napoli - fece direttamente e indirettamente il '48 e l'insurrezione calabrese e la rivoluzione di Palermo, e le difese di Roma e di Venezia e le resistenze di Bologna e di Brescia, e Garibaldi. Il romanticismo - e Pellico e d'Azeglio e Balbo e Rosmini - cade dal governo incontrastato delle menti. E la pittura romantica è morta. S'è vista e s'è toccata la salda ardente realtà. Anche prima che in letteratura così il realismo comincia in pittura. Luigi [219] Mussini finirà a fare il ritratto di Vittorio Emanuele, l'Hayez che ha dipinto il Bacio di Giulietta e Romeo finirà a dipingere il Bacio del volontario che parte, come pochi anni prima il vecchio Camuccini aveva per Carlo Alberto dipinto Furio Camillo che caccia i Galli dal Campidoglio.

Tutta la tecnica si rinnova. E prima di tutto, nei quadri di paese. In Francia Rousseau, Corot, Troyon, Diaz, Daubigny, Millet, e accanto a loro tutti gli sfavillanti orientalisti di Francia da dieci o da venti anni attendono di predicar con le loro opere il vangelo della luce d'Italia. Dal Piemonte, prima che da ogni altra regione, partono per varcar le Alpi il Valerio, il Perotti e il Gamba, i quali hanno il torto di credere che il cammino più breve verso Parigi sia attraverso la Svizzera cioè attraverso l'imitazione della buja e piatta e scenografica scuola del Calame. Così che i rivelatori - quelli che, come fu detto con una frase troppo chirurgica, toglieranno le cateratte agli occhi della pittura italiana, - saranno napoletani.

Di Napoli io non ho ancora parlato. E chi avrei potuto indicarvi in quel gelo se non l'accademicissimo Tommaso De Vivo, o Giuseppe Mancinelli, che nell'Aiace e Cassandra del Palazzo Reale ancora [220] venera in ginocchio il Camuccini e nel San Francesco di Paola a Capodimonte, non fa che voltarsi a venerare il Podesti? Filippo Palizzi e Achille Vertunni e, quando dopo il '48 avrà abbandonato i suoi primi flebili amori coi puristi, anche Domenico Morelli: ecco quei rivelatori che solo un altr'anno vi saranno rivelati.

Il sentimentalismo dei romantici, per questa restaurazione della vita nell'arte, diverrà emozione sincera in due forme di pittura: una larga e, direi, sonora che al quadro teatrale e romantico sostituirà il quadro realmente storico ed eroico con gli Iconoclasti del Morelli, coi Dieci del Celentano, con la Stuarda del Vannutelli, col Sordello del Faruffini, alla Brera, coi Martiri gorgomiensi del Fracassini, in Vaticano; una più intima e più placida che sarà detta pittura di genere.

I fratelli Induno crearono la pittura di genere. Ambedue studiarono all'Accademia milanese sotto il Sabatelli, ambedue cominciarono a camminare sotto il giogo dell'Hayez. Ed è relativamente a questi inizii, e al loro tempo, che devono essere giudicati. E nell'uno e nell'altro il 1848 interruppe la vita artistica e cacciò Domenico ad esulare in Isvizzera e in Toscana, e Girolamo, più giovane di dodici anni, a combattere a Roma. I Contrabbandieri, [221] il Pane e lagrime, il Dolore del soldato, la Questua, il Rosario dipinti da Domenico, furono le tele che prime persuasero gli artisti non derivar solo dalla storia l'ispirazione, ma anzi la massima sincerità essere nella immediata contemporanea realtà del soggetto, e la sincerità di un'opera d'arte essere in rapporto diretto con la sua potenza emotiva. Per lui Pietro Selvatico scrisse quel saggio Su la opportunità di trattare in pittura anche soggetti tolti alla vita contemporanea, che aveva per epigrafe ancora un verso del nostro Giusti:

Di te, dell'età tua prenditi cura.

A Milano tra il museo del Risorgimento e l'Associazione patriottica e il Palazzo Reale e le ultime gelide sale di Brera, voi potete trovare le maggiori tele di Girolamo, e Crimea e Magenta e Palestro e la Partenza del coscritto, le quali, come dicono i titoli, sono tutte posteriori al '50. E anche in quel Palazzo Reale potete trovare il Cader delle [222] foglie di Domenico, che a me è sempre sembrato il suo più bel quadro con quell'etica pallida che si spegne in conspetto della larga campagna autunnale, quando sui monti azzurrini del fondo già biancheggiano le prime nevi. Certo la pennellata franca e avvolgente è migliore del colore ancora roseo e bigio, secondo la fievole intonazione che da mezzo secolo smorza ogni sole; ma, quando il modello è vicino e lo accende, egli è capace di creare il magistrale Ritratto d'uomo nella galleria d'arte moderna a Roma, d'un colore così affocato ed intenso e d'un'espressione, negli occhi stanchi, così dolorosa e lancinante che nessun altro ritratto là dentro regge al confronto.

* * *

Signori, con questo nuovo periodo l'arte italiana è libera - libera dal servile plagio degli antichi che è mille volte più dannoso della imitazione dei contemporanei, libera da ogni polveroso pregiudizio e da ogni angusto impaccio d'accademia, libera da quella che Ruskin disse l'insolenza della fede. L'individuo, diviene, almeno in arte, il padrone di sè stesso, e tutti - artisti, critici, pubblico, quali si sieno i loro gusti e le loro opinioni - sanno che [223] l'arte vera non è mai fissata o definita, ma è un continuo divenire come la religione e come la scienza. Lasciatelo dire a un ottimista: l'arte, il giorno in cui essa è tornata, nelle sue aspirazioni se non nella sua attualità, alla spontaneità anche violenta e anche intemperante, il giorno in cui si è compreso che le pitture più belle non sono le più pittoresche ma le più sincere, l'arte, dico, in quel giorno è tornata al suo massimo cómpito - cioè a farci amare la vita che ella stessa ha amato, poichè ha cercato di comprenderla e di renderla e di interpretarla per la nostra più precisa delizia. E questa è la sua funzione nella società.

«Quando leggo Omero, tutti gli uomini ai miei occhi divengono giganti,» diceva un grande poeta. Ahimè, non gli eroi omerici che il cavalier Camuccini si illuse di rappresentare, ci daranno questa sensazione di magnificenza e di ampiezza e di eternità, ma una quieta pianura dipinta dal Vertunni o un semplice ciuffo d'erbe dipinto dal Palizzi o una nuvola sul tramonto dipinta dal Fontanesi, perchè questi hanno visto e hanno reso la natura con semplicità d'amore.

[225]

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