IV.

Però anche una grande lirica ebbe l'Italia del Quarantotto; e fu l'inno del Manzoni. Fatto curioso! Questo inno è il peana del Quarantotto, ma venne composto nel Ventuno:

Soffermati sull'arida sponda

Volto il guardo al varcato Ticino,

Tutti assorti nel nuovo destino,

Caldi in cuor dell'antica virtù,

L'han giurato!...

[20]

La verità è che nel Ventuno il Ticino non fu varcato. L'inno in sè stesso rappresentava un'aspirazione poetica dell'anima di Manzoni, il quale, come vide che al carme non corrisposero gli eventi prese questo partito: non scrisse, non pubblicò, e nemmeno affidò alla carta questo volo, questo sprazzo della sua anima poetica. Egli volle tenerlo gelosamente chiuso nel suo cuore come la parola dell'avvenire; egli l'avrebbe poi detta questa parola quando fossero giunti gli avvenimenti che essa affannosamente invocava. E di fatti, allorchè scoppiarono i grandi avvenimenti, quando non parve più un sogno lontano la redenzione della patria, allora Alessandro Manzoni scrisse l'inno pensato e meditato già da ventisette anni e lo pubblicò, dopo che (e questo va notato) egli aveva messo senza paura il suo nome sotto una protesta contro l'Austria, una protesta che, date le circostanze, poteva benissimo costargli la vita, poichè eravamo proprio alla vigilia delle Cinque Giornate. Allora finalmente, da un capo all'altro della penisola, risuonarono le affettuosissime voci:

Cara Italia! dovunque un dolente

Grido uscì del tuo lungo servaggio

Dove ancor dell'umano linguaggio

Ogni speme deserta non è;

[21]

Dove già libertade è fiorita,

Dove ancor nel silenzio matura,

Dove ha lacrime un'alta sventura

Non v'ha cor che non batta per te.

Alessandro Manzoni era stato dunque poeta e profeta; poichè aveva fin dal Ventuno vaticinato il grande consenso di tutto il mondo civile alla causa italiana. Nel Quarantotto infatti, tutto ciò che vi era di buono e di generoso nell'Europa civile di quel tempo, si raccoglieva veramente intorno alla rivoluzione italiana e faceva voti per lei.

La grande poesia del Quarantotto dunque, come vi ho detto in principio, o Signore, sta nei fatti principalmente e nelle condizioni degli animi.

E questo è ciò che quasi sempre si avvera. Non domandate che la poesia si renda interprete di ciò che avviene nel cuore umano quando il cuore umano è gonfio di passioni, quando la passione grida essa impetuosamente le sue voci non traducibili con parola precisa. Vi è una legge psichica di cui fanno testimonianza le storie di tutte le letterature, o Signore: i due grandi fattori della poesia sono, da una parte, l'aspettazione e la speranza che guardano innanzi, dall'altra il ricordo e il desiderio che si volgono indietro. La poesia o spera o ricorda. Quando l'uomo ama nel parossismo della sua passione, [22] sia anche poeta come Dante e come Petrarca, non aspettate da lui dei versi d'amore. I versi d'amore egli li compone, e sono veramente degni dell'arte, quando spera e sogna la felicità agognata, oppure quando ricorda con dolcezza e con tristezza la felicità che è fuggita da lui. Questi i due momenti psichici, i due fattori veri della poesia. Quello che avviene degli individui, doveva anche avvenire nella grande collettività del popolo italiano. Non è nell'orgasmo, non è nell'esaltazione, non è tra le luminarie e i baccani e le ansie dell'aspettazione, che la musa (la quale come disse Parini, formulando un canone eterno dell'arte «orecchio ama pacato e mente arguta e cuor gentile») poteva meditare e comporre il grande carme degno degli avvenimenti.

La poesia, lo ripeto, fu nei fatti. E se qualcheduno di questi fatti vogliamo ricordare, io potrei dirvi che la più alta poesia del Quarantotto esalò da un meraviglioso accordo, che i fatti inaspettati fecero balenare alle anime pensose e aspettanti di tutto il mondo civile, tra l'amore della libertà e l'amore della religione. Fu davvero un momento storico, meraviglioso, o Signore; perchè, se voi percorrete la storia del nostro Risorgimento, voi troverete che nessuno ha mai detto e spero che nessuno [23] dirà mai che fra amor di patria e religiosità vi sia un dissidio incompatibile. Ma è un fatto, che una certa diffidenza fra l'una cosa e l'altra vi è sempre stata, e purtroppo vi è ancora. Da Dante Alighieri, di cui il cardinale Beltrando Del Poggetto voleva disperder le ceneri perchè lo aveva in odore di eretico, alle censure ecclesiastiche dei libri di Antonio Rosmini, i sintomi e i sospetti di questo dissidio (non diciamo ora per colpa di chi) si sono sempre, più o meno, manifestati in Italia. E non fu questa l'ultima causa (diciamolo con coscienza d'uomini liberi) delle nostre divisioni e della debolezza nostra di fronte alle altre nazioni!

Poco prima dell'epoca di cui ci occupiamo, Giuseppe Mazzini aveva inalberata una fiera tradizione ghibellina, che non ammetteva patto nè temporale nè spirituale col sacerdozio cattolico. Cesare Balbo invece questo patto lo accettava e lo voleva. Si formò insomma una tradizione neoguelfa accanto a quella tradizione ghibellina; e gli animi ne rimanevano perplessi e dolorosi; e le coscienze timide non sapevano a cui fidarsi. L'amore di patria, come tutte le sante cose che la natura istilla nel cuore dell'uomo, mandava le sue querule voci, ma queste voci parevano superate e fatte tacere da una voce anche più autorevole.... Quando, a un tratto, ecco [24] che un vento liberatore spazza via tutta questa nebbia e nel cielo rasserenato appaiono congiunte, affratellate, la patria e la fede, perchè Pio IX dal balcone del Vaticano aveva benedetto l'Italia.... Ecco uno degli aspetti veramente poetici del Quarantotto! Un altro aspetto egualmente poetico di questa epoca, anch'esso intimamente connaturato colla storia, risultò da questo, che il movimento politico redenzionista suscitatosi nella penisola e in essa maturato con lunga preparazione, mercè l'apostolato del Manzoni, del Balbo, del Gioberti, del Rosmini, del Troia, e dello stesso Mazzini, si differenziò dai movimenti anteriori per la sua maggiore modernità. Guardate infatti: dal '96 al '31 gli Italiani erano insorti sempre in nome di un ideale classico molto austero e molto elevato, ma un po' troppo lontano dalla immediata percezione del nostro sentimento. Era il grande ideale classico di Roma antica, erano i fasci, i littori, la grande Repubblica conquistatrice del mondo, e tutto quell'insieme di reminiscenze e di anacronismi, che il Giusti aveva già schernito colla frase «i grilli romani.» Invece il Quarantotto, preparato da tutta una letteratura e da tutta una cultura italiana più moderna, richiamò il sentimento della nazione a qualche cosa di meno devulso, di meno separato da noi. Per forza di avvenimenti [25] l'Italia del Quarantotto non mira più a Roma antica, mira piuttosto al Medio Evo; voglio dire a quello che il Medio Evo conteneva di tradizione ancora viva, ancora permanente in mezzo a noi. Lo stesso neoguelfismo aiutava in questo. Quindi i poeti evocano, piuttosto che Roma antica e Bruto e i Gracchi, la Lega Lombarda e le Crociate; e i giovani volontari vanno al campo avendo sul petto una croce fiammante che significa insieme un ideale politico e religioso. Il Quarantotto evoca i liberi Comuni d'Italia, insorgenti eroicamente in nome dei loro civili diritti, in nome dei loro focolari e delle loro chiese, e combattono e vincono l'Imperatore. Legnano, Roncaglia; ecco i nomi che fervono nelle menti, che splendono alla fantasia come dei fari!

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