IX.

IL NEMICO.

Verso i 15 di marzo '48, erano in Italia 70,000 soldati dell'impero divisi in due corpi d'armata, il primo col comando a Milano, il secondo a Padova.

Duce di questo esercito solido, ma disseminato nelle varie città del Lombardo-Veneto, oltre il Po e sulla frontiera del Ticino, era il Radetzky, maresciallo [102] energico, buon comandante di truppe, feroce repressore di rivolte popolari. Aveva 81 anni.

Un terzo de' soldati imperiali erano italiani, e 20,000 di questi, cioè quasi tutti, si allontanarono a tempo opportuno dalle insegne imperiali in un con 200 ufficiali de' nostri.

Era questa una massa organica di veri soldati, che avrebbe potuto inquadrare le nuove reclute nazionali; necessitava perciò rapidità e mano di ferro, invece le continue incertezze, sia de' governi locali, sia della repubblica veneta, mutarono quella forza in elemento di disordine, che fu mestieri sopprimere, sciogliendo d'ogni obbligo militare gli Italiani, già soldati dell'Austria.

I generali austriaci non avevano una esatta idea della tempesta che sorda ruggiva. Il moto popolare era già iniziato in tutte le città italiane, ed essi credevano d'essere ai giorni in cui Silvio Pellico passeggiava per le vie di Milano, credevano cioè che non fossero se non pochi congiurati delle classi alte, che tramassero a' danni di Casa d'Austria. Le forche, e le mude dello Spielberg, avevano invece compiuta la loro silente propaganda nell'intelletto delle moltitudini.

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