III.

Indicibile a quell'annunzio l'agitazione e il fermento di tutta Europa. La Germania sembrava ad un tempo un mercato aperto agli stranieri d'ogni nazione, un campo di guerra alla vigilia della battaglia. Dovunque una gara affannosa di promesse e di offerte da gentiluomini che si spacciavano per potenti, e di mercenarii millantatori. Traversavano del continuo il territorio dell'Impero i corrieri di Spagna e di Francia, recanti dispacci alle corti dei grandi elettori, s'incrociavano ad ogni ora gli agenti diplomatici dei due monarchi con le brillanti scorte degli uomini d'arme, dei carriaggi e dei servi. Ritiratosi dal concorso Enrico VIII il defensor fidei, dolorosamente convinto che Leone X giuocava a doppia partita, e incoraggiava le pratiche del re di Francia, questi, vivente ancora l'Imperatore, con larghe profferte di denaro, con promesse di titoli, e laute pensioni s'era guadagnato il voto di quattro elettori. Un ardito gentiluomo, Francesco di Sickingen, fattosi in quei tempi di disordine pubblico, e di sanguinose guerre private, il giustiziere, come dice bene il De Leva, di gran parte della Germania, prometteva al re straniero l'appoggio delle sue armi. Dal romito castello di Ebernburg, dove l'audace venturiero, allievo di Reuchlin, si compiaceva tra una mischia e l'altra di accendere tra gli amici di Wittenberg dispute teologiche e letterarie, venivano del continuo i messi di Francia, e vi ritornavano carichi d'oro. Ma il vecchio [10] Imperatore vigilava quei passi. Nel convegno d'Absburgo rannodava in segreto le fila de' suoi partigiani con un sacrificio di mezzo milione di fiorini. Più tardi persuase il Sickingen a mancar di fede a Francesco I, e a impugnar la spada contro il duca Ulrico del Würtemberg per assicurare col trionfo della lega Sveva, l'elezione di suo nipote. Non l'appoggio incondizionato del papa, che avversava le pretese del re spagnuolo onde avvantaggiare gli interessi Medicei, e per impedire che un re di Napoli, violando la bolla di Clemente IV, salisse all'Impero, non la fede mantenutagli all'ultima ora da Gian Federico duca di Sassonia e dall'arcivescovo di Treveri, garantivano a sufficienza l'elezione di Francesco I. Nè gran fatto giovò alla sua causa l'orazione efficace, persuasiva, solenne, che nella dieta raccoltasi a Francoforte il 18 giugno 1519 pronunziò in suo favore il dotto arcivescovo, sperando dissipare la forte impressione che le brevi parole pronunziatevi dall'elettore di Magonza aveano lasciato su gli animi dei convenuti. “Se noi dovessimo interpretare alla lettera la bolla d'oro, così l'arcivescovo di Treveri, dovremmo escludere come stranieri e Carlo e Francesco. Voi affermate che è titolo sufficiente di capacità all'elezione per il primo il possesso di molte provincie dell'antico Impero, quasichè il re di Francia non sia signore legittimo del regno di Arles, e del ducato lombardo. Ma eleggendo Carlo voi lo sforzerete a ritoglier Milano ai Francesi, e incoraggerete gli Osmani a invadere l'Ungheria. Quando invece s'imponesse a Francesco I l'impegno di non tentare l'acquisto del reame di Napoli e di non violare le frontiere della Fiandra, egli si troverebbe necessariamente obbligato a impugnare le armi contro i Turchi per la difesa della Germania, divenuta per lui la sentinella avanzata del proprio regno.„ Nè l'arcivescovo di Treveri si ritenne, accennando al riconosciuto valore, e alla saggezza politica del re di Francia, [11] e contrapponendola alla giovinezza inesperta di Carlo, di eccitare ancora una volta il geloso sentimento nazionale tedesco, col pauroso sospetto sulla orgogliosa durezza degli Spagnuoli. Se non che questi argomenti, e la proposta che poteva sembrare più saggia, che cioè esclusi i due rivali, la scelta cadesse su di un principe tedesco, non trovarono favore nell'assemblea. Prevalente la lega sveva, compra dall'oro spagnuolo e fiammingo la maggioranza degli elettori, già segretamente proclive Leone X a non intralciare i disegni di Carlo, se eletto, la vittoria così a lungo contrastata, e comprata a così caro prezzo, finalmente gli arrise. N'ebbe notizia Francesco I a Poissy il 3 luglio 1519, e seppe far buon viso a cattiva fortuna. Dicesi anzi che si compiacesse dello smacco patito come di un evitato pericolo, di cui non avesse misurato abbastanza la gravità e la minaccia.

Ma l'elezione di Carlo V all'Impero recava con sè gravissime conseguenze. Turbata la proporzione di forze tra i due rivali, aprivasi di nuovo l'Italia a teatro di guerra, e ne sarebbe stata ancora Milano la preda agognata. Le condizioni imposte a Carlo V dagli elettori, egli avrebbe potuto impunemente violarle perchè mancavano di ogni efficacia coattiva. Distratti i due principi da ambiziosi ed esterni disegni, avrebbero tentato subito d'accrescere il completo assoggettamento dei loro regni ereditarii, soffocando Carlo gli ultimi aneliti della indipendenza politica della Spagna, tenendo in freno Francesco I gli ardori ribelli dell'antica feudalità. Per più di vent'anni la disputata egemonia dell'Europa, derivante dal possesso d'Italia, terrà lontano Carlo V dalla Germania, e le nuove dottrine religiose, incoraggiando le ribellioni dei principati laici feudali, vi troveranno libero il campo ad una espansione feconda. Francesco I ne diverrà per mire politiche l'interessato difensore, provocherà gli Osmani contro l'Impero, arresterà ancora per qualche tempo il trionfo [12] delle armi e delle idee spagnuole, allontanerà la minaccia della reazione politica e religiosa.

Vano sarebbe fantasticare se la elezione del re di Francia avrebbe serbato un miglior destino all'Europa. Più tosto domanderemo a noi stessi se il persistente concetto della monarchia universale cristiana, sopravvivente in contrasto al diritto pubblico della Germania, giustifichi a sufficienza il nuovo e strano spettacolo di una corona così accanitamente disputata fra i due più potenti principi del Cinquecento. Non orgoglio di monarca, non fervore di fede cattolica destavano nel successore di Clodoveo e di Carlo Magno così forte ambizione. Noi dobbiamo scorgerne i fondamenti in quella generale corrente di simpatia, che era stata ausiliaria efficace delle sue prime fortune. Il secolo dell'Umanità e della Rinascenza parve quasi che a lui, interprete degno del suo stesso spirito, volesse affidata la fase della civiltà nuova. Superiorità morale incontrastata, animo aperto ad ogni senso di modernità, ad ogni forma di bellezza classica, i contemporanei ammiravano Francesco I restauratore della dignità nazionale, e benefattore illuminato di un popolo, che trasformando i suoi rozzi costumi, riformando le leggi, educandosi all'arte, perfezionando i metodi della scienza, traeva dalla conquista i vantaggi più duraturi. Già fin d'allora brillava di vivissima luce la corte di Francesco I, e vi trovavano protezione efficace i dotti d'ogni paese. I più coraggiosi preparatori della Riforma, gli umanisti teologizzanti, che circondavano a Wittenberg Martino Lutero, o ne interpretarono il pensiero nelle tumultuose diete imperiali, serbavano per la maggior parte grato ricordo delle scuole francesi, dell'amicizia di quei dotti, della liberalità di quel Re. Gioachino d'Hohenzollern margravio del Brandeburgo, nel compromesso da lui firmato il 17 agosto 1517 a favore di Francesco I, dichiarava che ad impegnare il suo voto [13] per lui lo inducevano sopra tutto la fama, e l'umanità di quel principe, omai nota a tutto il mondo. Omaggio doveroso da vero di un tedesco, già disposto a svincolare la sua coscienza dal dogma cattolico, verso l'amico e il protettore di Erasmo, verso il principe che più tardi fece della Francia un asilo sicuro all'arte e alla libertà italiana.

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