LA MUSICA NEL SECOLO XVI

DI

G. A. BIAGGI

“Di tutte le opere dell'uomo (scrisse ne' suoi Ricordi Massimo D'Azeglio), la più meravigliosa ed insieme la sola per me inesplicabile, è la musica.

“Capisco la poesia, capisco la pittura, la scultura, le arti d'imitazione insomma. Il loro nome ne svela la origine. V'era un modello, la umanità v'impiegò secoli per imitarlo, e finalmente lo imitò.

“Capisco le scienze. Dato il raziocinio, non trovo difficoltà a comprendere che, profittando ogni età delle riflessioni dell'età antecedente e, per così dire, salendo sulle sue spalle, la umanità si sia inalzata al punto al quale oggi si trova.

“Ma dove diamine siamo andati a cercare la musica? Questo è quello che non capisco.

“La musica è un: Mistero.„

Il D'Azeglio disse benissimo. Così nella sua essenza come ne' suoi effetti, la musica è un mistero.

Le arti del disegno hanno elementi determinati, costanti e invariabili nel mondo fisico. La musica, al contrario, [388] col mondo fisico non ha nè legami nè attinenze di sorta. Pur col ritmo o col suono, che sono i primi suoi elementi, ella è già nel campo della idealità.

Il suono, considerato in sè stesso, ha proprietà e leggi ben note al cultore dell'acustica. Ma quelle proprietà e quelle leggi, almeno sino ad ora, con la musica non han nulla a vedere.

Quando dai calcoli e dalle dimostrazioni dell'acustica, passiamo a ciò che costituisce il linguaggio musicale, alle attrazioni de' suoni, alle loro repulsioni, alle loro energie, alla potenza che hanno di destare in noi diversi ordini di sentimenti e commozioni vive così da mutare in un attimo lo stato dell'animo nostro, tutto è mistero.

A' giorni nostri, col Tyndall e coll'Helmholtz, la scienza acustica ha fatto un gran cammino, è giunta ad un meraviglioso grado di sviluppo; e si dice da non pochi, che nell'opera di quegli illustri uomini è a vedersi: un ponte gettato fra la scienza e l'arte.

Ebbene, o Signore e Signori, io avrò torto, è facile, pur troppo; sarò cieco (può darsi anche questo), ma quel ponte non mi venne mai fatto di vederlo - e non lo vedo.

Per me, gli ultimi progressi dell'acustica lasciarono le cose in quel medesimo stato ch'eran prima.

La scienza è da una parte ricca di verità dimostrate e provate, di scoperte fortunatissime, di postulati irrecusabili. L'arte è dall'altra parte, bella, attraente, luminosa, - se si vuole; ma in tutto, come prima, legata all'empirismo. E fra l'una e l'altra, nel luogo dove dovrebbe essere il famoso ponte, impedimenti e barriere senza numero, lacune, pozzanghere, scogli ben alti e ben irti, e una rete fitta e imbrogliatissima di viottole, quali senza uscita, quali ripiegantisi oziosamente sopra sè stesse.

E come coll'acustica, la musica non ha nulla a vedere colla matematica.

[389]

Tollerate, o Signori, ch'io insista a dire delle teoriche, - perchè il saper bene di dove vengono e ciò che sono, è imperiosamente voluto dal concetto che informa il discorso ch'io sto infliggendovi.

Se stiamo a quanto raccontano Porfirio e i filosofi della scuola d'Alessandria, Pitagora sarebbe stato il primo ad affermare: “essere la musica una scienza figlia della matematica.„ Com'egli voleva spiegare la perfezione della causa prima, l'essenza dell'anima umana e le leggi tutte della natura a forza di numeri, così a forza di numeri voleva pur spiegare l'essenza e gli effetti della musica.

Quel concetto, con Tolomeo, con Macrobio, col Boezio, col Galilei, padre e figlio, coll'Eulero, col Rameau, coi Tartini e con altri di minor nome, attraversò i secoli e venne, vivacissimo sempre, sino a noi, quantunque validamente combattuto da Aristosseno, da Aristide Quintiliano, dall'Eximeno, dal Requeno, dal D'Alembert, dal Fétis; - quantunque dimostrato erroneo dalla costante e intera sua sterilità e dalla sua inettezza a piegarsi e ad acconsentire come che sia, ai modi e ai bisogni della pratica.

Che quel concetto di Pitagora fosse vivo e ben vivo nel secolo XVI, lo sappiamo dal Fogliani, e, più esplicitamente, da Giuseppe Zarlino: teorico famosissimo di quel secolo.

Zarlino, nelle sue Istituzioni armoniche, racconta sul serio che Tolomeo, accettata la dottrina pitagorica, vi portò di suo una inversione. E cioè: mentre Pitagora voleva spiegare la musica con la matematica, Tolomeo voleva spiegare la matematica con la musica. E applicando quella sua idea alla astronomia, insegnò: che dalla Terra alla Luna, corre l'intervallo di un tono, e un semitono da Mercurio a Venere, e da Venere al Sole un tono e un semitono, da cui venne a stabilire: che dalla Terra al Sole corre preciso preciso l'intervallo di quinta.

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Zarlino, che fu pure un forte ingegno e un uomo cultissimo, ammise senz'ombra di difficoltà quella teorica, e riconobbe: che le distanze correnti fra i pianeti e quelle correnti fra gli intervalli musicali si corrispondono con meravigliosa esattezza, che si combaciano addirittura. Tanto da poter concludere: che, veramente, le leggi della musica si dovrebbero desumere da quelle che governano i movimenti degli astri. Ma non ammise però l'intervallo corrente fra la Luna e la Terra. E combattendo Tolomeo, ecco come argomenta: l'intervallo suppone necessariamente due suoni. Ora, nel caso, di cui trattasi, uno di que' due suoni move dalla Luna; e si capisce, sta bene. Ma l'altro suono dovrebbe muovere dalla Terra: e questa (son sue parole) è cosa fuori d'ogni ragione, conciossiachè (s'avverta che l'Eppur si muove di Galileo uscì quaranta o cinquanta anni dopo) conciossiachè non può essere che quelle cose le quali per loro natura sono immobili, com'è questo elemento che dicesi Terra, siano atte a generare l'armonia.

Nè la astronomia cessò di essere associata alle teoriche musicali con lo Zarlino. Un buon secolo dopo, e precisamente nel 1657, il padre Girolamo d'Avella uscì a distinguere e a classificare i Toni, secondo la influenza che subiscono, o del Sole, o della Luna, o di Giove, o di Venere, o dei segni dello Zodiaco; non senza fare una classe a parte per quelli che van soggetti alle eclissi.

E di teoriche battute a questo conio, senza ferme basi, non altro che speculative, arbitrarie e non di rado assurde, più e più altre. E chi dicesse che dal più al meno sono tutte così, per me non andrebbe molto lontano dal vero.

Da questo: la teorica che contraddice e s'oppone alla pratica; la musica plumbea e assiderata delle scuole; e la musica viva, vivificante ed alata che viene per diretto da Dio e dalla natura.

[391]

I musicisti pratici, i valenti davvero e, più specialmente que' fortunati intelletti che si dicono genii, non attesero mai a dettar regole nè a compilare trattati, e scrissero sempre come loro dettavan dentro la fantasia e il cuore. E i trattatisti abbandonati a sè stessi, ostinati nelle loro speculazioni, incatenati alle loro formule e ai loro pronunziati come se fossero dogmi (quantunque perpetuamente inapplicati), riusciron sempre e pressochè tutti alla saccenteria e alla pedanteria, presi i vocaboli nel peggiore loro significato. Il che vien dimostrato a luce meridiana dal fatto, che nell'arte musicale nessun savio tentativo, nessuna innovazione, nessun miglioramento, per quanto voluto dalla ragione, potè farsi strada e stabilirsi, senza destare le ire, non sempre incruente, e le imprecazioni dei precettori e delle loro scuole. E fu così in ogni tempo. Timoteo venne condannato all'esilio dagli Efori di Sparta, reo d'aver aggiunta una corda alla lira. Guido d'Arezzo che ideò il Rigo (senza il quale la musica non sarebbe stata mai un'arte), e che trovò il modo d'insegnare in pochi giorni ciò che prima richiedeva dieci e più anni di studi, Guido ebbe a combattere con tutti i precettori de' suoi giorni; e se non fu condannato all'esilio, fu costretto (e a quel che pare, per disperazione) ad abbandonare il tranquillo ritiro della Pomposa e ad esiliarsi da sè stesso. Zarlino ebbe a vedere assalita di nottetempo la tipografia dove si stampavano le sue opere e trafugati e dispersi i suoi manoscritti. Contro il Monteverdi, perchè non obbediente ciecamente ai trattati, non fu insolenza e ingiuria che non venisse scagliata. E a quali censure e a quali fatti si lasciassero andare i trattatisti e i direttori de' Conservatorii contro il Mozart, il Beethoven, il Rossini e il Bellini, non istarò a dirlo, perchè storia notissima a tutti.

Tenuto fermo che nella sua essenza e ne' suoi principii attivi la musica è un mistero, che le sue teoriche [392] sono precisamente in quello stato che ho detto, è facile capire che, quanto alla sua didattica, tutto deve ridursi ad una serie più o meno logica di postulati e di precetti empirici.

Tant'è. Ma v'ha empirismo e empirismo. V'ha quello che l'Humboldt ammetteva persino ne' severi procedimenti delle scienze; quello cioè, che raccoglie i fatti, che li analizza, che li aggruppa secondo le analogie, e che opera sempre col soccorso di ipotesi stabilite su cognizioni accertate. E v'ha l'empirismo inculto, cieco, che tende sempre al basso, e che ha parentele vive e pericolosissime con la ciarlataneria. E quest'ultimo, mi duole di doverlo dire, nelle scuole musicali è il dominante.

S'aggiunga, a dimostrar meglio quanta ragione s'abbiano coloro che dicono la musica: una scienza, che quel secondo empirismo, così inculto e cieco com'è, dalla teoria passa intatto nella storia, da cui viene, comunissimo a non pochi scrittori e ad un nuvolo di compilatori, un “maiuscolo paralogismo„ quello di ritenere come inerenti alla natura e all'essenza dell'arte, i risultati delle speculazioni dirette ad intenderla ed a dichiararla; senza fermarsi ad osservare che le speculazioni possono essere mal fondate, mal condotte e riuscenti per necessità logica al falso.

Ond'è che, pur a' giorni nostri, si dice e si stampa, ad esempio: che ne' secoli decimoquarto, decimoquinto o decimosesto, alla musica mancavano gli intervalli e gli accordi più essenziali.

Ma mancavano alla musica proprio, o sfuggirono alle analisi de' teorici? o è, come è da credere, che i teorici, piena la mente di preconcetti, non li seppero trovare o non li vollero vedere?

Agli scrittori e ai compilatori de' quali parlo, que' dubbi non caddero in mente; e, stretti al fatto che la teorica non fa parola di alcuni intervalli e di alcuni accordi [393] che assai tardi, han creduto ed insegnato (e seguitano a credere e ad insegnare) che sino allora quegli intervalli e quegli accordi non c'erano, o, come pur dicono, non esistevano!! Quanto credere e insegnare che prima del Cesalpino il sangue umano non circolava, e che al tempo di Tolomeo il cielo non era che una gran vôlta di cristallo bucherellata qua e là dalle stelle!

In ciò che ho detto sin qui, stanno le cagioni principalissime che in ogni tempo resero incerto, faticoso e incredibilmente lento il cammino dell'arte de' suoni. Lento per modo, che a quel grande e mirabile movimento intellettuale che iniziato da Dante giunse a Raffaello, al Buonarroti, all'Ariosto e al Machiavelli (al Risorgimento, in una parola), ella rimase in tutto e per tutto estranea.

Sul principio del secolo XVI, mentre la poesia, la pittura, la scultura, l'architettura correvano trionfanti per vie tutte luce e splendori, la musica anfanava nelle tenebre, smarrito affatto il sentimento del bello, avversa ad ogni sano intendimento estetico, avversa, e pertinacemente, a tutto ciò che poteva redimerla.

Che se n'era egli fatto di quel canto che Dante sentiva nell'anima, che quetava tutte le sue voglie, e pel quale rese immortale il Casella? Sparito, interamente sparito.

Può supporsi che di quel canto rimanessero traccie nelle Laudi spirituali, nelle canzoni popolari e in quelle de' Cantarini o Cantori da panca stipendiati da' Comuni, o in quelle, più probabilmente, de' Cantori a liuto; ma nella musica che tenevasi in dignità di arte, nè traccie, nè indizii.

Sul principio del cinquecento, imperava la scuola Fiamminga; una scuola sorta nelle Fiandre sullo scorcio del trecento; che si distese, dominatrice assoluta, per tutt'Europa; [394] che idoleggiava l'artifizio; e che, in conseguenza, non solo non faceva il menomo conto, ma teneva in intero dispregio, così il canto come la melodia: elementi troppo semplici, troppo bassi e volgari per poter entrare a far parte del legittimo patrimonio dell'arte.

Sin dove trascorressero i compositori di quella scuola cogli artifizii del contrappunto non è a dire. Chi avesse la pazienza di descrivere lo strazio ch'essi fecero della povera musica, fornirebbe alla storia dei delirii umani uno dei più curiosi e strani capitoli.

In ordine ai contrappunti, con gli ostinati, coi perfidiati, coi cancherizzati, con quelli alla zoppa e in salterello, essi giunsero ai retrogradi contrari i quali si dovevano eseguire, prima tenendo il foglio pel suo diritto, poi capovolgendolo pel rovescio. Da cui seguiva (difficoltà pel compositore da far strabiliare!) l'invertimento delle parti; quelle che per un verso eran del soprano, del contralto, del tenore e del basso, per l'altro verso eran quelle del basso, del tenore, del contralto, del soprano. E coi canoni giunsero agli enigmatici, per sciogliere i quali davasi con un motto, una specie di traccia. Ad esempio: Sol post vespera declinat, con che avevasi a intendere che ad ogni ripresa, il canone doveva abbassarsi di un tono. Scempiaggini, stranezze, deliri, - lo accordo.

Ma non accordo si possa dire però coi seguitatori dell'Helmholtz, che le opere de' Fiamminghi non sono altro che tours de force senza valore musicale.

Senza valore estetico, sì. Ma senza valore musicale, no. Perchè quella parte dell'arte che dicesi estetica potesse esplicarsi liberamente e alzarsi alla bellezza espressiva, era necessario che la parte tecnica si componesse prima in un certo ordine e acquistasse una certa fermezza. E questo fecero i Fiamminghi indubbiamente. Posta negli strettoi dei loro artifizi, la materia dell'arte [395] si rese pieghevole ed atta ad una infinita varietà di atteggiamenti e di forme. In que' giri tortuosi, in que' continui avvolgimenti e contorcimenti cui erano forzatamente condotti, i suoni si mostrarono sotto tutti gli aspetti e rivelarono intera l'indole loro.

Non è poco. Ma in ogni caso, c'è da aggiungere che ai Fiamminghi andiamo debitori del contrappunto, e che il contrappunto, per quanto inestetico, ne' suoi principii e ne' suoi intenti, per quanto empirico nelle sue applicazioni scolastiche, o volere o volare, è ancora il fondamento de' buoni studi di composizione. Che che si dica, il compositore non contrappuntista, sarà sempre un compositorello; un canzonettaio.

Per ciò che fecero in favore della didattica, i Fiamminghi potrebbero andar assolti d'ogni peccato risguardante l'estetica.

Ma di peccati ne commisero altri, e non posso tacerli.

Non uno di que' compositori che avesse cura di mettere in una certa armonia, almeno, il carattere e la espressione delle note, col testo e col significato delle parole. A questo non badavano per nulla. Fra le Messe e stampate e manoscritte, appartenenti a quel tempo, ne ho trovate parecchie, nelle quali sotto le prime note de' pezzi, leggevasi o Kyrie o Gloria o Sanctus, ma dopo queste, non più parole. Nè si pensi che così facessero o gli stampatori o i copisti a risparmio di tempo e di fatica. Come attestano gli autografi, facevano così gli stessi compositori. E la prova provata che alle parole non avevan badato, esce da questo, che ad adattare sotto le note gli interi versetti, non si riesce che a stento, e non senza ripetizioni e storpiature.

E non è tutto. Alle parole prescritte dalla liturgia, ne aggiungevano altre a capriccio. In una Messa avente a tema l'Ave Maria del canto fermo, si canta contemporaneamente dai soprani il Kyrie, dai contralti il Gloria, [396] dai tenori il Credo e dai bassi l'Ave Maria per disteso.

E non è tutto ancora. Si fece mille volte peggio. Non contenti dell'accoppiamento di parole diverse, ma sacre, vennero all'accoppiamento di parole sacre e profane, - e di che tinta profane! In una Messa dell'Obrecht, al primo Kyrie, il tenore canta, in volgare: Io non vidi mai la più bella! Al Christe: Oh! buon tempo! Al secondo Kyrie: Dove potrò mai trovarla! All'Osanna: Il segreto del mio cuore! E al Benedictus: Signora, fatemi sapere se....

E Messe così fatte, incredibile a dirsi! erano cantate alla presenza del Papa e dei Cardinali da quella Cappella Sistina che salì dopo in tanta e così bella rinomanza.

A quella maniera di Messe, che era, insieme, un pervertimento artistico e morale, si venne accomodando di punto in punto la esecuzione. Di questo ne fa certi la risposta del cardinale Domenico Capranica, reduce dalla Nunziatura di Lisbona, data al papa Niccolò V, quando lo richiese del suo parere intorno al merito de' famosi suoi cappellani cantori: Santità, disse schietto il Cardinale, mi par di udire una mandra di porcelli che grugniscono a tutta forza, senza proferire un suono articolato, non che una parola.

Giunte le cose a tale estremo, si sentì il bisogno di porvi rimedio; e vi si pose.

Ma, come corse per secoli in tante e tante opere pretese storiche, e come di quando in quando ritorna a correre negli scritti degli storici compilatori e dilettanti, chi fu il primo a trovare e a proporre il rimedio non fu il Palestrina. Bensì egli lo attuò e da par suo. Secondo quegli scrittori: il Papa Marcello II, scandolezzato e indignato de' tanti sacrileghi abusi, avrebbe formalmente licenziati i cappellani-cantori e posta la musica [397] al bando della Chiesa; e il Palestrina, poco dopo, con una castigatissima sua Messa avrebbe ottenuta la revoca di quel decreto. In questo nulla di vero.

La musica, intanto, non fu mai proscritta dalla Chiesa da nessun Papa. Quanto a Marcello II, può aversi per certissimo che della musica non s'occupò menomamente, perchè non ebbe il modo e nemmeno il tempo.

Marcello II, come abbiamo dal Polidori suo biografo, fu eletto la sera del 9 aprile (martedì santo del 1555) e volle essere consacrato vescovo e incoronato il giorno dopo: affine di potersi tutto impiegare in que' giorni cotanto santi, nei divini uffizi. E infatti non mancò a nessuna delle tante funzioni che si celebrano nella Cappella Sistina dal mercoledì santo al dì di Pasqua.

Il sabato in albis, Marcello II era a letto infermo, e dieci giorni dopo (il 30 dello stesso aprile) rese l'anima a Dio. In tutto, un pontificato di ventidue giorni, undici dei quali, di malattia. Ora, come e quando avrebbe egli avuto tempo e modo di pensare alla musica, e, cosa al certo di non piccolo momento, di decretarne la proscrizione? E dove, pel Palestrina, il tempo di comporre una Messa e d'apprestarne la esecuzione?

Sul conto di quella celebratissima messa (che venne poi dedicata alla memoria di papa Marcello) ecco la verità quale esce dai diari che si conservano nella Biblioteca della Cappella Sistina, e come l'abbiamo nella biografia del Palestrina scritta dall'abate Baini.

I cardinali Vitellozzi e Borromeo, deputati dal papa (Paolo IV) al riordinamento della musica religiosa ne' termini decretati nella sessione XXII del Concilio di Trento, posero per principio e stabilirono: I. che i Mottetti e le Messe con accoppiamenti di diverse parole, non dovevansi più eseguire; - II. che del pari non dovevansi più eseguire le Messe lavorate sopra temi di canzoni profane e laide; nè i Mottetti scritti da persone [398] private. - Si discusse quindi per definire se le parole sacre cantate dal coro si sarebbero udite più scolpitamente e sempre. I due cardinali desideravano che fosse; ma i cappellani-cantori risposero recisamente: che non era possibile. Instavano i cardinali: “Se le si possono udire e le si odono alcune volte, perchè non sempre?„ Replicavano i cappellani cantori: “esserne in colpa l'obbligo delle fughe e delle imitazioni che costituiscono il carattere della musica armonica; e che non era possibile privare la musica di quegli artifizi, senza snaturarla.„

In questa discussione vennero citati dai cardinali un Te Deum di Costanzo Festa, gli Improperi e alcuni pezzi della Messa: ut, re, mi fa, sol, la del Palestrina, come esempi (quanto alle parole) senza eccezione. Ma i cantori rispondevano: “che quelle erano composizioni brevi, e che nelle fughe, massime del Gloria e del Credo, non si sarebbe potuto ottenere in egual maniera la chiarezza delle parole, offuscate dagli imprescindibili giri e ritorni delle Imitazioni e delle Fughe.„

Venuti i dissenzienti a partito, fu infine risolto: si desse commissione al Palestrina di scrivere una Messa, che stesse in tutto alle prescrizioni de' due cardinali e nella quale le Imitazioni e le Fughe non impedissero in nessun modo le parole.

In luogo di una Messa sola, il Palestrina ne scrisse tre: delle quali, eseguite per prova in casa del cardinale Vitellozzi il 21 aprile 1565, venne scelta per acclamazione la terza.

In quella Messa, il Palestrina vince tutte le difficoltà, supera tutte le barriere e, ispirato, procede con la indefettibile sicurezza del genio. Nè artifizi di contrappunti, nè complicazioni di sorta, nè arruffii di parole; piena e maestosa la sonorità, severi i giri degli accordi, severe, ma nettamente disegnate e sto per dire melodiche, [399] le cadenze; solenne, tuttochè semplice, lo stile. Non una nota in quella Messa che non sia la rivelazione o la sanzione d'una sana regola dell'arte, mentre da ogni nota esala purissimo il sentimento religioso. Avuto riguardo alle condizioni in cui allora trovavasi la musica: un miracolo di bellezza.

Quando venne pubblicamente eseguita per la prima volta (il 19 del giugno 1565), Pio IV esclamò: “Sono queste le armonie del nuovo cantico che San Giovanni apostolo udì nella celeste Gerusalemme, e che un altro Giovanni (Palestrina) ci fa udire nella Gerusalemme terrestre.„

La Messa di papa Marcello nella cui musica è una così viva aspirazione alla melodia e al canto, scosse dalle basi il grottesco edifizio dell'arte fiamminga, ed è, incontrastabilmente, la pietra angolare dell'arte italiana; di quell'arte italiana che fu poi, sino a' giorni nostri, l'arte di tutto il mondo.

Del Palestrina, qui non saranno affatto fuor di luogo alcuni cenni biografici.

Il vero suo casato è Pierluigi, e il nome, Giovanni. Fu detto Palestrina dalla piccola città delle Romagne, dove nacque, per quanto si sa, nel 1524.

Chiamato alla musica da molte ed elette disposizioni naturali, si recò, giovinetto, a Roma, dove fu ammesso alla scuola, aperta poco innanzi da Claudio Goudimel, compositore di grande e meritata fama.

Da quella scuola, il Palestrina uscì maestro, tanto che nel 1551 venne nominato Direttore della Cappella Giulia in San Pietro Vaticano. Dalla Cappella Giulia passò alla Sistina (dalla quale fu poco dopo espulso, perchè ammogliato) e quindi alla Cappella di San Giovanni in Laterano, a quella di Santa Maria Maggiore, e di nuovo alla Giulia, in San Pietro, rimasta vacante per la morte di Giovanni Animuccia.

[400]

Il Palestrina fu uomo di specchiata onestà, di severi costumi e, come artista, indefesso al lavoro, operosissimo; - il che non tolse ch'egli non avesse sempre a combattere con le strette della povertà, mal bastando gli stipendi delle cappelle alle prime necessità della vita. Egli morì, assistito e confortato da San Filippo Neri, il 2 febbraio 1594.

Alla scuola del Goudimel, il Palestrina non è a farne meraviglia, s'era educato e fatto ai principii e al gusto de' Fiamminghi. Le prime sue Messe (pubblicate nel 1554) son tutte fatica e stento; tutte a imitazioni, a fughe, a canoni, a rodelli, a misure e andamenti binarii, posti a forza sopra misure e andamenti ternarii. Nè seppe guardarsi dagli strani accoppiamenti di parole. In una sua Messa, così nel Kyrie, come nel Gloria e nel Credo, v'ha sempre una parte che canta l'antifona: Ecce sacerdos magnus, ecc.

Nel Palestrina adunque sono a vedersi due compositori ben distinti fra loro: il fiammingo sino alla Messa di Papa Marcello, e da quella Messa in poi, l'italiano.

E se qui mi si domandasse: Dove le cause così determinanti dei decreti del Concilio di Trento e del programma de' cardinali Vitellozzi e Borromeo non fossero state, il Palestrina avrebbe abbandonata la prima sua maniera? E avrebbe trovata la seconda, passando in un subito da un gretto e pretenziosissimo meccanismo, ad una semplicità ispirata e che ha del divino?

Pur ammirando in quel compositore un maestro solenne e un altissimo ingegno a quelle domande io sarei tentato di rispondere negativamente.

I musicisti amano il suono; - ed è giusto. Ma del suono (chi non lo sa e non ne ha patito?) i musicisti non si contentano mai. Più ne hanno, più ne vorrebbero e, beatissimi, vanno al frastuono ed allo strepito. È questa, a mio avviso, una tendenza naturale e irresistibile. [401] Esperienza che oramai può farsi ogni giorno: le bambinette pei serii loro studi delle cinque note, vogliono il cembalo tutto aperto; e, se v'arrivano, andate franchi che il piedino sul pedale del forte, ce lo mettono e ce lo tengono. Dell'abuso della sonorità, i musicisti si son rimproverati sempre, a cominciare dal libro di Giobbe.

Quanto a spiegare la tendenza che è ne' musicisti, specie ne' compositori, al complicato e all'artifiziato, è presto fatto. Gli artifizi e le complicazioni, non richiedono nè altezza di mente, nè squisitezza di sentimento, nè vivacità di fantasia, nè estro, nè ispirazione. Basta ad essi ogni mezzano ingegno; bastano la pazienza e lo sgobbo. Convinto di questo, vo' pur convinto che dalla scossa, per quanto forte, avuta dalla Messa di Papa Marcello, la scuola fiamminga si sarebbe facilmente ripresa e avrebbe prolungato chi sa per quanto tempo ancora l'infesto suo dominio, se, provvidenziale, non veniva da Firenze la Camerata del conte Bardi del Vernio, colla riforma del melodramma.

Ottavio Rinuccini, Jacopo Corsi, Vincenzo Galilei, Girolamo Mei, Jacopo Peri, Giulio Caccini, e gli altri dotti e musicisti componenti la Camerata di Giovanni Bardi, che cosa han fatto?

Hanno inventato il melodramma;„ - così si disse universalmente sino a pochi anni sono; e così dicono ancora parecchi storici e scrittori, tuttochè eruditissimi e di polso.

Ma l'hanno veramente inventato? - Io non credo e penso non lo credessero nemmen loro, per questa semplicissima ragione: che il melodramma, notissimo a tutto il mondo, esisteva da secoli.

Il concetto di sposare la musica all'azione rappresentata, al dramma, ebbe applicazioni pratiche che rimontano ad una antichità remotissima. - Per trovarne [402] i primi tentativi converrebbe forse risalire con Origene e con Renan, al Cantico dei Cantici della Bibbia.

Ma, a non entrare nel campo delle congetture, questo è ora storicamente certo (grazie alle ricerche e agli studi del Westphall, del Bellerman e del Gevaert) che le tragedie e le commedie dell'antico teatro greco, eran veri e propri melodrammi seri e melodrammi buffi; ed è certo che Eschilo, Sofocle, Euripide, Aristofane, ecc., eran poeti e insieme compositori di musica.

Nei drammi liturgici dei primi secoli della Chiesa, nella tragedia: Cristo paziente di Apollinare d'Alessandria, un tempo attribuita a san Gregorio Nazianzeno, ne' drammi della Hrotswita, negli Atti sacramentali degli Spagnuoli, nelle Vergini saggie e nelle Vergini spensierate de' Tedeschi, nelle Moralità degli Inglesi e, insomma, in tutte quelle rappresentazioni che si comprendono sotto il nome di Misteri, la musica vi aveva una non piccola parte. V'erano canzoni, preghiere e cori. I personaggi principali, il Redentore, la Vergine, i Santi, gli Angeli, i Demoni, non parlavano mai altrimenti che cantando; e al canto s'accompagnava il suono di vari strumenti, arpe specialmente e piccoli organi portatili.

Nel 1285 Adamo de la Hale fece rappresentare a Napoli: Robin et Marion, un idillio, osserva il Renan, che ha molte analogie col Cantico dei Cantici. E nel Robin et Marion il concetto del melodramma è nettamente esplicato. Vi si trovano, in germe, e arie, e duetti, e ritornelli strumentali.

Dopo il Robin d'Adamo de la Hale, la storia registra come rappresentazioni accompagnate da musica vocale e strumentale: la Conversione di San Paolo del Baverini, San Giovanni e San Paolo, poesia di Lorenzo il Magnifico e musica di quel valente compositore Isaac che il Lasca ricorda col nome d'Arrigo tedesco; il Sagrifizio [403] del Beccari, posto in musica da Alfonso della Viola; l'Egle e l'Orbeck del Giraldi; gli Oratorii di San Filippo Neri musicati dall'Animuccia; il Satiro e la Disperazione di Fileno di Emilio de' Cavalieri e, infine, l'Amfiparnaso di Orazio Vecchi.

Come vedesi, il melodramma è assai più antico di quanto credono ancora non pochi; ed è chiaro perciò che quello uscito a Firenze negli ultimi anni del cinquecento, non era e non poteva essere una invenzione; ma sì, un perfezionamento o, piuttosto, come veramente fu e deve dirsi: una Riforma.

Per darsi conto ora di ciò che volle e operò la Camerata del Bardi con la sua Riforma, bisogna rifarsi ai Fiamminghi, e ricordare: che per loro la melodia e il canto non esistevano; ricordare che mettevano il sublime e il sommo dell'arte nello stile madrigalesco, nel contrappunto; e ricordare che non dubitarono (se ne tenevano, anzi!) di condurre con quello stile ogni maniera di composizioni: le religiose, le profane da camera, le Canzoni a ballo e le Canzoni a bere, le Ballate e le Ballatelle, le Villanelle, le Frottole, e persino quelle che dovevansi eseguire per le vie e sulle piazze a sollazzo del popolo, quali: le Maggiolate, le Mascherate, le Carrate, i Canti carnascialeschi, ed altre più.

Ora, come si potesse concepire l'idea d'applicare quello stile alla rappresentazione scenica, non si riesce ad intendere in nessun modo; ma sta in fatto che i Fiamminghi vollero ed ebbero il melodramma in stile madrigalesco.

Spregiato, dimenticato o voluto dimenticare, perchè essenzialmente melodico, il Robin et Marion d'Adamo de la Hale, che sta da sè, che nella storia è un fiore nel deserto, tutti gli altri melodrammi che ho citati dianzi sono condotti con quello stile; quanto dire che sono scritti per un coro di quattro, cinque e più voci; [404] e che quel coro, da un capo all'altro del dramma o della commedia, canta costantemente la parte di tutti i personaggi, uomini e donne, e così i soliloqui come i dialoghi, così le domande come le risposte.

Per quanto so io, l'ultima uscita di quelle opere fu l'Amfiparnaso d'Orazio Vecchi, rappresentata a Modena nel 1594.

Quell'opera s'apre, dopo un Prologo, con un dialogo fra Pantalone e il suo servitore Pedrolin, che comincia così:

Pant. O Pedrolin, dove sei? Dove sei, Pedrolin?

Pedr. Messere, sono in cucina.... e non mi posso muovere....

Pant. Ah, ladro! Ah, cane! e che cosa fai in cucina?

Pedr. M'empio la pancia con certi tali che, prima, cantavano tutto il giorno: piripipì, curucucù!

Pant. Ladro! tu vuoi dire galletti, galline, piccioni....

E con la citazione mi fermo qui.

Se avessi ora a domandarvi, o Signori, quante voci, quanti cantanti possono occorrere per eseguire sulla scena quel dialogo; tutti al certo rispondereste: due! uno a rappresentare Pantalone, e l'altro a rappresentare Pedrolin.

Ebbene, no! Alla vostra risposta i compositori Fiamminghi si sarebbero messi a ridere di compassione.

Come esigeva imprescrittibilmente lo stile madrigalesco, per eseguire quel dialogo occorre un coro composto di soprani, di contralti, di tenori, di bassi; e quel coro canta tanto la parte di Pantalone, quanto quella di Pedrolin; e così in tutto il rimanente della commedia.

Date, relativamente alla musica, queste condizioni, vorrebbesi pur sapere, in qual modo si venisse alla rappresentazione. Ma su questo punto corrono opinioni diverse. Chi crede che sulla scena uscivano soli i cantanti rappresentanti i personaggi e che il resto del coro [405] cantava, a così dire, dietro le quinte. Chi crede invece, che dietro le quinte cantava tutto il coro, e che sulla scena i personaggi venivano rappresentati da mimi; e chi crede e mantiene infine, che le opere in stile madrigalesco non venivano rappresentate, ma solamente cantate, come usò e usa anch'oggi degli Oratorii.

Sia come si vuole, questa è questione affatto secondaria. Ciò che preme e importa di mettere in sodo è che, prima della Riforma fiorentina, le opere teatrali, i melodrammi, si scrivevano a quel modo.

Sul conto dell'Amfiparnaso e del suo valore artistico, stimo inutile il far parole. Per me, e come commedia e come musica, è una poverissima cosa.

Ed eccoci alla Riforma fiorentina, il cui concetto venne nettamente dichiarato da quell'insigne scrittore che fu Giovanni Battista Doni.

“Questi virtuosissimi personaggi (egli parla d'Ottavio Rinuccini e di Jacopo Corsi) si possono dire i primi restauratori della musica scenica e autori dello Stile recitativo; imperocchè, riconoscendo che la maniera d'oggi non era troppo idonea alla espressione degli affetti e al cantare in iscena, e dall'altra banda avendo letto i miracoli che faceva anticamente la musica, fecero tanto coi più perfetti musici che si trovavano allora, che s'indussero a tentare una nuova strada, e a provare che riuscita farebbe una melodia che s'avvicinasse al parlare famigliare e movesse gli animi degli ascoltanti; - il che non potendo succedere senza far loro ben sentire le parole; e non potendo queste accoppiarsi con tanti artifici di contrappunto, vollero che, rimossi questi, s'attendesse solo ad un bello e leggiadro procedere, ed al fare il canto più naturale e vicino alla favella più che fosse possibile; onde conoscendosi che la cosa sarebbe ricevuta, fu composta dal signor Ottavio Rinuccini la Dafne, che fu rappresentata con plauso [406] grandissimo, essendo stata armonizzata dai signori Jacopo Corsi e Jacopo Peri.„

Nessuna ambiguità nelle parole del Doni.

I componenti la Camerata del Conte Bardi posero la mira alla espressione de' sentimenti e degli affetti, persuasi che, senza quella espressione, la musica non può essere mai altro che un rumore, più o men grato all'orecchio, ma vanissimo; un balocco per l'uditore e, pel compositore, un giuoco di pazienza.

Persuasi di ciò, que' valentuomini videro: che a muovere e a determinare la espressione de' sentimenti e degli affetti, doveva esser prima, la parola; videro che la parola non poteva esser prima se, comecchessia, impedita; videro che con le inflessibili sue esigenze, il contrappunto non poteva non impedirla e, sicuri e con mente divinatrice, tagliaron netto e corto.

Come aveva fatto il Palestrina (e come doveva, in vista della musica religiosa), i componenti la Camerata Bardi, non si tennero ad una mezza misura.

Ma con una innovazione che mai nel campo delle arti belle la più ardita e più radicale, condannarono il contrappunto tutt'intero qual era, capitalmente. Si misero innanzi, come bandiera, la nota sentenza di Platone: nel canto, il primo posto spetta alla parola, il secondo al ritmo, il terzo al suono; la adattarono alle possibilità del momento e ai mezzi de' quali potevano disporre; e argomentando dagli effetti ottenuti dalla melopèa greca e dall'arte di Archiloco, di Terpandro, di Talete, di Saffo, tolsero di mezzo la polifonia, s'attennero alla voce sola accompagnata da uno o più strumenti, e idearono il recitativo; o piuttosto lo inventarono, che qui, quel verbo torna a capello; perchè della melopèa greca mancavan loro interamente gli esempi pratici; e perchè insufficienti troppo all'uopo, i rari tratti recitativi che s'incontrano nel Passio del canto fermo.

[407]

Fortemente scossa dalla Messa di Papa Marcello, la scuola fiamminga ebbe dalla riforma melodrammatica fiorentina il colpo di grazia. E il mondo riebbe la musica!

La bontà e la saviezza de' principî estetici e de' criteri fondamentali che diressero le ricerche e gli studi de' riformatori fiorentini, non han bisogno d'essere dimostrate. Sono evidenti per sè stesse; e riescono evidentissime, se seguiamo il melodramma ne' suoi svolgimenti ulteriori.

Dal 1600 in poi, noi lo troviamo sviato e mal vivo ad ogni poco; quando per l'abuso delle rifioriture e de' passaggi di difficoltà cui si lasciano andare tanto volentieri i cantanti, a scapito della espressione poetica e drammatica; - quando per le complicazioni cui tendono incessantemente i compositori; - quando pel predominio della musica spinto tanto innanzi da nascondere e le parole e il dramma.

In seguito a quegli sviamenti, escono i riordinatori o, come si chiamano, i riformatori. Per non citare che i più famosi: il Glück nel secolo scorso, e il Wagner nel nostro.

Secondo la generalità degli scrittori, il Wagner, come riformatore, non fece altro che riportarsi al Glück. Il quale (sempre secondo quegli scrittori) è a reputarsi il primo, il vero, l'unico, il riformatore insomma per eccellenza.

Ma per me, non è tale davvero.

La riputazione di riformatore in che è tenuto quel valentissimo compositore, mosse tutta dalle Prefazioni poste innanzi alle sue opere: Alceste ed Ifigenia in Aulide. Ma in quelle Prefazioni, non una idea, non un concetto, nè una osservazione, che non si trovi negli scritti risguardanti la Riforma fiorentina, di Giovanni Bardi e di suo figlio Pietro, del Rinuccini, del Doni, del Della Valle, del Bonini, e nelle Prefazioni che i compositori: Peri, Caccini, Emilio de' Cavalieri, Marco da Gagliano e Monteverdi, posero anch'essi innanzi alle stampe delle loro [408] opere; e dalle quali il Glück tolse molto probabilmente l'esempio.... e il resto. Dato (badiamo, non è che un sospetto) dato che tutto non sia opera invece del suo librettista italiano, Ranieri Calsabigi; il quale, poeta, uomo cultissimo e toscano com'era, è ben difficile supporre che di tutti quegli scritti non avesse notizia.

Escludiam pure, se si vuole, ogni idea di plagio, ammettiamo come possibile l'incontro fortuito, non che di idee e di concetti, di espressioni e di parole. Ma sta in fatto ed è: che la pretesa riforma del Glück e quella della Camerata Bardi non differiscono in nulla; e sta ed è, che l'una è l'altra e che, in ogni caso, alla seconda non può assegnarsi altro merito che quello solo di aver confermato il valore della prima.

Si crede e si afferma da molti che la prima opera scritta secondo gli intendimenti della Camerata Bardi, sia stata la Euridice del Rinuccini e del Caccini. Ma è indubitato che fu la Dafne del Rinuccini istesso e del Peri, rappresentata in casa del Corsi nel 1594. (Ed ecco per la terza volta la data 1594: la morte del Palestrina; l'ultima opera in istile madrigalesco; la prima opera della riforma, in istile, come dicesi, recitativo o rappresentativo).

La priorità della Dafne è attestata dal Clasio in una nota illustrativa posta in fine alla ristampa del libretto del Rinuccini, dove leggesi: “che, compiuta nel 1594, la Dafne fu per tre anni consecutivi recitata in casa Corsi, con gran piacere ed applausi degli spettatori.„ E del resto è pure attestata dal Rinuccini nella lettera con cui dedica la sua Euridice alla Regina Maria de' Medici, e nella quale v'hanno considerazioni e notizie che giova conoscere:

“È stata opinione di molti (scrive il Rinuccini) che gli antichi Greci e Romani cantassero sulle scene le tragedie intere; ma sì nobile maniera di recitare, non [409] che rinnovata, ma neppur ch'io sappia sin qui è stata tentata da alcuno; e ciò, credo io, per difetto della musica moderna, di gran lunga all'antica inferiore. Ma pensiero sì fatto mi tolse interamente dall'animo messer Jacopo Peri, quando, udita l'intenzione del signor Jacopo Corsi e mia, mise con tanta grazia sotto le note la favola di Dafne, composta da me, che incredibilmente piacque a que' pochi che la udirono. Onde, preso animo, e data miglior forma alla stessa favola, e di nuovo rappresentata in casa Corsi, fu ella non solo dalla nobiltà di tutta questa patria favorita, ma dalla serenissima Granduchessa e dagli illustrissimi Cardinali Del Monte e Montalto.„

A dimostrarvi praticamente, o Signori, la innovazione operata dalla Camerata Bardi, avrei dovuto scegliere un pezzo della Dafne; ma, disgraziatamente, della musica di quell'opera non trovasi più una nota. Andò smarrita tutta. Ebbi quindi ricorso al prologo della Euridice, opera degli stessi autori, Rinuccini e Peri, e posteriore alla Dafne di soli sei anni.

In quel prologo sono poche e semplici note; ma note che prendono la ragione di essere dalle parole; che vi si immedesimano; e che, con inflessioni e con accenti naturali ed espressivi, ne rendono efficacemente il sentimento, l'affetto, la passione. Sono note ben semplici, ripeto, ma in alcuni de' loro movimenti piegano già alle leggi del ritmo: elemento (il ritmo) che, come la melodia, i Fiamminghi avevano interamente abbandonato. Quel prologo, in fondo, è ben poco più di un recitativo; ma quel recitativo è una vera e propria trovata; è, come ho detto, una vera invenzione ed è tipico; ma quel recitativo fu all'arte musicale quel medesimo che fu alla scienza e alle applicazioni della elettricità, la pila d'Alessandro Volta. In breve, da quel recitativo uscirono le frasi, le cadenze, i cantabili; uscì la melodia!

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E con la melodia, che i Greci definivano una poesia sopra la poesia, una delizia dell'anima, un incanto, la luce fu ad un tratto su tutta la distesa dell'arte; ne penetrò le viscere, e vi portò il calore della vita e la fecondità.

Infatti, ne' primi dieci anni del secolo seguente, noi vediamo che la musica, con tutte le sue diramazioni e le sue forme, si volge, come per elaterio, ad alti e nuovi intenti, e muove sicura per nuove vie: la vocale, col melodramma, per la via che doveva portarla al Don Giovanni, al Barbiere di Siviglia e al Guglielmo Tell; e la strumentale, per quella che mise capo al Boccherini, all'Haydn, al Mozart e al Beethoven.

Tenuto conto di tutto questo, chi crede di poter dire che la Camerata del Bardi inventò il melodramma, a più forte ragione, mi pare, dovrebbe dire che ha inventato la musica!

Metto da parte l'inventare, e riassumo: la Camerata del Conte Bardi, animata da un sano intendimento artistico, e guidata da un elettissimo buon gusto, tolse la musica dagli inestetici e goffi artifizi de' Fiamminghi; la fece libera richiamandola al naturale suo principio, alla melodia, e rendendo possibile la rappresentazione scenica, dette al mondo il melodramma, che è la più attraente di quante sono le forme dell'arte: che è una festa dei sensi e dell'intelligenza.

E il melodramma, com'essa lo intese e lo volle, offrendo un vasto e convenientissimo campo d'azione alle preziose doti di sentimento, di voce e di fantasia, delle quali la natura è così prodiga agli Italiani, fu all'Italia, e per più di due secoli, un titolo invidiatissimo di gloria e, insieme, una non piccola sorgente della pubblica ricchezza.

Fine.

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