IL TEATRO DEL CINQUECENTO

DI

TOMMASO SALVINI.

Signore e Signori!

Avrei creduto più facile che le acque di un fiume volgessero alla loro sorgente, e che il Vulcano eruttasse blocchi di ghiaccio, anzi che io mi trovassi quest'oggi davanti a sì eletta e colta riunione a fine d'intrattenerla con una mia lettura sull'Arte Drammatica del XVI secolo. Taluni si chiederanno da che nasce questa meraviglia: e facilmente supporranno che un Artista Drammatico, abituato da molti anni a comparire dinanzi al pubblico, non possa trovarsi nè timido nè turbato. Ebbene, no, signore e signori garbatissimi. Essi s'ingannano. Esercitando l'arte che professo, è mio ufficio interpretare ed illustrare, meglio che mi sia possibile, concetti e parole altrui, quindi la mia responsabilità è limitata a ritenere a mente le parole, a penetrare e sviscerare i concetti, ad immedesimarmi nel carattere da sostenere, e stabilire gli effetti delle diverse passioni, esponendole con misura e verità.

In possesso di ciò, sentomi padrone di me stesso e con fiducia mi cimento; ma quante volte mi trovo obbligato, il che non m'avviene spontaneamente, di esporre in pubblico concetti miei proprî, mi assale un panico che mi rende nervoso, per modo che, pronunziate le prime parole, [354] desidererei di tutto cuore fossero le ultime. Nelle diverse contrade del Mondo ch'io percorsi, e specialmente nell'America del Nord, dove in ogni banchetto, in ogni riunione, per ogni solennità è obbligatorio lo speech, molte volte bandivo l'apprensione, con la speranza, lo confesso, di non essere ben compreso; ma qui, davanti a Voi a cui non sfugge verbo del mio discorso, e che finamente ponderate i miei concetti, dovento come quel povero coscritto, che trovandosi per la prima volta davanti al fuoco, vince, per punto d'onore, la sua timidezza, e mostra un coraggio che non sente, davanti ad un nemico temibile. So però che i forti sono pur anco generosi, e mi attendo perciò da voi molta indulgenza; tanto più, quando saprete che il mio arrolamento mi venne imposto dalla cortese insistenza del comitato di queste letture.

Prima d'entrare nel tema che mi propongo trattare domando venia a' miei uditori se in brevissime parole esporrò alcune idee intorno alla condizione nella quale si trovavano nella società antica, gli attori - chiedendo altresì mi sieno perdonate qualche digressione e le frequenti citazioni, figlie naturali di un neofito della letteratura.

Cicerone e Tito Livio affermano che agl'Istrioni antichi, nome erroneamente dato a tutti quelli che praticavano le scene, non fu reso onore; che anzi furono più volte scacciati da Roma e ripulsi dagli onori dei cittadini e dei soldati: nondimeno a qualche attore particolare famoso, e celebre nell'azione, fu data quella gloria che si merita la virtù e il valore dimostrati in questa professione pubblicamente. Ad esempio, si racconta che l'istrione Polo, contemporaneo di Pericle, recitando un giorno la parte di Elettra nella Tragedia di Sofocle, prese nelle sue mani l'urna del figlio suo, che aveva perduto da poco e le diresse le parole che Elettra indirizza all'urna di Oreste. Egli espresse tanto potentemente l'immagine [355] della cosa, che fece lacrimare tutti gli spettatori, ed ottenne un singolare trionfo! Marco Tullio riprese il popolo Romano, per avere tumultuato mentre il commediante Roscio recitava, la qual cosa incoraggiò tanto l'attore che osò pubblicare un libro, nel quale fece comparazione della sua arte con l'eloquenza, e sopratutto fu sì caro a Lucio Silla, che essendo lui Dittatore, ottenne da quello in dono un bellissimo anello d'oro: oltre che dal pubblico ricevette ogni giorno mille danari per sua mercede, più, molti regali che gli offrivano in omaggio al suo talento. Esopo, rivale di Roscio, ma a questo inferiore, divenne sì ricco esercitando la sua professione, che lasciò duecento mila sesterzi al suo figliuolo, il quale fu prodigo talmente da liquefare le perle nell'aceto, offrendo splendide cene a' suoi commensali. Dione Cassio racconta, che l'istrione Pilade fu grato sopra modo a Nerva Coccejo, e fu favorito dall'assistenza d'Augusto; e a Publio Siro, dopo una Commedia, gli fu data la palma da Cesare, un anello pregevole e 500 sesterzi per l'eccellenza sua.

Ho portato questi esempi, per provare, come anche nell'arte di Melpomene e di Talia, faceva d'uopo allora, com'oggi, giungere ad un certo grado di perfezione per ottenere l'estimazione pubblica! Il titolo d'Istrioni, che tanto nei tempi scorsi, come nei presenti, si adotta comunemente come qualità dispregiativa per ogni arte della scena, era ben distinto anticamente. Due generi di rappresentazioni ebbero gli antichi in Teatro; con uno si parlava all'udito, con l'altro a gli occhi. Per l'udito si recitavano le Commedie, le Tragedie e l'Atellane che erano una giunta scherzevole, quasi Farse o intermezzi; per la vista, in tutto o in parte, si esprimevano le cose con gesti, positure, e movimento del corpo, e con balli imitativi, accompagnati da suono, e canzoni, al che si diede nome di Mimi, e di Pantomimi e d'Istrioni.

[356]

Ora, il disdoro ed il rimprovero caddero sul secondo genere, e non sul primo. Prova di ciò, primieramente, si è che da molti passi di Cicerone, di Apulejo e d'Ausonio e da altri, impariamo come l'Arte Comica era differente dalla Mimica; e ricaviamo dagli antichi monumenti e scrittori, come le Mimiche rappresentazioni erano piene di oscenità e di laidezze, ed all'opposto le Tragedie erano tanto morigerate e caste, che a molti dei componimenti moderni fanno in ciò vergogna. Quanto alle leggi, basta osservare, che di tutte quelle, ove dell'infamia si fa menzione agli operanti ne' Teatri, tanto ne' Digesti, come nel codice di Teodosio, o in quei di Giustiniano, nè pur una si trova in cui si veggan nominati nè Tragici nè Comici nè Attori d'Atellane. Ma più indisputabile decisione ci dà in questo punto Valerio Massimo nel secondo libro, dove parla così degli Attori dell'Atellane: “Questi, esenti sono da nota d'infamia, nè si privano di suffragio nè si rifiutano nella milizia.„ Ora, se così era dell'infima classe, che solamente al giocoso si restringeva, tanto più sarà stato dell'altre due, le quali recitavano componimenti che possono essere maestri della vita.

Cicerone, uomo pieno d'onestà e di decoro, non avrebbe professato palesemente famigliarità ed amicizia con Roscio e con Esopo, se l'arte che esercitavano fosse stata vergognosa e proscritta. Ne si sarebbe giovato egli stesso degl'insegnamenti del primo nell'Arte del bel porgere per le sue orazioni. L'equivoco avvenuto nel leggere i profani e le leggi, avvenne altresì, leggendo i cristiani scrittori ed i sacri Canoni. Ciò che si disse dei Mimi e delle arti annesse, è stato ricevuto come se venisse detto anche per i Tragici e i Comici, e quei vocaboli che per l'uno e per l'altro genere, sono stati usati talvolta, si sono interpretati secondo il significato peggiore. Se si dovesse appropriare il titolo d'Istrioni a tutti coloro che dovrebbero pur studiare l'arte del porgere, converreste meco che [357] del nome d'Istrioni non andrebbero esenti le più alte dignità della Chiesa e dello Stato: i Magistrati, i Deputati, gli Avvocati, i Professori, i più illustri Conferenzieri, nè i predicatori più valenti. Con questo si viene a conoscere chiaramente che l'inveire dei Padri va contro i Mimi, i Saltatori, e i Cantori, e non contro ai Comici e Tragici, a' quali mai si vietarono le oneste recite, e massimamente di Tragedie, componimento secondo Orazio che vince ogni altro di gravità, e tanto nobile che meritò l'applicazione de' due grandi primi Imperatori, avendo composto Cesare l'Edipo, e cominciato Augusto l'Ajace.

Dopo i Greci e i Romani, la poesia Teatrale se ne andò a terra e per parecchi secoli si tacque, causa le invasioni, escursioni e dominazioni straniere di cui fu vittima questa povera Italia. Non vo' dire per questo, che recite in dialogo, e certe rappresentazioni incòndite non si facessero in ogni tempo; rappresentazioni informi, sconnesse e di nessun valore, che venivano praticate pur anco in chiesa: e vi furono sacerdoti e monache che ne composero, ben s'intende, di argomenti religiosi: e le fecero per diverso tempo rappresentare, fino a che Innocenzo III non le proibì.... forse per soverchia austerità. Ma siffatte produzioni, che sacre furono d'ordinario, e che si chiamavano Ludi Teatrali, erano cosa imperfetta. Il Mussato Padovano in latino, nel secolo decimoquarto: il Trissino Vicentino in volgare, nel secolo XVI, si considerano come primi che tornassero a nuova gloria il Teatro e a nuova vita le scene, con regolate e perfette Tragedie.

Albertino Mussato, al principio del 300, ed anche più, compose l'Assedio di Padova in verso eroico, e le Tragedie l'Ezzelino e l'Achille, però ben poca giustizia fu resa, lui vivente, alle opere sue, perchè tardi venute alla luce, e perchè al cantore di Laura fu accordata la gloria dell'aver risuscitata l'eleganza delle latine lettere, singolarmente [358] nella poesia. Nel secolo decimoquinto lo studio della lingua Greca, che tanto in Italia si coltivò, avendo risvegliato il gusto d'ogni genere di lettere, anche le Commedie e Tragedie cominciarono a prender forma. In latino elegantissimo, fu la Progne, tragedia di Gregorio Corraro, il quale morì Patriarca di Venezia il 1464. Angelo Decembrio fa menzione d'Ugolin da Parma, che in quel tempo fu compositore e recitatore di Commedie: ma questi ed altri non furono che preludî e prove poco fortunate. Abbandonarono le Sacre rappresentazioni in buona volgar poesia: e sullo stampo di quelle, Angelo Poliziano foggiò il suo Orfèo. Nel Cinquecento, splendido per ogni manifestazione dell'ingegno italiano, la Tragedia sullo stampo greco, la Commedia d'impronta romana, nòverano insigni scrittori: il Bongianni, Gratardo da Salò, Maurizio Manfredi da Cesena, il Torelli, Antonio Cavallerino, G. B. Livrea che diedero alla luce Commedie e Tragedie non prive di complicati intrecci, e le cui figure sono interessanti, ma dove i personaggi hanno un colorito uniforme e convenzionale. La Sofonisba del Trissino occupa il primo posto fra tutti quei componimenti tragici, che apparirono in lingua moderna, nel rinascimento delle bell'Arti. Il Varchi scrive di lui: “Il primo che scrivesse Tragedie in questa lingua, degne del nome loro, fu per quanto so io, messer Giorgio Trissino di Vicenza„ e così Cintio Geraldi nel commiato dell'Orbecche scrive:

E 'l Trissino gentil che col suo canto

Prima d'ognun dal Tebro e da l'Iliso

Già trasse la Tragedia a l'onde d'Arno!

Palla Rucellai, fratello di Giovanni, letterato esimio e scrittore di Tragedie encomiate, scrisse al Trissino una lettera, con la quale dedicandogli l'opera del fratello Le Api si esprime così: “Voi foste il primo che questo [359] modo di scrivere in versi materni, liberi dalle rime, poneste in luce: il qual modo, fu poi da mio fratello, nella Rosmunda primieramente, e poi nell'Api e nell'Oreste abbracciato ed usato; adunque meritamente, sì come primi frutti della vostra invenzione, vi si mandano.„ Vedete, che anche allora non si disconosceva il vero merito; e ciò che più meraviglia, veniva apprezzato dai colleghi letterati. Or io vi leggerò della tragedia Sofonisba una scena, che sembrami ricca di forma e di logiche persuasioni. La scena si passa in Cirta, città di Numidia, fra Scipione e Massinissa, quando questi, vincitore delle armi di Siface, sposo di Sofonisba, promette alla Regina di non consegnarla come prigioniera ai Romani, purchè acconsenta a divenirle moglie subitamente. Sofonisba, dimentica del suo consorte, già prigioniero dei Romani, e spinta dalla regale vanità di non umiliarsi dinanzi ai vincitori, acconsente, e l'unione vien celebrata (sembra che a quei tempi il divorzio fosse ammesso, e si regolasse facilmente, bastando il consenso d'una sola delle due parti).

Scipione, capo delle forze alleate, e rappresentante il Senato Romano, vuole, com'era per legge, che i vinti sieno mandati, niuno escluso, prigionieri in Roma. Qui comincia il dialogo che meglio vi spiegherà l'argomento e la posizione.

Scip. Signore, io penso, che null'altra cosa

Che 'l conoscere in me qualche virtute,

V'inducesse da prima a pormi amore;

Il quale amor, da poi vi ricondusse,

Che riponeste in Africa voi stesso

E le vostre speranze, in la mia fede.

Ma sappiate però, che nessun'altra

Di quelle alme virtù, per cui vi piacqui,

Tanto m'allegro aver nè tanto onoro,

Quanto la temperanza, e 'l contenermi

[360]

D'ogni libidinoso mio pensiero.

Questa vorrei, che parimenti voi

Giungeste a l'altre gran virtù che avete.

Crediate a me, ch'a l'età nostra, sono

Le sparse voluttà che abbiam d'intorno,

Di più periglio che i nemici armati;

E chi con temperanza le raffrena

E dôma, si può dir che acquista gloria

Molto maggior, che non s'acquista d'arme.

Quello, che senza me, per voi s'è fatto

Con valore, e con senno, volontieri

L'ho detto, e volontier me lo ricordo;

Il resto, voglio poi, che fra voi stesso

Più tosto il ripensiate, che a narrarlo

Vi faccia divenir vermiglio il fronte.

Questo vi dico sol, che Sofonisba

È preda de' Romani, e non potete

Aver di lei disposto alcuna cosa.

Però v'esorto subito mandarla:

Perchè convien, che la mandiamo a Roma.

E voi, s'avete a lei volta la mente,

Vincete il vostro cùpido desìo:

E abbiate rispetto a non guastare

Molte virtù, con questo vizio solo:

E non vogliate intenebrar la grazia

Di tanti vostri meriti, con fallo

Più grave, che la causa del fallire.

Mass. Io dirò, Scipion, qualche parola

Acciò che voi, così senza sentirne

Alcuna mia ragion, non mi danniate.

Non fu pensier lascivo che m'indusse

A far quel, che fec'io con Sofonisba;

Ma pietà, forse, e 'l non pensar d'errare.

So che sapete ben, che primamente

Il padre di costei me la promesse;

Ma Siface da poi, perchè l'amava,

Tant'operò, che da i Cartaginesi

A me ne fu levata, e a lui concessa.

[361]

Ond'io salì per questo in tal disdegno,

Che sempre mai da poi gli ho fatto guerra;

E con voi mi congiunsi ultimamente;

Con cui sapete ben, quel ch'io son stato,

E come presi Annone, e romper feci

I cavai di Cartagine a la torre

Che fe' Agatocle, Re di Siracusa.

E poscia, quando Asdrubale rompeste,

Sapete, ch'io vi dissi i lor consigli;

E sol m'opposi al campo di Siface.

Ma che bisogna dir che 'n mille luoghi

V'ho dato utilità con la mia gente.

D'onde presa m'avea tanta baldanza,

Che senz'altra dimanda mi ritolsi

La moglie mia, ch'altri m'avea rubata.

A questo ancor m'indusse, che più volte

M'avevate promesso di ridarmi

Tutto quel, che Siface m'occupava;

Ma se la moglie non mi fia renduta

Che più debbo sperar che mi si renda?

L'Europa già tutta si volse a l'arme

E passò il mar con più di mille navi

Contra dell'Asia e stette ben diece anni

Intorno a Troja, e poi la prese, ed arse,

Per far aver la moglie a Menelao

Che già se ne fuggio con Alessandro,

E stata era con lui vent'anni interi;

E voi non mi volete render questa,

Che ancor non è il terz'anno che Siface

Me la tolse per forza e per inganni,

Nè con tanta fatica s'è ritolta?

Deh, non negate a me sì caro dono,

E non vogliate poi, che la vostr'ira

Contra i Cartaginesi si distenda

Con tal furore, infin contra le donne.

Ma i beneficj miei possano tanto,

Che l'error di costei si le perdoni

Se mai fatto v'avesse alcuna offesa:

[362]

Che ben conviensi per amor d'un buono

Perdonare ad un reo; ma non si deve

Punire un buon, per il peccare altrui.

Scip. Chi non sapesse ove si fosse il torto,

E udisse il parlar che avete fatto,

Non si porìa pensar ch'io non l'avessi.

Ma non è giusto quel che parla bene

In ogni cosa, ove la mente volge,

Ma quel che mai dal ver non si diparte.

Se Sofonisba fosse vostra moglie,

Senza alcun dubbio vi la renderei:

Che voi sapete ben, che già vi diedi

Annon Cartaginese; onde per cambio

Di lui, color vi resero la Madre.

E come prima il regno de' Massulj

(Ch'io sapeva esser vostro) si fu preso,

Senza punto tardar vi lo rendei.

Ma se vi fu promessa Sofonisba

(Come voi dite) avanti che a Siface

Questo non fa però, che vi sia moglie;

Perchè una sola, e semplice promessa

Non face il matrimonio; voi già mai

Non giaceste con lei, nè aveste prole,

Come d'Elena avea già Menelao.

Oltre di ciò s'ell'era moglie vostra,

Che vi accadeva risposarla ancora?

E sì subitamente far le nozze

Nella nimica terra e 'n mezzo l'arme?

Che vuol dir poi, che nel principio, quando

Tutte le cose vostre mi chiedeste

Non diceste di lei parola alcuna?

Quinci si può veder, ch'era d'altrui,

Com'era veramente di Siface:

Il quale è stato con gli auspicî nostri

E vinto e preso; onde la sua persona,

La moglie, le Cittati, le Castella,

E finalmente, ciò ch'ei possedeva,

È preda sol del popolo Romano;

[363]

E esso e la Regina (ancora ch'ella

Non fosse da Cartagine, nè avesse

Il Padre Capitanio dei nemici)

È di necessità mandare a Roma,

Ov'ella arà da stare a la sentenzia

Del popolo Romano e del Senato....

Imperò che si dice avergli tolto

E alienato un Re, che gli era amico,

E poscia averlo indotto a prender l'arme

Contra di lor precipitosamente:

Sì ch'io non posso di costei disporre.

Dunque, senza tardar ne la mandate;

Ne più cercate a così fatto modo

Aver per forza le Romane spoglie.

Ma se di lor vorrete alcuna cosa

Dimandatela pur, che scriveremo

A Roma, e pregheremo, che 'l Senato

Per le vostre virtù vi la conceda.

Mass. Poscia ch'io vedo esser la voglia vostra

D'aver costei, più non farò contrasto;

Ma vo', che ancor di questa mia persona

Possiate sempre far quel che v'aggrada.

Ben io vi priego assai, che non vi spiaccia

S'io cerco aver rispetto a la mia fede:

La qual troppo obligai senza pensarvi;

E promessi a costei, di mai non darla

In potestà d'altrui, mentre che viva.

Scip. Questa risposta è veramente degna

Di Massinissa; or fate dunque come

Vi pare il meglio, purchè abbiam la donna.

Mass. Anderò dentro, e penserò d'un modo,

Che servi il voler vostro, e la mia fede!

Massinissa avendo promesso a Sofonisba che non andrebbe viva nelle mani dei Romani, le mandò un veleno, dicendole, che altro modo non aveva di mantenerle fede; e Sofonisba lo prese. A me sembra che questa scena sia molto dignitosa, profondamente eloquente [364] e filosofica.... sebbene odori un poco di un fare rettorico. Se dovessi rilevare tutti i pregi che si raccolgono nei molteplici componimenti del Trissino, bisognerebbe a lui solo dedicare più tempo che non mi è concesso, e trascurare di troppo altri, che pur voglionsi almeno ricordare. Del satirico, mordace, e venale Pietro Aretino, il cui ingegnoso spirito s'impose al mondo in modo, che si temeva più assai la punta della sua penna, che un'aguzza spada, abbiamo una Tragedia, intitolata Orazia che venne giudicata una delle migliori che a' quei tempi fosse stata scritta. Rispetto il parere dei dotti critici, in quanto riguarda il valore poetico e letterario, ma credo di non errare, asserendo, essere questa Tragedia priva affatto di effetto scenico, e per la massa del pubblico, d'un linguaggio astruso. Le sue commedie poi sono un'evidente riproduzione della corrotta società in cui viveva e mostra delle figure, acutamente sì, ma rozzamente disegnate, ma che servirono di norma ad altri autori ne' secoli posteriori. Uomo, in superlativo grado immaginoso, si servì del suo naturale ingegno, non sempre lodevolmente, e visse, in vero, com'ei dice: del sudore degli inchiostri, e tanto ne adoprò, cred'io, da macchiarne anco l'anima.

L'autorevole scrittore Adolfo Gaspary, acconcia spietatamente il fiorentino Giovanni Rucellai (che fu secondo a scrivere Tragedie regolari in idioma volgare) criticando la sua Tragedia Oreste che giudica composta di cattivi versi e di fare sentenzioso e rettorico, dove la falsa sentimentalità, e il falso eroismo, prendono il posto dalla vera passione. Io non oso pronunciarmi su tal giudizio, bensì mi sembra, che almeno il merito di una potente efficacia descrittiva poteva esser notata dal severo critico. Il racconto che vi leggerò sarà sufficiente a farvi persuasi che non fu vana la mia osservazione. Il coro rappresentato da una donna, racconta ad Ifigenia [365] sorella d'Oreste, come furon scoperti, da un Pastore, due stranieri, che furtivamente venivano per mare, ad impadronirsi dell'effige di Diana, come dall'oracolo di Delfo fu ordinato per placare le infernali furie che invadevano Oreste, dopo l'uccisione dell'adultera madre.

Coro. Io vi dirò per ordin da principio

A ciò che vo' ntendiate il caso a punto,

Se già la lingua, mentre io narro a voi,

La lubrica memoria non inganna.

Ifige. Ditela: che gran cosa esser può questa?

Coro. Questa mattina, all'apparir dell'alba,

Andand'io per far mondi, alquanto innanzi,

Gli erbosi sassi del liquido fonte,

Che scendesser laggiù le mie compagne

A 'mbiancar de la Diva i sacri veli,

Veder mi parve, e non mi parve, andare

Due giovan di nascoso dietro il tempio.

Poscia, un pastor, che capre ivi guardava,

E stava sopra 'l vertice del monte,

Li discoperse a me primieramente;

E 'n un tratto le labbra al corno pose,

E suonò tanto forte che d'intorno

Ognun concorse con gran furia al suono.

Com'e' s'avvider ch'eran discoperti,

Si ritrasson guardando verso noi

Come Leon c'han visto i cacciatori;

E quando parve lor non esser visti,

Si misero a fuggir come due cervi

Là oltre per la via de la marina.

I Pastor pel cammin di sopra al lito

Li seguitaron tuttavia gridando.

Allor salii sovr'un piscoso scoglio,

Com'altri sempr'è vago di vedere.

Era la barca lor quivi nascosa,

Non so ben dove, ma la nuova forma

Sembrava a gli occhi miei ch'esterna fosse.

Questa, un da poppa, e l'altro dalla prora,

[366]

Come s'una cassetta d'Api fosse,

Con mirabil destrezza in mar gettaro;

E quel che di persona era più grande,

Vi saltò sopra, e nel saltar la mano

Porgea sempre, quell'altro confortando,

Ma quei che del Pastor corsero al suono

Eran già scesi in su l'asciutta arena

Con bastoni, con grida, dardi e sassi

Or di sotto, or di sopra, ed or dai fianchi,

Facendo a quelli una spietata guerra.

Già erano ambedue entr'a la barca,

Ed amendue a gran forza di remi

Tentavan dall'arena di spiccarla,

Nè si potea per la vadosa piaggia

Muover la barca fra l'arena e l'acque

Che, decrescendo il flusso venian meno;

Il che sentendo il giovin, quel maggiore

Ch'ancor fu 'l primo a saltar nel battello,

Saltò ne l'arenose onde marine,

Armato con la spada e con lo scudo;

Poi poggiò il petto e tutta la persona,

E spinse il legno: e fu sì grande l'urto,

Ch'andar lo fece un lungo tratto in mare.

Ei non trovando resistenza alcuna

A la sua possa, per che l'acqua cede,

Cadde implicato in su le negre arene;

Nè pria fu 'n terra, che gli furo addosso.

Chi gli prese le gambe e chi le braccia,

Chi lo tenea per le bagnate chiome.

Quando l'amico suo, ch'era portato

Dal legno a forza in la contraria parte,

Si gettò tutt'armato in mezzo al mare

Come tigre che 'nanzi a gli occhi suoi

Visti i figliuoli al predator in grembo,

Con gran furor si getta a questi addosso:

E quando fu là 'v'era il suo compagno,

Alzò la spada, e già feriva i nostri,

Se non ch'a mezza via, ritenne il colpo,

[367]

Per non ferir quel che salvar volea.

Insomma, tanta fu la sua possanza,

Che lo trasse per forza a quei di mano.

Allor più che mai, fu la forza grande

Di tronchi, dardi, sassi, e d'ogn'altr'arme

Ch'a chi cerca, il furor ministra e l'ira -

Dir no 'l saprei: sembrava un popol d'Api

O una negra schiera di formiche

D'un antic'elce e di sotterra uscite,

Contr'a due Calabroni aspri e pungenti.

La gente tutt'addosso era a quel solo,

Ch'avea salvo colui che cadde in terra.

Costui sostenne l'aspra furia tanto,

Che vide lo suo amico ritto in piede;

Poi, per un colpo ch'egli ebbe nel braccio,

Fu costretto lo scudo abbandonare,

Ov'era fitta una selva di strali;

Onde 'l gran petto e largo, scuopre e nuda;

Visto questo, il compagno prestamente

Il soccorre, e fra quello e fra la turba

Si pone, e fagli col suo proprio petto,

Per esser grato, sì pietoso scudo,

E disse: “Or ecco, Pilade, ch'io sono

“Venuto qui, o Pilade, o mia vita,

“Pilade, vita mia, per darti ajuto.„

E poi rivolto a noi gridava forte:

“Non date a lui, o gente empia e crudele,

“Non date a lui; in me voltate il ferro,

“In me, che cagion son di tutti i mali,

“In me, per cui 'l misero combatte.

“Eccovi 'l corpo aperto, ecco la fronte,

“Eccovi 'l collo ignudo, eccovi il petto!„

Così diss'egli; e la risposta loro

Fur mille punte, e più, di lance e spade

Che gli voltaro al volto, al corpo, al petto:

Ed ei, nulla prezzando la sua vita,

Attendèa solo a ricoprir l'amico -

Ma che può, Un contra 'l furor di tanti?

[368]

Molto potè l'amor, lo sdegno e l'ira,

E la virtù che sè stessa conosce,

Il dolor, la vergogna de l'amico,

Che gli parea veders'innanzi morto.

Ma che val forza contr'a maggior forza?

Già il fiato che 'n quei corpi non capèa,

Con gran singulti gli anelanti fianchi

Scotèa, fumando un vapor negro e grosso,

Bagnando tutte l'affannate membra;

Onde pure alla fine, stanchi e vinti,

Ma di difender non già sazî ancora,

Da' Pastor nostri sono stati presi,

Che gli conducon qui d'innanzi a voi.

Non credo mai che 'n giovin, tal bellezza

Splendesse sì nè tanta grazia in volto;

E non credo, ch'a pena il primo fiore

De la bionda lanugine ancor vesta

Le belle guance, quasi fresche rive

Fiorite, di giacinti e di viole!

Che ve ne sembra? La parte descrittiva non è toccante, efficace e ben colorita? Quello in cui appariscono, a mio avviso, difettosi questi scrittori è la poca curanza nel complesso dell'effetto scenico. Abusavano di frasi altosonanti, di rettoriche riflessioni, di concetti filosofici, e chi più ne aveva più ne metteva; poco o nulla curandosi della misura scenica, della complicanza dell'intreccio, della dipintura dei caratteri, e di quell'inaspettato nell'argomento, tanto necessario per produrre maggiore impressione nella catastrofe. - Ed ora lasciamo il coturno, per trattare del socco. L'Ariosto fu il primo a comporre delle commedie regolari italiane, ma non offrono molta originalità. Egli stesso confessa d'aver imitato gli antichi e d'essersi ispirato nelle commedie di Plauto e Terenzio. Le più commendevoli commedie del XVI secolo, sono al certo, pe' nostri tempi, di poco [369] onesti costumi, e di parole arrischiate e sconvenienti; se ne togli certe allusioni satiriche alle condizioni pubbliche, il piccante si cercava di preferenza in equivoci indecenti.

Lo permetteva la libertà del frasario di quell'epoca, e forse a torto in oggi biasimiamo ciò che allora si accettava senza porvi importanza, nè trovarvi offesa al buon costume. Tutte quelle produzioni che oggi chiamiamo indecenti, e che lo sono di fatto, furono in massima parte dedicate ai Papi, ai Principi, che le accettarono e fecero sontuosamente rappresentare, prendendovi tanto diletto, da farne delle matte risate. Qual meraviglia se le donne non se ne scandalizzavano. Quelle donne stesse che senza ritrosìa facevansi ritrattare col bel seno scoperto, e lo esponevano all'ammirazione dei visitatori ed amici, nelle loro sale. Chi potrebbe asserire che nella sostanza, la società di allora fosse più corrotta, con le sue frasi lascive, che non sia la nostra, sotto la forma vereconda e pudica?

L'osceno era considerato quale ingrediente necessario all'arte comica, e si trova sparso in quasi tutta la letteratura drammatica del secolo XVI. La commedia Calandra del Cardinal di Bibiena è impudica da capo a fondo, e le particolarità destinate a promuovere il riso, ributtano; eppure Leone X lo creò Cardinale, molto per gli importanti servigi resi allo Stato, e un poco per le scandalose brighe che operava alla Curia. Una delle commedie che affascina per la profondità e la verità del quadro di costumi e dei caratteri di quell'epoca, è la Mandragola del Machiavelli. Essa è di certo la più importante ed originale commedia di quel secolo. Della sua immoralità non si aveva coscienza: tutti vi partecipavano.... anche l'autore stesso. Soffocare la passione per riguardo alla morale, era un precetto da leggersi, ma non da seguirsi; obbedire a gl'impulsi dell'amore, che [370] senza esitare, per diritto di natura, va al suo scopo sensuale, era un concetto esaltato e difeso dalle massime dell'Aretino, ed accettate dalla società di allora. Di rado la passione sfrenata fu descritta con maggiore vivacità che in questa commedia del Machiavelli. Forse l'azione comparisce artificialmente ordinata, ma i personaggi sono interamente moderni, e vi è nel dialogo tale freschezza, tali sprazzi di luce sulle condizioni famigliari, da farla supporre una commedia scritta da ieri. Non mi permetto citarne alcun passo per non fare arrossire il bel volto delle mie amabili ascoltatrici, ma leggerò soltanto il prologo di questa commedia, ed una scena assai famigliare della Clizia, altro componimento comico del Machiavelli, perchè possiate riconoscere il simpatico scrittore, non scamiciato, ma vestito decentemente e con i guanti bianchi.... non però candidi del tutto!

Il Ciel vi salvi, benigni Uditori;

Quando e' par che dependa

Questa Benignità dall'esser grato.

Se voi seguite di non far rumori,

Noi vogliam che s'intenda

Un novo caso in questa terra nato.

Vedete l'apparato,

Quale or vi si dimostra.

Questa è Firenze vostra.

Un'altra volta sarà Roma o Pisa

Cosa da smascellarsi dalle risa.

Quell'uscio che mi è qui in su la man ritta,

La casa è di un dottore,

Che 'mparò in sul Buezio leggi assai:

Quella via che è là in quel canto fitta,

È la via dell'Amore,

Dove chi casca non si rizza mai.

Conoscer poi potrai

All'abito d'un Frate

[371]

Qual priore, o abbate

Abiti in tempio, che all'incontro è posto,

Se di qui non ti parti troppo tosto -

- Un giovane, Callimaco Guadagni,

Venuto or da Parigi

Abita là in quella sinistra porta.

Una giovane accorta

Fu da lui molto amata:

E per questo, ingannata

Fu, come intenderete; et io vorrei,

Che voi fussi ingannato come lei.

- La favola, Mandragola si chiama:

La cagion voi vedrete

Nel recitarla, com'io m'indovino.

Non è 'l compositor di molta fama:

Pur se voi non ridete,

Egli è contento di pagarvi el vino.

Un amante meschino,

Un dottor poco astuto,

Un frate mal vissuto,

Un parasito di malizia el cucco

Fien questo giorno il vostro badalucco.

- E se questa materia non è degna,

Per esser pur leggeri,

D'un uom che voglia parer saggio e grave,

Scusatelo con questo, che s'ingegna

Con questi van pensieri

Fare el suo tristo tempo più suave:

Perchè altrove non ave

Dove voltare el viso;

Chè gli è stato interciso

Monstrar con altre imprese altra virtue,

Non sendo premio alle fatiche sue.

El premio che si spera, è che ciascuno

Si sta dacanto, e ghigna,

Dicendo mal di ciò che vede o sente.

Di qui depende, senza dubbio alcuno,

Che per tutto traligna

[372]

Dall'antica virtù el secol presente:

Imperocchè la gente

Vedendo che ognun biasma,

Non s'affatica e spasma

Per far con mille suoi disagi un'opra,

Che 'l vento guasti o la nebbia ricuopra.

- Pur se credesse alcun dicendo male,

Tenerlo pe' capegli,

E sbigottirlo, o ritirarlo in parte,

Io l'ammonisco, e dico a questo tale

Che sa dir male anch'egli,

E come questa fu la sua prim'arte;

E come in ogni parte

Del mondo, ove il sì suona,

Non istima persona;

Ancor che faccia el sergieri a colui,

Che può portar miglior mantel di lui.

- Ma pur lasciam dir male a chiunque vuole;

Torniamo al caso nostro

Acciocchè non trapassi troppo l'ora.

Far conto non si de' delle parole,

Ne stimar qualche mostro,

Che non sa forse se si è vivo ancora.

Callimaco esce fuora,

E Siro con seco ha

Suo famiglio, e dirà

L'ordin di tutto. Stia ciascuno attento;

Nè per ora aspettate altro argomento.

Ora il nostro autore vi si è annunziato convenientemente con la sua carta. La scena che segue sarà la sua prima visita.

La posizione dei personaggi è questa.

Un vecchio libertino e il suo figliuolo, sono tutti e due innamorati di Clizia, giovane che da piccola venne allevata nella lor casa. Il padre vorrebbe dare la ragazza in moglie ad un Pirro, devoto ed esoso suo servo, [373] per poi approfittarne. La moglie del vecchio che conosce le mire poco oneste del marito, vorrebbe invece far sposare la giovane con un Eustachio loro fattore, uomo rozzo, sì, ma onesto e denaroso.

Sofronia (moglie del vecchio libertino entra in scena). Io ho rinchiuso Clizia e Doria in camera. E' mi bisogna guardare questa fanciulla dal figliuolo, dal marito e da' famigli; ognuno le ha posto il campo intorno!

Nicomano (il vecchio marito). Sofronia, ove si va?

Sofr. Alla messa.

Nicom. Et è pur carnasciale; pensa quel che tu farai di quaresima.

Sofr. Io credo che s'abbia a far bene d'ogni tempo; e tanto più accetto sia farlo in quelli tempi, che gli altri fanno male. E' mi pare che a far bene, noi ci facciamo da cattivo lato.

Nicom. Come? Che vorresti tu che si facesse?

Sofr. Che non si pensasse a chiacchiere; e poi che noi abbiamo in casa una fanciulla bella, buona e d'assai, e abbiamo durato fatica ad allevarla, che si pensasse di non la gittare or via, che dove prima ogn'uomo ci lodava, ogn'uomo ora ci biasimerà, veggendo che noi la diamo a un ghiotto senza cervello, che non sa far altro che un poco radere, che non ne vivrebbe una mosca.

Nicom. Sofronia mia, tu erri. Costui è giovane di buon aspetto, e se non sa, è atto ad imparare, e vuol bene a costei; che sono tre gran parti in un marito, oltre gioventù e amore. A me non pare che si possa ir più là, nè di questi partiti se ne trovi a ogni uscio. Se non ha roba, tu sai che la roba viene e va, e costui è uno di quelli ch'è atto a farne venire; e io non lo abbandonerò, perchè io fo pensiero (a dirti il vero) di comperargli quella casa che per ora ho tolta a pigion da Damone nostro vicino, e empierolla di masserizie: e di più, quando mi costasse quattro cento fiorini per mettergliene....

Sofr. Ah, ah, ah.

Nicom. Tu ridi?

Sofr. Chi non riderebbe?

Nicom. Sì; che vuoi tu dire? per mettergliene su una bottega: non sono per guardarvi....

[374]

Sofr. È egli possibile però che tu voglia con questo partito strano, tôrre al tuo figliuolo più che non si conviene, e dare a costui più che non merita? Io non so che mi dire; io dubito che non ci sia altro sotto....

Nicom. Che vuoi tu che ci sia?....

Sofr. Se ci fusse che tu non lo sapessi, io te 'l direi; ma perchè tu lo sai, io non te lo dirò.

Nicom. Che so io?

Sofr. Lasciamo ire. Che ti muove a darla a costui? Non si potrebbe con questa dota o minore, maritarla meglio?

Nicom. Sì, credo; nondimeno e' mi muove l'amore che io porto all'una e all'altro, che avendoceli allevati tuttadua, mi pare di beneficarli tuttadua.

Sofr. Se cotesto ti muove, non ti hai tu ancora allevato Eustachio tuo Fattore?

Nicom. Sì, ho; ma che vuoi tu che la faccia di cotestui, che non ha gentilezza veruna e è uso a stare in villa tra buoi e le pecore? Oh, se noi gliene dessimo, la si morrebbe di dolore.

Sofr. E con Pirro si morrà di fame. Io ti ricordo che le gentilezze degli uomini consistono nell'avere qualche virtù, saper fare qualche cosa, come sa Eustachio, che è uso alle faccende, in su i mercati, a far masserizia e aver cura delle cose d'altri e delle sue: e è un uomo che vivrebbe in su l'acqua, tanto più che tu sai ch'egli ha un buon capitale. Pirro, dall'altra parte, non è mai se non in su le taverne, su per li giuochi, un Cacapensieri che morrà di fame nell'altopascio.

Nicom. Non ti ho detto quello ch'io li voglio dare?

Sofr. Non ti ho risposto che tu lo getti via? Io ti concludo questo, Nicòmaco: che tu hai speso in nutrire costei, et io ho durata fatica in allevarla; e per questo, avendoci io parte, io voglio ancora io intendere come queste cose hanno andare: o io dirò tanto male e commetterò tanti scandali che ti parrà essere in mal termine; chè non so come tu alzi il viso. Va: ragiona di queste cose con la maschera.

Nicom. Che mi di' tu? Se' tu impazzata? Or mi fai tu venir voglia di dargliene in ogni modo; e per cotesto amore, voglio io che la meni stasera e meneralla s'e' ti schizzassi gli occhi!

[375]

Sofr. O la mérrà, o e' non la mérrà.

Nicom. Tu mi minacci di chiacchiere; fa che io non dica.... Tu credi forse ch'io sia cieco, e che io non conosca e' giuochi di queste tue bagattelle? Io sapevo bene che le madri volevano bene ai figliuoli; ma non credevo che le volessero tenere le mani alle loro disonestà.

Sofr. Che di' tu? Che cosa è disonestà?

Nicom. Deh! non mi far dire. Tu intendi, et io intendo: ognuno di noi sa a quanti dì è San Biagio. Facciamo per tua fe' le cose d'accordo; chè se noi entriamo in cètere noi saremo la favola del popolo.

Sofr. Entra in che entrare tu vuoi. Questa fanciulla non si ha gittar via; o io manderò sottosopra, non che la casa, Firenze.

Nicom. Sofronia, Sofronia, chi ti pose questo nome non sognava; se tu sei una soffiona, e se' piena dì vento.

Sofr. Al nome di Dio. Io voglio ire alla messa; noi ci rivedremo.

Nicom. Odi un poco. Sarebbeci modo a raccapezzar questa cosa, e che noi non ci facessimo tenere pazzi?

Sofr. Pazzi no, ma tristi sì.

Nicom. E' ci sono in questa terra tanti uomini da bene, noi abbiamo tanti parenti, e ci sono tanti buoni religiosi: di quello che noi non siamo d'accordo, domandiamne loro, e per questa via, o tu o io ci sganneremo.

Sofr. Che vogliamo noi cominciare a bandire queste nostre pazzie?

Nicom. Se noi non vogliamo tôrre o amici o parenti, togliamo un religioso, e non si bandiranno, e rimettiamo in lui questa cosa in confessione.

Sofr. A chi andremo?

Nicom. E non si può andare a altri che a fra Timoteo, ch'è nostro confessore di casa, et è un santarello, et ha già fatto qualche miracolo.

Sofr. Quale?

Nicom. Come quale? Non sai tu, che per le sue orazioni, monna Lucrezia di messer Nicia Calfucci, che era sterile....

[376]

Non finisco il dialogo perchè lo giudico non confacente all'ambiente in cui mi trovo; nè istigo il nostro autore a ripetervi la sua visita, per tema che vi si presenti co' guanti sucidi. Molti altri scrittori seguirono le tracce del Machiavelli, del Bibiena e dell'Aretino, ma nessuno raggiunse l'eleganza di questi. De' Fiorentini, che per la lingua portano il vanto, si vogliono specialmente ricordare il Gelli, il Varchi, il Firenzuola, Lorenzino de' Medici, il Giannotti, il Nardi, ma superiori a tutti, il Lasca e il Cocchi, de' quali vorrei pur citarvi qualche brano, se il tempo concessomi me lo permettesse, ma con mio rammarico debbo rinunciarvi.

La Commedia regolare letteraria aveva sempre di preferenza la sua sede nelle Corti, nelle case dei ricchi, e nelle Accademie. Fra il popolo si usava genere più modesto, e forse più morale, ma più rozzo. Le Farse, volgarmente dette Cavajole, genere antico, ma plebeo, erano graditissime al popolo, perchè fondate principalmente sulla vivacità dei lazzi, sul frizzo delle espressioni, sull'opportunità degli argomenti; e come le canzoni e rappresentazioni maggesi di variato genere e di più avariato pregio, erano il diletto del contado, così le rappresentazioni sacre e le Farse, erano la gioia del popolo. Solo alla metà del XVI secolo comparvero le donne sul palco scenico, e quando nacque la così detta Commedia dell'Arte, che consisteva nell'ideare il soggetto, stabilire la distribuzione delle scene, prefiggere i personaggi, lasciando all'improvvisazione, assoluta libertà dei concetti e delle parole. Quando s'incominciò a praticare questo, per me, riprovevole sistema, la buona commedia regolare, ed in special modo la tragedia, sparirono dalla scena a danno e disdoro dell'arte. Non per tanto ci resta la gloria d'essere stati i primi a comporre produzioni sceniche regolate; e già più centinaia se ne contava prima che Stefano Jodelle, sessant'anni dopo, ne [377] ponesse una, sulle scene di Francia, sotto Enrico III. Due altri motivi concorsero a far dimettere in Italia le tragedie nei teatri. Il primo fu l'uso introdotto di recitare in musica, e il compiacersi che fece il mondo de' Drammi musicali, ed il secondo fu l'introduzione de' varî dialetti e delle maschere. Fino al secolo XVI, nelle società, le maschere non si usavano che nelle feste, e per coprirsi il volto onde prender parte ai giuochi d'azzardo; di poi, le donne portarono, per preservare la pelle, una maschera di velluto, che si chiamava Lupo. Venuto in moda il rossetto ed i nei, le donne non portarono più i lupi (sul viso, s'intende!), così le maschere non furono più adoperate che nel travestimenti carnevaleschi e sulle scene.

Dopo aver parlato degli autori, desidero trattenervi su gli attori, come parte necessaria, e direi quasi indivisibile dei primi. Una rigogliosa e ben vestita pianta si potrà ammirare, ma quella, adorna di frutta, si ammira e si gusta; la pianta è l'autore, il frutto, l'attore. Fra quelli più famosi del secolo cui tratto, vi presento un Sebastiano Clarignano, che il Giraldi chiamò il Roscio e l'Esopo del tempo. Eccovi un Angelo Beolco, detto Ruzzante, che sebbene provenisse da bassissima estrazione (che il nome di Ruzzante gli fu appropriato da ragazzo perchè ruzzava sempre con un cane che gli guardava il bestiame), pur nullameno fu attore ed autore pregiatissimo. Altro stimato artista fu Niccolò Campani, detto lo Strascino, che compose diverse farse. Un altro distintissimo lo abbiamo in Andrea Calmo, anch'egli attore ed autore comico. Insigne artista fu il Valerini Adriano autore di rime e di tragedie; ma di lui ricorderò in appresso. Nè si devono dimenticare G. B. Verati, che dopo morto, fu commemorato con un epitaffio, composto da Torquato Tasso: nè il Ponzoni, nè il Flaminio; e per chiudere va ricordato il Ganossa, che tanto in Francia [378] che in Germania e specialmente in Spagna, non solo fu acclamato e desiderato da quei regnanti, ma raccolse pur anco ricchezza con l'arte sua!

Ed ora al sesso gentile! Si fa menzione di una Flaminia, romana, che, formosissima donna, nella tragedia era valente. Si esalta la Andreini Isabella che fu decoro delle scene: spettacolo superbo non meno di virtù che di bellezza; e si onora altamente una Virginia Rotari, detta Lidia, già amante del Valerini Adriano, gentile e piena di grazie, che ispirò, nel momento della sua partenza, ad un poeta che l'amava, questi versi:

Lidia mia, il dì che d'Adrian per sorte

Ti strinse amor con mille nodi l'alma,

Io vidi il mar che fu per lui sì in calma,

A me turbato minacciar la morte!

Si encomia molto la Vittoria Piissimi, bella maga d'amore, dai moti armonici e concordi, dagli atti maestosi e grati, dalle parole affabili e dolci, dai sospiri ladri e accorti, dai risi saporiti e soavi, dal portamento altiero e generoso (come disse il Garzoni), che fu rivale d'altra ancor più famosa attrice, la Vincenza Armani, in confronto della quale la fama di Sarah Bernhart impallidisce. Lascio la parola al panegirista!... “Ne avendo i tre lustri dell'età sua toccati appena, possedeva benissimo la lingua latina, e felicemente vi spiegava ogni concetto. Scriveva correttamente il latino e l'italiano idioma, ed il carattere che usciva dalla sua penna era bellissimo. Imparò la logica e la rettorica; nella musica fece tale profitto, che non solo cantava sicuramente la parte sua con i primi cantori d'Europa, ma componeva in questa professione meravigliosamente, ponendo in canto quei medesimi sonetti e madrigali, e le parole di cui ella anco faceva, in modo che veniva ad essere cantatrice e poetessa. Suonava varie sorte d'istrumenti musicali, [379] e da sè stessa accompagnava il suo canto; e ciò faceva con tanta dolcezza, che rapiva chiunque avea la sorte d'udirla. Posesi di più ad imparare la scultura, e con sì efficace desiderio vi attese, che scolpiva ogni effigie in cera al naturale. Ben provveduta di meriti e d'eloquenza, diedesi a recitare commedie sulla scena, comparendovi la prima volta nella città di Modena; esprimendo sì prontamente e con tanta grazia i suoi concetti, che sorprese quell'uditorio, la maggior parte composto di letterati di grido. Recitava essa in tre stili differenti, cioè, nel comico, nel pastorale, nel tragico, conservando il decoro di ciascuno tanto drittamente, che l'Accademia degl'Intronati di Siena disse più volte: che questa donna riusciva meglio parlando all'improvviso che i più consumati autori, scrivendo pensatamente. Fece vedersi su i teatri di Roma (che in quel tempo le donne vi comparivano), in Fiorenza e in altre città della Toscana; come pure in Venezia e per tutta la Lombardia; e in ogni luogo rimaneva il nome delle sue virtù impresso nelle menti degli uomini. Nel giungere ch'ella faceva in qualche città, si sparava l'artiglieria (e ciò non è favola) per l'allegrezza del suo arrivo o del suo ritorno, e i principali della terra le andavano incontro, e i dotti portavansi a lei per lo schiarimento di molti dubbi che avevano intorno a questioni filosofiche. I musici, i poeti e i pittori cercavano, con ogni sforzo ed industria, di renderla coll'arti loro immortale: ed i più nobili ed illustri cavalieri, per onor suo, mostravano in giostre, in barriere ed in altri tornei il lor valore; ed ella stessa poneva il premio al vincitore, e dava a molti bellissime imprese con i suoi motti appropriati, che erano da tutti avuti più a caro di qualsivoglia ricco dono. I principali signori d'Italia concorrevano in mandarla a ricercare dovunque ella si fosse, acciò andasse a ricreare le loro città, e a spargere [380] in esse il fecondo seme della sua virtù. Di corpo era bellissima, d'una statura piuttosto grande che no; e con esatta proporzione, e conveniente misura erano situate le belle membra. Aveva i capelli lunghi e finissimi del colore dell'oro; e le ciglia nere arcate e sottili, da giusto intervallo divise. La fronte pareva di lucido e terso alabastro: e le nasceva profilato il naso da i confini delle ciglia, scendendo per mezzo il volto con debita convenienza. Fiammeggiavano gli occhi suoi, e tra il bianco e il nero avevano molta vaghezza, ora ridenti, or lusinghevoli, ed ora altieri. Le sue candide guancie rosseggiavano in mezzo senza artifizio alcuno. La bocca, del color di rubino avea le labbra, e mostrava in aprendosi i suoi denti bianchissimi in egual ordine graziosamente disposti. Avea bellissime mani, ed era in tutto graziosa, modesta e gentile. Nel maggior grido della sua fama, portatasi in Cremona a recitare, dopo d'avere esposti per più d'un mese i parti del suo dotto intelletto, infermossi; e nel fiore degli anni, travagliata da breve malattia, munita degli ordini sacri, e piena di rassegnazione, cristianamente, con dispiacere universale, rese l'anima al Creatore il dì 11 settembre l'anno 1569. Adriano Valerini, comico famoso, il quale onestamente amavala, ed era da lei corrisposto, l'assistè sino all'ultimo respiro; unito al quale, da essa udì queste parole: “Adriano, restiti in pace, io me ne vado. Addio!„ Questo comico scrisse e recitò la sua Orazione funebre, che insieme con le rime di diversi autori, in lode di questa celebre comica, fu stampata in Verona l'anno 1570.„

Bisogna convenire che a quel tempo non v'era penuria di calda ammirazione per i degni rappresentanti dell'arte drammatica. Viceversa, per i non eletti, trovo quest'atroce invettiva: “Ma quei profani comici che pervertono l'arte antica introducendo nelle commedie disonestà solamente [381] e cose scandalose, non possono passare senza aperto vitupero, infamando sè stessi e l'arte insieme con le sporcizie che ad ogni parola scappano loro di bocca; e quanto maggiore ornamento acquista l'arte comica dai precedenti, tanto maggiore infamia trae da costoro, ch'anno con l'Aretino o col Franco cambiato la lingua per ragionare solo da sporchi e vituperosi come sono!„ Scusate s'è poco!!! Dopo aver udito le due campane della lode e del biasimo, dobbiamo persuaderci che il mondo fu sempre eguale; che in allora, come oggi, v'era un'eccedente esagerazione nella lode, come troppa acrimonia nel biasimo avventato, licenzioso ed offensivo. Negli omaggi entusiastici prodigati a quelle celebrità, mai si accenna ad una delle migliori prerogative dell'artista drammatico, quale è quella del porgere naturalmente e della dizione nitida e vera, e mi vien fatto perciò domandarmi da quali massime gli attori d'allora erano guidati? Con quali mezzi, e per quali meriti fisici e intellettuali diventarono grandi? Con qual forma, con quale concezione, con quale ispirazione interpretavano e riproducevano i vari caratteri e le diverse passioni? Ignoto! Mistero!... Cominciando da Roscio e da tutta la falange degli illustri artisti più sopra citati, che ne sappiamo noi? Che furono eccelsi attori, e nulla più! Non vi sembra che l'arte rappresentativa, diseredata dal suo nascere d'esemplari ricordi, non abbia diritto, per legge di compensazione, a dimostrazioni più entusiastiche, più esaltate dell'altre sue sorelle, alle quali è dato il vantaggio enorme d'un'analisi costante e d'una ammirazione imperitura? Non dobbiamo quindi meravigliarci se si prodigano ai seguaci di Roscio esuberanti manifestazioni di simpatia, le quali sono destinate ad essere sepolte con chi le promosse.

Permettetemi ora un breve cenno sui precetti dell'arte drammatica di quel tempo, per poi conchiudere. [382] Il dotto israelita, De Sommi, mantovano, poeta e autore drammatico, nella sua opera in materia di rappresentazione scenica, nel terzo dialogo, sui recitanti, s'esprime così: “Nell'attore è a ricercare buona pronunzia, e questo più che altro importa: e poi cerco che sieno d'aspetto, rappresentante quello stato che hanno da imitare più perfettamente che sia possibile, come sarebbe, che un innamorato sia bello, un soldato membruto. Pongo poi gran cura alle voci di quelli, perchè io la trovo una delle grandi e principali importanze.... E se io, poniam caso, avessi a far recitare un'ombra in tragedia, cercherei una voce squillante per natura, o almeno atta con un falsetto tremante a far quell'effetto che si richiede in tal rappresentazione.„ A me sembrerebbe cosa quasi ridicola udire un'ombra parlare in falsetto tremante. E neppure in tutto sono d'accordo con lo scrittore Ingegneri il quale vuole “che l'ombra abbia una voce alta e rimbombante, ma ruvida ed aspra ed in conclusione orribile e non naturale e dello stesso tuono.„ (Dello stesso tuono e non naturale, ne convengo, ma a mio credere la voce dovrebbe essere non alta ma sonora, non ruvida ed aspra, ma cavernosa e monotona). Torno al De Sommi: “Delle fattezze dei visi non mi curerei poi tanto, potendosi agevolmente con l'arte, supplire ove manca natura„ (l'arte non darà mai l'espressione e la vivacità naturale alla fisonomia!) “ma non mai però in caso alcuno mi servirei di maschere, nè di barbe posticce, perchè impediscono troppo il recitare„ (e dovendo rappresentare Barbarossa, lo vorrebbe sbarbato?) “e se la necessità mi costringesse far fare ad uno sbarbato la parte di un vecchio, io gli dipingerei il mento, sì ch'egli paresse raso; con una capigliatura canuta sotto la berretta, e gli darei alcuni tocchi di pennello sulle guancie e sulla fronte, tal che non solo lo farei parere attempato, ma [383] decrepito, e grinzo bisognando.„ (I tocchi sulle guancie e sulla fronte, sta bene, ma perchè la capigliatura canuta sotto la berretta? Non era più naturale e semplice il dire, con una parrucca bianca? Seguiamo!).“L'attore dovrà dir forte quanto basti da farsi intendere comodamente a tutti gli spettatori, acciò non cagionino di quei tumulti che fanno sovente coloro, li quali per essere più lontani, non ponno udire, onde ha poi disturbo tutto lo spettacolo.„ (A quanto pare, anche allora il pubblico era talvolta riottoso!) “Bisogna che l'attore s'ingegni di variar gli atti, secondo la varietà delle occasioni; dico, che non basterà ad uno che faccia la parte, poniam caso, d'un avaro, il tener sempre le mani sulla scarsella, il tentar spesso se gli è caduta la chiave dello scrigno, ma bisogna anche che sappia, occorrendo, imitare la smania ch'egli avrà, exempli gratia, intendendo che il figliuolo gli abbia involato il grano.„ (Ora viene il buono!) “E se farà la parte d'un servo, in occasione d'una subita allegrezza, saper spiccare a tempo un salto garbato: in occasione di dolore stracciare un fazzoletto co' denti: in caso di disperazione trar via il cappello, e simili altri efficaci effetti, che danno spirito al recitare.„ (E che ai tempi nostri farebbero fischiare!) “E se farà la parte d'uno sciocco, oltre il risponder male a proposito, il che gl'insegnerà il poeta con le parole, bisogna che a certi tempi, sappia far anche di più lo scimunito: pigliar delle mosche, cercar delle pulci, e altre siffatte sciocchezze. E se farà la parte d'una serva, saper scuotersi la gonnella lascivamente, se l'occasione lo comporta, ovvero, mordersi un dito per isdegno, e simili cose, che il poeta nella testura della favola, non può esplicatamente insegnare.„ (Per fortuna sua!) In quanto al modo che il De Sommi voleva vestiti gli attori, non è meno curiosa una breve descrizione. Egli [384] scrive: “Io m'ingegno poi quanto più posso, di vestire i recitanti fra loro differentissimi: e questo ajuta assai, sì allo accrescere vaghezza con la varietà loro, e sì anco a facilitare l'intelligenza della favola. Ora, se io avrò (per gratia di esempio), da vestire tre o quattro servi, uno ne vestirò di bianco con un cappello; uno di rosso con un berrettino in capo; l'altro a livrea di diversi colori; e l'altro adornerò per avventura con una berretta di velluta e un paio di maniche di maglia, se lo stato di lui può tollerarlo, parlando però di commedia che l'abito italiano ricerca; e così, avendo da vestire due amanti, mi sforzo, sì nei colori, così nelle fogge degli abiti, farli tra loro differentissimi: uno con la cappa, l'altro col ruboncello: uno co' pennacchi alla berretta, e l'altro con oro senza penne: a fine che tosto che l'uomo vegga, non pure il viso, ma il lembo della veste dell'uno o dell'altro, lo riconosca, senza aver da aspettare, ch'egli con le parole si manifesti: avvertendo generalmente, che la portatura del capo è quella che più distingue, ch'ogni altro abito, così negli uomini come nelle donne; però sieno diversi tutti fra loro quanto più si possa, e di foggia e di colori. Nè mi resterei di vestire un servo di velluto o di raso colorato, purchè l'abito del suo padrone fosse con ricami e con ori cotanto sontuoso, che avessero tra loro la debita proporzione.„ (Così, se una signora caduta al basso e priva di mezzi, fosse costretta a vestire di mussolina, per star ligi alla proporzione, qual'altra stoffa dovrebbe usare la sua cameriera? Io non vi vedrei che quella adottata da Eva; e prima del peccato).

Concretando su quanto vi descrissi dei componimenti tragici e comici: degli attori e critici loro, come dei precetti che guidavano gli artisti sul modo d'interpretare ed esporre i caratteri; ed infine, sul gusto d'abbigliarsi [385] sulla scena, mi abbisogna vagare su induzioni che potrebbero essere fallaci; pure non mi pèrito ad emettere la mia opinione, dicendo che le aspirazioni artistiche di quel secolo tendevano più alla ricerca del bello nell'arte, anzichè al bello nella natura; più all'estetica della parola, che a quella dei caratteri e dell'azione: più a soddisfare i sensi, che a convincere l'intelletto.... escludendo però del tutto l'idea in me di menomare con questo, il sovrano ingegno di coloro, che nelle composizioni, come nelle interpretazioni, furono giustamente proclamati sommi. Se esiste l'arte bella, vi è pure l'arte vera. L'arte bella si discute e si giudica col sentimento convalidato dall'istruzione, dall'educazione e dai costumi filtrati, ed assorbiti nel secolo in cui uno vive. L'arte vera è intangibile in tutte le epoche. Non si giudica; v'incanta, vi affascina, e s'idolatra. La prima è frutto dell'ingegno, la seconda del genio. L'arte vera non è stata, non è, e non sarà che una, ed è figlia della natura; e come dice Dante: è quasi nipote a Dio! Lasciando da parte il grado di nobiltà ch'essa occupa, la drammatica, sebbene infelice dal suo nascersi, come dissi più sopra, a parer mio, è l'arte più perfetta e più utile di quant'altre mai. La scultura e la pittura riproducono anch'esse la natura, ma le loro figure, sebbene esprimenti un pensiero, restano immobili: non parlano, non gesticolano, non respirano. Vedute cento volte non vi rivelano che la stessa idea.... immobilmente tacita; nè presto alcuna fede alla favola di Pigmalione, se lo scalpello d'un Michelangelo non ebbe il potere di far parlare il suo Mosè! Ammirando quelle figure, l'effetto morale siete obbligato raccoglierlo nella vostra immaginazione. Così, anche il componimento drammatico, è sterile, inanimato, se non riceve l'alito fecondatore della rappresentazione.

L'arte della scena ha il potere d'insinuare nell'anima [386] degli spettatori quei sentimenti, quelle passioni, quegli entusiasmi, che già intuiti dall'artista, trasfonde all'uditorio, non con mezzi estranei e fittizî, indispensabili alle altre arti, ma con quelli della movenza facciale, della voce, del sentimento e della feconda parola, che sono le legittime, vere, naturali espressioni dell'uman genere. È tanto convincente, persuasiva, insinuante quest'arte, che, in ogni tempo, ma più nel XVI secolo, dal previdente ed astuto clero, fu temuta, quindi osteggiata, non come esempio di pervertimento ai costumi, ma come potente diffonditrice di quella istruzione, di quei liberali sentimenti, di quelle patriotiche aspirazioni e di quelle nobili ed oneste tendenze, per le quali e con le quali soltanto, si formano le grandi Nazioni.

Ma mi avveggo che l'ora assegnatami è di soverchio trascorsa, e non voglio abusare maggiormente della benevolenza de' miei cortesi ascoltatori. A coloro, che per caso avessero qualche piccolo peccatuccio veniale da scontare, dico, che dopo la penitenza da me, ad essi, imposta quest'oggi, vengono del tutto purificati. Gli altri, che per le devote pratiche pasquali la partita del dare e avere hanno liquidata, saranno rimunerati dal sommo Fattore di tutte cose. Ma tanto a gli uni che a gli altri, debbo i sensi della mia riconoscenza che per non tediarvi di più, compendio in una sola parola. Grazie.

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