I.

Signore e Signori,

La storia della democrazia fiorentina è fin dai primi periodi storia di fazioni e di gare, alle quali sovrappone le sue virtù benefiche e conservatrici il sentimento della grandezza del Comune; l'amore, il culto, per la “nobil patria„ della quale i Fiorentini, appartengano ad una o ad altra fazione, sono tutti a un modo orgogliosi e fieri. Guelfi e Ghibellini presto passano: rimane nello Stato la tradizione Guelfa, perchè la più consentanea al reggimento popolare: ma in quanto Guelfi ha voluto dir Chiesa, e Ghibellini Impero, Firenze ha conservata intatta e immota la pietra angolare dello stato suo, Popolo e Libertà. Bonifazio VIII ci ha spuntate sopra le armi della frode e della violenza teocratica; Arrigo VII [66] c'intoppa nel suo passaggio italico, e le armi imperiali cingono d'inutile assedio le mura della città, che riman chiusa a Cesare e al suo Poeta. Alle ambizioni ecclesiastiche Firenze tributa cauto ossequio e, occorrendo, fiorini; ma libertà, no: alle violenze, risponde con la Guerra degli Otto Santi. I Cesari venturieri possono alleggerirle l'erario; ma nel palagio del Popolo l'aquila non annida. Fu forse vendetta di questa sconfitta imparziale, in cui Firenze repubblicana avvolse entrambi la Chiesa e l'Impero, che per l'alleanza appunto di queste due grandi forze dominatrici invitte del mondo medievale, la libertà di Firenze rimanesse schiacciata. Ma che per ischiacciarla non ci volesse meno di quell'alleanza, e che fosse alleanza funesta universalmente alla libertà umana; e che il saccheggio di Roma papale, perpetrato dagli scherani dell'Impero, precedesse, e quasi preludesse, alla caduta della nostra Repubblica, come apparecchio mostruoso d'una catastrofe scellerata: questa è gloria, quale solo accompagna la rovina di quelle grandezze il cui ricordo rimane nella storia della civiltà augusto e venerando; nè su pagina più luminosa e più tragica potevano scriversi gli ultimi fasti della libertà fiorentina.

Tali, da quelle origini, per quello svolgimento, a quella caduta, sono i pensieri che dinanzi a Firenze assediata e designata vittima nobilissima dei bastardi di casa Medici, si suscitano nell'animo di noi, che in condizioni di tempo del tutto diverse, toccate come gli Eneadi dopo tanti casi e vicissitudini le spiagge della terra santa d'Italia, consideriamo quei fatti e quelli uomini, de' quali il suono e quasi lo spirito aleggia tutto intorno alla cara nostra città. Ma fra il 1512 e il 1527, fra la restaurazione de' Medici per le armi di Chiesa e Spagna insanguinate nel Sacco di Prato, del quale si fa colpevole Giovanni de' Medici che poi sarà papa Leone; e la ultima loro cacciata, dopo il Sacco di Roma nel quale [67] è vittima delle armi spagnuole il secondo papa mediceo Clemente VII, fra il 12 e il 27, che è l'ultimo periodo di signoria non ancor principesca della famiglia fatale; Firenze non ripensava quelle origini, non avvisava lo svolgimento, non presentiva la catastrofe. Aveva, in quei quindici anni, sentito soffocar la Repubblica, sopravvissuta, nel Gonfalonierato a vita, al rogo generoso di frate Girolamo; aveva sperimentate di nuovo, con Lorenzo duca d'Urbino, con Giulio cardinale, le arti eleganti della supremazia civile Medicea: aveva veduto, l'opera del magnifico Lorenzo, di appoggiar la grandezza della Casa al braccio della Chiesa, coronarsi il più splendidamente possibile, mediante que' due triregni; sul capo di Leone, e sul capo, sebbene non legittimo, di Clemente. E quando questi, fin allora cardinal Giulio, assunto all'altezza suprema del Pontificato, avea lasciato in Firenze, quasi sua longa manus e simulacro di Medici alla cittadinanza, due altri illegittimi, Ippolito e Alessandro, sotto la tutela d'un Cardinal da Cortona. Firenze, abbagliata da quell'apoteosi papale di Casa Medici, aveva quasi dissimulato a sè stessa la meschinità e l'indecenza di questo giovanile duumvirato di spurii, che, sotto i non dissimili auspicii di Sua Beatitudine, raccoglieva la splendida eredità di Cosimo pater patriae e del magnifico Lorenzo. Del resto, Giulio de' Medici, lasciando, nel divenir papa Clemente VII, la supremazia dinastica cittadina, non l'avrebbe mai, in quello stremarsi del maggior ramo Mediceo, consegnata ad alcuno dell'altra diramazione (destinata fra pochi anni al ducato e granducato), la quale aveva con quel ramo vecchi dissidii, e che sola ormai era, ne' maschi, stirpe di Medici legittima; non si sarebbe mai, Giulio, rivolto a quei Medici là, sebbene proprio un d'essi, e appunto in quelli anni, empisse del suo nome l'Italia: Giovanni, il prode condottiero delle Bande Nere. E così assettata, com'egli [68] credeva, Firenze, il novello Papa si gettava e presto si perdeva, nelle ambagi della politica Europea: avverso a Spagna dapprima; poi, avvenuto il rovescio dei Francesi nella battaglia di Pavia e l'imprigionamento del Re, si affretta a mercanteggiare (e l'oro fiorentino pagava) col novello e già potentissimo imperatore Carlo V la ponderosa sua protezione; l'anno appresso, a fidanza di Francesco che si è spacciato dal carcere e dai patti, si fa auspicatore d'una Lega (Santa, al solito) di Francia, Venezia, Chiesa, Firenze, contro gli Spagnoli; e finalmente, lungo il tramite di queste ingloriose e insipienti altalene, rimane assediato, poi prigione, in Castel Sant'Angelo, mentre la povera Roma va a sacco, e le armi del Sacro Impero che pur da Roma s'intitola; vi rinnovano le gesta selvagge dei Barbari sotto il cui urto millecinquant'anni prima l'Impero è caduto: e il successore di Carlo Magno adempie le giustizie di Dio sul Papato mondano, che coi restaurati Cesari ha menata per sette secoli una tresca, interrotta da rare e sopraffatte virtù.

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