II.

E già quando questo a' primi di maggio dell'anno 1527 seguiva, lo Stato de Medici in Firenze era scosso, e inchinava rapidamente a rovina. I due eserciti: quel della Lega, guidato da Francesco Maria della Rovere restituito duca d'Urbino, e quello di Spagna, col duca Carlo di Borbone alla testa, traditore egli e Filippo di Châlons principe d'Orange del loro re; dalla devastata Lombardia, quello sulle péste di questo, tenevano, quel della Lega, il Mugello, e il Borbone il Valdarno dalla parte d'Arezzo, dispostissimo a rovesciare su Firenze le orde [69] di que' suoi ladroni. La cittadinanza, così pericolante, balenava: la gioventù chiedeva armi, che voleva dir libertà: il papa, denari: non era possibile durare lungamente a quel modo. Un primo tumulto insorto nella città il 26 d'aprile, toltone occasione dall'essere i giovinetti Medici usciti fuori per abboccarsi coi capitani della Lega, scopriva gli umori de' Fiorentini, che subito, per prima cosa, in Palazzo Vecchio tramutato quasi in arnese da guerra, deliberavano il bando della famiglia fatale. Impediva a tale deliberazione l'effetto lo essere quel giorno stesso rientrati in città i giovinetti, portando seco lo spauracchio di tirarsi dietro, pronto da amico a diventare nemico, l'esercito della Lega. Ma dopo che, fermato quel bollore, l'esercito ebbe proseguito verso Roma, senz'alcun pro nè allora nè poi, la sua strada, perchè il Borbone, dinanzandolo con ispedita mossa, precipitò le cose; quando l'11 maggio la nuova del sacco atroce di Roma giunse a Firenze, portata da un parente de' Medici e loro consorte ed emulo nelle civili ambizioni, Filippo Strozzi; tentatasi dai Medicei un'ultima resistenza, mediante la proposta di Consigli più o meno larghi, pe' quali, pur rimanendo i Medici, si rintegrasse la partecipazione de' cittadini alla vita pubblica quasi ne' termini del governo popolare savonaroliano; agitandosi tuttavia più torbido e cupo il risentimento non meno degli ottimati che del popolo; il dì 17, Ippolito e Alessandro col loro Cortona sgombravano dal palagio di Via Larga e dalla città. Firenze tornava ad essere di sè medesima, e guardava in faccia gli eventi.

Padrona di sè, ma non degli svariati umori che serpeggiavano nel corpo della cittadinanza irrequieto e mal disposto a unità di voleri e di stato: alla quale veramente gli amatori di libertà non si acconciarono che dinanzi all'estremo pericolo, e quando, perdute le occasioni e le maniere di appoggiare il proprio buon diritto [70] ad un saldo patteggiamento con qualche generale interesse od ambizione assicurati dalla forza, altro non rimase se non morire per quella libertà e con essa. Del resto, la libertà fiorentina conteneva in sè fatalmente i germi della propria dissoluzione: nè era possibile che il Comune, persistito così medievalmente democratico in Firenze anche Medicea, conservasse forze vitali, dopo l'evoluzione che il Rinascimento avea maturata, in Italia e fuori, degli ordinamenti civili a formare lo Stato nel moderno senso politico della parola. Sopravvissero al Medioevo le repubbliche più o men gagliardamente aristocratiche, per le affinità maggiori che questo loro carattere aveva col concentramento delle forze informativo del nuovo ente Stato: e la più longeva, e di gloriosa vecchiezza, salvo l'aver poi dovuto estinguersi decrepita, fu quella dove il corpo aristocratico, saldata da secoli col terrore la propria compagine, era quasi pervenuto alla concentrazione di un reggimento oligarchico, senza di questo le pericolose emulazioni: Venezia. Ma Firenze bisognava morisse. Forse, se si fosse trovato fra lo stato popolare e l'assorbente supremazia civile dei Medici un giusto mezzo, che assicurasse ad un tempo la libertà e sodisfacesse e limitasse la loro ambizione, poteva, forse questa città, che era ormai e per più rispetti tanta cosa nella vita d'Italia, continuarvi le sue funzioni, rimanendo repubblica: bensì repubblica, per così dire, in accomandita; quale appunto può dirsi che se la fosse ridotta il magnifico Lorenzo. Ma l'arte, o meglio il genio, di un tale sistema di governo non si trasmette per eredità: e bisognava altresì che le Alpi, al che pure Lorenzo aveva badato, rimanessero chiuse alla cupidigia straniera. Il governo popolare, adunque, fin da quando sulla rovina de' Medici l'avea rintegrato il Savonarola, era di per sè una ragione di debolezza alla città nelle sue relazioni politiche esteriori: massime ora che si trattava, non pur [71] di vivere, ma difender la vita; e che il contrasto coi Medici non era più una mena interna cittadinesca, ma scoperta guerra nella italiana palestra dischiusa alle armi di Francia e di Spagna; non più un covare, essi i Medici, e ravvolgere per coperte vie, le ambizioni liberticide; ma alla luce del sole drappellarle sugli stendardi della Chiesa, che è divenuta cosa loro: portarle innanzi sulla punta, oggi delle labarde di Spagna, domani, se meglio torna, delle lance francesi, sempre contro una città dattorno alla quale il proprio congegno politico, in sè stesso pericoloso e ora poi antiquato e disadatto, crea solitudine o diffidenza o avversione.

Questo noi oggi teorizziamo e lumeggiamo comodamente a distanza di tre secoli e mezzo: questo, per l'occhio vigilante de' suoi ambasciatori, vedeva in atto l'austera Venezia, al cui Serenissimo Principe scrivevano da Firenze quei clarissimi che - in una repubblica popolare come la fiorentina signoreggiava la plebe, la quale attendendo alle arti meccaniche, non può sapere il modo del vero governo; e che, tra per cosiffatta meccanicità e per le dissensioni intestine, la era una repubblica che aveva sempre avuto bisogno d'esser retta da altri -: ma questo stesso, e le difficoltà che ne emergevano a governare, sentiva altresì, come per istinto, una delle fazioni che si contrastavano il reggimento della recuperata libertà; quella fazione appunto, che nella persona di Niccolò Capponi fu assunta al governo. Niccolò era degli Ottimati, cioè di quella parte, propaggine dell'antico Popolo grasso, la quale, anche amando la libertà, non procedeva scevra da ambizioni personali. A quella parte, in cotesta riforma di governo, si erano accostati i molti ne' quali tale amore di moderata libertà, la libertà ormai tradizionale a Firenze, si conciliava con l'affezione ai Medici patroni, e con la disposizione a riaverli cittadini principali senza tirannide. V'erano poi i [72] Piagnoni, memori seguaci del Frate e in lui credenti, e avversari ai Medici, ma che la severità del costume e il vivo sentimento religioso segregava dagli Arrabbiati o Adirati, già contradittori delle santimonie fratesche e perciò più o meno Medicei, ma ora finiti in fazione, essi e i Libertini (i quali erano più che altro giovani e persone meglio di fatti che di parole), feroce contro il nome Mediceo, e ostile al Capponi e a quella sua maggioranza cauta e riguardosa dell'avvenire e non aliena dal patteggiare per la conservazione della libertà.

Il Capponi, fatto e poi confermato gonfaloniere a lungo termine dopo cacciati i Medici, fu il primo de' tre cittadini, nelle cui mani, l'uno dopo l'altro, l'insegna della Giustizia, rizzata fra il popolo da Giano della Bella nel 1293, sventolasse per gli ultimi anni dal 1527 al 1530 sopra libera cittadinanza. E se i due gonfalonierati successivi, di Francesco Carducci e di Raffaello Girolami, segnano il periodo eroico della resistenza e lo suggellano col loro sangue, ha la sua triste grandezza anche la magistratura di quel figliuolo di Pier Capponi. Il quale non facendosi illusioni sulle condizioni di Firenze e d'Italia, tenta valersi della fiducia che la cittadinanza ripone nell'integrità sua, per equilibrare nel governo quelli umori discordi: va bilanciando, tra Francia e Spagna, i partiti più favorevoli alla salvezza della città; dalla prudenza sua attirato verso la Spagna (come fu pure, ma felicemente, il magnanimo Andrea Doria), dalle simpatie popolari e guelfe del Comune sospinto a cercare la Francia: di Clemente stesso, che ravversa le sgominate fila della sua bieca politica papale, non rifugge dall'accogliere e ascoltare, anche con pericolo di morte e d'infamia, segrete ambasciate, le quali, chi sa?, potrebbero anche distornare i pericoli del buttarsi Firenze sia a Spagna sia a Francia, caso mai riuscisse con patti accettevoli, e non lesivi della libertà, farsi amico il Pontefice; [73] ma sopratutto gl'incombe sull'anima lo sgomento angoscioso della impotenza della Repubblica, non a combattere sibbene a vincere, e del non saper egli o evitare il combattimento, o procacciare alla sua Firenze condizioni di buona guerra. E intanto, lui gonfaloniere, la gioventù si arma, e i retori fiorentini nelle chiese de' quattro quartieri arringano per la prima volta gl'inscritti nella “nuova milizia„ cittadina, esaltando i “civili ordini fortificati coi militari„; mescolando le sentenze Aristoteliche, dai libri della Politica, con gli esempi delle romane virtù e con le memorie del libero Comune da Giano alle violenze del 1512; e nella difesa della libertà fiorentina rappresentando una difesa della libertà e dell'onore di tutta Italia, dell'Italia “pigra„ (esclama un d'essi) ed “ingrata„; e sulle armi cittadine evocando l'augusta imagine della patria, e la benedizione invocando di Cristo re. Perocchè la Repubblica, solita pur troppo, ne' grandi cimenti, a dover costringere la morbosa espansione della sua libertà mediante il correttivo d'un patronato principesco, ha questa volta cercato il suo patrono fuor de' principi della terra malfidi e venali; e sulla fronte di Palazzo Vecchio, il re di tremenda maestà Cristo ha impresso il raggiante suo stemma; e dal popolo che occupa in armi la piazza dove la curia dei Borgia ha dato ad ardere il Savonarola, dalla cittadinanza che siede legislatrice nella Sala del grande Consiglio restituita agl'intendimenti di lui, si leva il superstite canto di trionfo del Martire e Profeta:

Viva ne' nostri cor, viva, o Fiorenza,

Viva Cristo il tuo re.

Ma fuori del cerchio che sempre più dappresso chiude e stringe Firenze isolata, fra le cui mura già serpeggia, come in altre parti della povera Italia, la pestilenza che [74] quelle masse d'armi e di luridume trascorrenti e le stragi campali e lo strazio delle plebi affamate portavano seco, fuori di cotesto cerchio che presto sarà di ferro, le cose d'Italia s'avvolgono in nuove complicanze, sempre più minacciose alla vittima destinata. Clemente VII, sottrattosi fin dal dicembre del 27, fuggiasco o lasciato fuggire, alla prigionia di Castel Sant'Angelo, si ravvicina al Cesare saccheggiatore; e il trattato di Barcellona (giugno 29, il giorno di San Pietro) ferma le basi della nuova amicizia; e la suggellano, sinistramente per Firenze, le nozze che si patteggiano fra una bastarda di Carlo V e Alessandro de' Medici figliuolo, come fosse, del Papa. Da un altro lato la pace, così detta delle Dame (Margherita d'Austria per Carlo V, e Luisa di Savoia per Francesco I), ricongiunge a Cambrai (agosto del 29) i due emuli, segnando, col disonore del re cavaliere, l'abbandono de' suoi amici e alleati, primi i Fiorentini, che egli séguita, per maggior vergogna, ad affidare di vane e bugiarde speranze. E intanto le armi Spagnuole e quelle Francesi o della Lega, dove conserva tuttavia soldatesche proprie Firenze, hanno in Lombardia e nelle Puglie e intorno a Napoli continuato con varia vicenda la desolazione d'Italia, terminando col raffermarsi su di essa la prevalenza, che ormai sarà secolare, dello sconcio giogo spagnuolo. Spagnuola, ma però indipendente, da oligarchica pacificandosi in aristocrazia, si è fatta, pel grande animo del Doria, Genova; mentre l'altra gloriosa marinara d'Italia, trent'anni dopo la Lega di Cambrai, dopo retto all'urto di tutta Europa collegata a' suoi danni dalla ferocia di papa Giulio, si ritrae intatta con l'arme al piede nel vecchio territorio di San Marco, e ammaina nell'Arsenale le vele che aspettano i superbi venti della giornata di Lepanto.

Ed ecco, da' due estremi della penisola così bene assettata a non essere ormai più di sè stessa, Filiberto [75] d'Orange, sesto dei trentotto Vicerè spagnuoli ai quali è condannata Napoli, sale con Ferrante Gonzaga verso Toscana; e di Lombardia, le masnade di Antonio de Leyva si apparecchiano a scendere l'Appennino; mentre l'Imperatore a piccole e caute giornate, costeggiando Spagna e Francia, approda a Genova, e prosegue verso Piacenza, e il Papa, già restituitosi da Viterbo in Roma, muove verso la Romagna per aspettarlo in Bologna. E colà convengono nel novembre del 29 Imperatore e Pontefice, per la pacificazione (così annunziano) e l'assetto d'Italia: che vuol dire, aggiunzione della corona di Napoli alla corona imperiale; patteggiamento di ambizioni ecclesiastiche con gli Estensi e con Venezia; transazioni per le signorie di Milano, d'Urbino, di Mantova; composizione con Genova, Savoia, Lucca, Siena; conseguente cancellazione di quella che seguitava ad aver nome di Lega, sebbene già da tempo non fosse più cosa: e sola, abbandonata all'ira cesarea e all'impazienza conquistatrice di Carlo, segno ormai sicuro all'odio filiale di papa Clemente, profferta alle brutali cupidigie delle soldatesche, disconosciuta da tutti, tradita dal Re Cristianissimo, sola e disperata di salvezza, sul suo capo accogliendo il fato della libertà italiana che muore, rimane Firenze. I suoi ambasciatori a Cesare, non ascoltati in Genova, respinti in Piacenza, riportano indietro le sorti non deprecabili della città; e nel ritorno, un d'essi, il Capponi già gonfaloniere, si ammala in Garfagnana, e vi muore; muore esclamando: “Dove abbiamo noi condotto questa misera patria!„

[76]

Share on Twitter Share on Facebook